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Papa Francesco il 17 ottobre 2015, in occasione dell’assemblea generale del Sinodo dei vescovi, ne aveva ricordato l’istituzione, avvenuta cinquant’anni prima con la costituzione di Paolo VI Apostolica sollicitudo, del 15 settembre 1965. In essa il Pontefice aveva collocato il Sinodo in un ampio orizzonte spirituale e nello stesso tempo ecclesiologico — quello di una «Chiesa dell’ascolto» —, nel quale tutti vicendevolmente e all’unisono ascoltano la parola di Dio e la voce dello Spirito, e in cui la funzione della gerarchia viene interpretata mediante le categorie del servizio e non del potere.
Richiamandosi a queste idee di fondo, la segreteria generale del Sinodo dei vescovi ha deciso di organizzare un «seminario di esperti» che si è svolto dal 6 al 9 febbraio 2016 a Roma, nell’Istituto di Maria Bambina. Vi sono stati invitati 11 relatori e altri 27 esperti nelle varie discipline teologiche, quelle soprattutto che in qualche modo avevano attinenza con tematiche ecclesiologiche. Assieme ai presidenti, ai consultori e agli ufficiali della segreteria del Sinodo dei vescovi, si sono registrati in tutto 58 partecipanti.
Nelle parole di introduzione, il cardinale Lorenzo Baldisseri, in qualità di segretario generale del Sinodo dei vescovi, ha accennato al duplice scopo di questo seminario: riflettere sul piano teologico e pensare a una riforma. Si trattava di riflettere sulla sinodalità intesa come dimensione costitutiva della Chiesa e nello stesso tempo di affrontare il problema di una revisione e di uno sviluppo ulteriore dell’attuale Ordo Synodi Episcoporum.
I fondamenti biblici della sinodalità
La prima delle tre sezioni è stata dedicata a un tema fondamentale: «La sinodalità come dimensione costitutiva della Chiesa». I «Fondamenti biblici della sinodalità» sono stati esposti dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura. Al di là del modello veterotestamentario dei 70 anziani, che partecipano dello spirito di cui è rivestito Mosè (cfr Es 18,13-27; Nm 11,16-30; Dt 1,5-18), il testo fondamentale resta sempre quello di At 15, il «concilio apostolico» di Gerusalemme. Si osservino le varie fasi del suo svolgimento: la decisione vera e propria è assunta nello Spirito Santo da coloro che detengono un ufficio (gli «apostoli e anziani»), ma il tutto è inserito nella comunità dei fedeli di Gerusalemme e di Antiochia, nelle loro discussioni e nei loro conflitti.
È seguito poi il contributo sulla storia della Chiesa («La sinodalità nella storia della Chiesa»), ad opera dell’autore di queste pagine. Una relazione che per forza di cose ha dovuto limitarsi a un formato ridotto (iniziando con una battuta di spirito: «È difficile trattare 2.000 anni di storia in 45 minuti, dunque con una velocità media di 2.700 anni all’ora»). Si trattava non soltanto di mostrare come l’istituzione dei concili ecumenici sia ampiamente mutata in maniera radicale, ma anche di sottolineare il fatto che la loro distinzione nei confronti dei «concili locali» è risultata spesso difficile e si è resa chiara solo successivamente nella storia, e la loro autorità si è affermata gradualmente. Per tutti questi argomenti il relatore si è basato soprattutto sulle ricerche del suo confratello Hermann-Josef Sieben.
Come da programma, dopo ogni due relazioni è seguito il dibattito. Hermann Josef Pottmeyer (Università di Bochum) ha chiesto al cardinale Ravasi quale fosse la natura della partecipazione dei fedeli secondo At 15: solo su un piano informativo o qualcosa di più? Il cardinale Ravasi ha risposto che essa è non solo a livello informativo, ma è anche partecipazione alla natura spirituale della deliberazione.
Al secondo relatore è stato chiesto, tra l’altro: «Si può parlare di una “ecumenicità graduale” dei concili?». La risposta è stata: «In via di principio sì, ma va criticata la tendenza di alcuni che considerano soltanto i primi sette sinodi generali come “concili ecumenici” in senso pieno, mentre ritengono che gli altri, compresi quello di Trento e il Vaticano I e II, siano soltanto “sinodi generali”; questa posizione su un piano dogmatico e anche da un punto di vista storico resta molto problematica e tende a idealizzare i concili antichi».
Le due relazioni seguenti, della domenica mattina, sono state dedicate rispettivamente alle Chiese orientali (unite) e alle Chiese riformate. Il vescovo titolare Dimitrios Salachas, esarca apostolico dei cattolici di rito bizantino di Grecia, ha parlato su «La sinodalità tra il Codice di diritto canonico e il Codice dei canoni delle Chiese orientali».
Una panoramica interessante sui dibattiti svoltisi all’interno della commissione Faith and Order del Consiglio ecumenico delle Chiese e sugli attuali problemi relativi che emergono dalla comunità anglicana è stata offerta da Angelo Maffeis (docente di Storia della Chiesa alla Facoltà teologica di Milano) con la sua relazione «La sinodalità come opportunità ecumenica». Da un lato, soprattutto nel documento di Lima del 1982, la «sinodalità» — nelle tre componenti inerenti all’ufficio: «personale», «collegiale» e «comunitaria» — si presenta come una categoria promettente dal punto di vista ecumenico. Dall’altro lato, resta aperto il problema dei presupposti della sinodalità e, più precisamente, da una parte il problema della relazione tra la comunità dei fedeli e il carisma apostolico speciale dei pastori e, dall’altra, quello della relazione tra le Chiese locali e la Chiesa universale.
In particolare si pone il problema del come comportarsi in caso di dissenso, che oggi è divenuto rilevante specialmente su alcune questioni etiche (ad esempio, l’omosessualità e il giudizio sulle unioni omosessuali) e non può essere appianato con motivazioni storiche, come può avvenire per le differenze dogmatiche. In questo campo vale la maggioranza o il consenso? Nel caso della comunità anglicana o della Chiesa episcopale degli Stati Uniti (che ha ammesso all’episcopato alcuni uomini in convivenza omosessuale e poi nel gennaio 2016 è stata sospesa per 3 anni dalla comunione anglicana), si è mostrato chiaramente che le strutture sinodali non erano in grado di eliminare il dissenso. In sostanza, si rende evidente qui il «carattere promettente e, insieme, difficile della sinodalità ecclesiale».
I soggetti della sinodalità
La seconda sezione principale che, come le altre due, si è svolta in un pomeriggio e la mattina successiva, rispettivamente con due relazioni, si è occupata del tema generale «I soggetti della sinodalità: Popolo di Dio, Collegio episcopale, Vescovo di Roma».
Dario Vitali, docente di teologia dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana, ha trattato «I soggetti della sinodalità alla luce dell’ecclesiologia del Vaticano II». Anzitutto bisogna rilevare che il termine «sinodalità» non compare nel concilio, dove predomina invece il termine «collegialità»: l’attenzione si concentra cioè sulla problematica delle relazioni tra il papa e il collegio episcopale. Tuttavia, soprattutto la Lumen gentium contiene elementi che possono tornare utili per delineare una concezione generale della sinodalità. E ciò in particolare là dove si parla di una relazione reciproca, e non unilaterale, che sussiste tra il popolo di Dio e i pastori, fondata sui tre aspetti della profezia, del discernimento (soprattutto da parte dei pastori) e dell’attualizzazione.
Ha fatto seguito la relazione di Giuseppe Bonfrate, anch’egli docente di dogmatica alla Gregoriana, che ha parlato delle «Tracce di sinodalità nell’esperienza delle Assemblee sinodali». Egli ha offerto una panoramica sulla trattazione di questo tema nei sinodi dei vescovi e nel Vaticano II.
Uno studio canonistico dettagliato delle norme di diritto canonico che regolano il Sinodo dei vescovi è stato presentato il mattino successivo da Paolo Gherri, docente di Diritto canonico all’Università Lateranense. Nella sua relazione «L’evoluzione della normativa canonica sul Sinodo dei vescovi» ha fornito ai partecipanti una sinossi delle norme contenute nell’ Apostolica sollicitudo del 1965, nel Codice di diritto canonico (CIC) del 1983 e negli Ordines dei sinodi dei vescovi del 1967, 1969, 1971 e 2006.
Nuove prospettive interessanti sono emerse dalla relazione di Alphonse Borras (docente di Diritto canonico a Lovanio), dal titolo «Le istanze della sinodalità». Egli è partito dalla teologia del popolo di Dio, dalla corresponsabilità di tutti i battezzati, da cui deriva la sinodalità fondamentale della Chiesa in quanto tutto il popolo di Dio ne diviene soggetto. «Essa suppone la circolarità tra la funzione profetica di tutti i fedeli (“tutti”), il discernimento operato dai vescovi, in particolare come collegio episcopale (“alcuni”) e l’autorità primaziale del vescovo di Roma (“uno”)».
Ne derivano alcune esigenze concrete: «dall’ascolto alla consultazione», cioè occorre istituzionalizzare l’ascolto creando organismi che vengano consultati abitualmente. Ma ciò comporta anche il superamento della semplice alternativa tra il «consultare soltanto» (e quindi, in fondo, senza essere vincolati) e il «decidere in senso stretto». Si tratta invece di una collaborazione attiva che si esplica nell’elaborare decisioni (law-making, anziché law-taking).
La conseguenza sarebbe quella contemplata dal c. 127 § 2,2 del CIC del 1983 o del n. 171a del Direttorio del 2004 sul sinodo diocesano, e cioè che l’autorità a cui spetta l’ultima decisione potrebbe opporsi al voto della maggioranza di un organo consultivo solo per gravi motivi. Il che comporta ulteriori conseguenze per i singoli organi: sul piano parrocchiale, sarebbe auspicabile che il diritto canonico generale imponesse dei consigli parrocchiali obbligatori. Per quanto riguarda le istanze intermedie tra la Chiesa universale e la Chiesa locale, si dovrebbe superare la concezione del «tutto o niente» della collegialità episcopale. La collegialità «autentica», infatti, risiede solo sul piano della Chiesa universale, mentre per il resto si dovrebbe parlare soltanto di collegialità «affettiva».
In pratica, le conferenze episcopali, dal punto di vista storico, sarebbero subentrate ai concili locali (che si tengono più raramente) e adempirebbero alla loro funzione primitiva. Anche una collegialità che si manifesta «soltanto» in una parte della Chiesa possiede la caratteristica dell’apertura alla «cattolicità» e alla communio con tutta quanta la Chiesa.
Un valore particolare è insito infine nelle conferenze episcopali continentali (come in Europa, nell’America del Nord, nell’America Latina, nell’Africa subsahariana, nell’Asia meridionale e in quella orientale), simili in parte agli antichi «patriarcati». Esse non dovrebbero essere intese come istanze intermedie lungo un asse verticale di una piramide che va dalla base al vertice, ma «in una triplice prospettiva trasversale della communio fidelium in questo luogo, della communio Ecclesiarum, in modo diacronico e sincronico, e della communio episcoporum, la cui collegialità si comprende cum et sub Petro».
L’esercizio della sinodalità
La terza sezione del simposio, che si è svolta il lunedì pomeriggio (8 febbraio) e il martedì mattina, si è occupata del tema «L’esercizio della sinodalità: livelli, modi, luoghi».
Manuel Jesús Arroba, docente di Diritto processuale all’Università Lateranense, sotto il titolo «Il recente rinnovamento della metodologia sinodale» ha illustrato alcuni elementi particolari che hanno caratterizzato l’ultimo sinodo, soprattutto la suddivisione in due sedute nel corso dell’anno e il questionario che ha reso possibile il coinvolgimento di un gran numero di fedeli.
Alcune proposte di modifica sono state illustrate poi da mons. Fabio Fabene, sottosegretario del segretariato del Sinodo dei vescovi, nella sua relazione «Verso una revisione dell’Ordo Synodi Episcoporum». Andrebbe chiarito anzitutto il concetto di «rappresentanza»: si tratta soltanto di una rappresentanza «morale», o bisogna attribuirle anche un «significato giuridico»? Inoltre, si dovrebbe riflettere su una possibile rappresentanza di quei vescovi che non sono membri di una conferenza episcopale (vescovi titolari e vescovi emeriti, che non esistevano ancora di fatto al tempo del Vaticano II e quando sono iniziati i sinodi dei vescovi). L’ordinamento attuale, che in pratica attribuisce uno stesso peso a tutte le conferenze episcopali, viene a privilegiare in realtà quelle piccole rispetto alle grandi.
E ancora, si dovrebbe riflettere sul modo con cui nel sinodo dei vescovi si potrebbe accordare una certa rilevanza alle unità continentali, attraverso corrispondenti istanze continentali, oppure attraverso «pre-sinodi» continentali preparatori.
Infine, nel concilio Vaticano II molti padri conciliari avevano espresso il desiderio di creare un sinodo di vescovi, nel senso che si istituisse un organo consultivo permanente per il Papa, formato da vescovi di tutto il mondo e distinto dalla Curia. Come si potrebbe realizzare questo desiderio per i periodi di tempo che intercorrono tra un sinodo e quello successivo? Inoltre, l’Ordo del sinodo dei vescovi potrebbe contemplare la possibilità che il sinodo si svolga in diverse sedute. E l’esperienza di quest’ultimo sinodo potrebbe anche consigliare di rendere istituzionale il coinvolgimento delle diverse istanze del popolo di Dio, nel senso dell’adagio citato da Papa Francesco: Quod omnes tangit, ab omnibus debet tractari (Ciò che riguarda tutti, deve essere trattato da tutti).
Si pone infine un problema riguardo alla maggioranza qualificata che viene richiesta. Essa di solito resta fissata su due terzi per gli organi che assumono decisioni vincolanti (ad esempio, le conferenze episcopali). Ma poiché si tratta qui di proposte su cui deve decidere il Papa, una simile maggioranza qualificata non sarebbe necessaria: sarebbe sufficiente che egli conoscesse quanto grande o ristretto sia il consenso o la maggioranza e di conseguenza prendesse la sua decisione.
A queste due relazioni è seguito nuovamente un ampio dibattito. In esso ci si è soffermati, tra l’altro, sulla questione della periodicità dei sinodi episcopali romani (per i quali si sono richiesti soprattutto lunghi periodi di tempo perché se ne possa prendere coscienza), ma anche sulla partecipazione dei laici: questi non dovrebbero forse essere ammessi come membri effettivi, e non semplicemente come auditores o periti? Su questo punto si è obiettato ancora che il vero luogo della presenza dei laici è il sinodo diocesano.
Il martedì pomeriggio sono seguite ancora due relazioni. La prima è stata quella di Joseph A. Komonchak, professore emerito di Teologia e Studi religiosi alla Catholic University di Washington, su «Theological Perspectives on the Exercise of Synodality in the Church» (Prospettive teologiche sull’esercizio della sinodalità nella Chiesa).
Sotto il titolo «Non separare la Chiesa dai credenti», egli ritiene che la più grande critica che si possa muovere legittimamente al Vaticano II è di aver dedicato ben poca attenzione alle conseguenze strutturali e istituzionali della sua ecclesiologia della communio. Come mai, al di fuori degli ordini religiosi, non vi sono sul piano canonico organi decisionali collegiali? Come mai, quando si citano istruzioni di papi relative alla partecipazione di tutti i fedeli alle decisioni che li riguardano — ad esempio, nella scelta dei vescovi — e che sono state recepite persino nelle collezioni medievali di diritto canonico, si bollano subito tali questioni come se fossero tentativi disdicevoli di «democratizzazione» della Chiesa e una minaccia alla sua struttura gerarchica?
E sotto il titolo «Non separare la Chiesa dalle Chiese», egli vede l’esempio più evidente di questa errata astrazione nella priorità ontologica unilaterale accordata alla Chiesa universale rispetto alla Chiesa locale, che sarebbe implicita nella communionis notio. La concezione patristica inizia invece con la Chiesa locale, intesa non come una parte della Chiesa universale, ma come presenza della Chiesa in un determinato luogo. Dal lato storico, la collegialità non inizia affatto sul piano dei sinodi ecumenici, ma su quello dei concili regionali, i quali si mostravano anche aperti verso concili «ecumenici», che all’inizio non si distinguevano chiaramente da essi.
«Non separare la Chiesa dalla storia»: la Chiesa non è posta all’inizio come in una coltura batterica, per iniziare poi in un secondo momento a relazionarsi con il «mondo», ma la sua origine è nello stesso tempo «un coinvolgersi con il mondo». Anche Komonchak si pronuncia contro una concezione della collegialità intesa come «tutto o niente», che, ad esempio, nel documento Apostolos suos si fonda sul fatto che nella Chiesa vi sono soltanto due elementi di «diritto divino»: anzitutto la Chiesa universale, ossia il papa, e poi la Chiesa locale, ossia l’ufficio episcopale o il singolo vescovo.
Questa riduzione delle strutture ecclesiali alla questione dello ius divinum è un letto di Procuste, che non è compatibile con la realtà storica e forza la riflessione teologica. Secondo il relatore, l’ecclesiologia dovrebbe essere intesa «come la ricerca dell’autorealizzazione della Chiesa nelle Chiese. L’unica Chiesa è una comunione di Chiese locali, ciascuna delle quali è quest’unica Chiesa in un particolare tempo e luogo, dovendo far fronte a particolari opportunità e sfide. L’unica Chiesa è un soggetto storico che agisce in e attraverso le molte Chiese, che sono un’unica Chiesa, perché fondate sulla Parola di Dio e vivificate dallo Spirito Santo, e per questa ragione esse sono un’unica comunione cattolica».
L’ultima relazione, di Giacomo Incitti, docente di Diritto canonico all’Urbaniana, dal titolo «Prospettive giuridiche della sinodalità», ha sviluppato ulteriormente alcuni concetti. Che cosa significa «sinodalità»? Questo è un termine che va oltre quello di «collegialità» (che si restringe al livello episcopale). E a differenza del termine «democrazia», che riguarda il detentore del potere e la sua origine, con esso si esprime un «andare insieme» (syn-odos) e una responsabilità comune di tutti, a seconda dei carismi di ognuno.
Si tratta inoltre di un «cammino verso la decisione», dove ognuno deve mettersi in ascolto, non per soverchiare gli altri, ma per ricercare la verità e il bene della Chiesa e giungere così a un «consenso», che non consiste di per sé nel numero dei voti, ma nella «convergenza spirituale verso l’unità», che si esprime nella tendenza all’unanimità.
Seguono poi riflessioni sulla decentralizzazione, la sussidiarietà e altri problemi, tra cui non resta escluso quello della nomina dei vescovi. Su questo punto potrebbero essere utili procedure simili a quelle adottate nelle Chiese orientali, anche in una prospettiva ecumenica.
Conclusione
Come sempre, in questo incontro sono venuti alla luce gli aspetti più diversi. Chi scrive ritiene che il seminario abbia soprattutto contribuito a superare un infruttuoso aut-aut — un «tutto o niente» — in due settori. Il primo riguarda il valore della decisione sinodale, dove la responsabilità ultima è lasciata a una sola persona (papa, vescovo, parroco). Essa è qualcosa di più di un semplice «consiglio», ma va collocata nell’ambito di una decisione spirituale comune, per cui il risultato finale non è opera di uno solo, che si fa consigliare dall’esterno anche da altri, ma è frutto di uno sforzo comune, il risultato della koinonia/communio.
L’altro settore concerne il valore teologico che assumono le istanze sinodali tra la Chiesa locale e la Chiesa universale e, già in base agli sviluppi storici, la rilevanza originaria e primaria che spetta ai concili. In essi si manifesta la Chiesa «cattolica», ma in relazione al tempo e al luogo, per lo più in maniera più accentuata che nei concili «ecumenici». Una distinzione netta tra ius divinum e ius humanum resta ancorata qui su una concezione astorica e fa violenza alla storia reale.
Naturalmente, sono rimaste ancora diverse questioni aperte, oppure sono state affrontate solo brevemente. Ne menzioniamo due. Anche da parte cattolica, si aderisce sempre più alla posizione dell’arcivescovo Zizioulas, secondo il quale a ogni livello ecclesiale — quello della diocesi, della provincia ecclesiastica, del patriarcato e infine della Chiesa universale — devono valere due elementi strutturali: quello del prōtos e quello del Sinodo, che devono cooperare tra loro e completarsi nella loro polarità. Ma la loro relazione su questi diversi piani è dello stesso genere? Secondo la concezione cattolica tradizionale, la relazione tra il vescovo e il sinodo diocesano è «la più monarchica», la relazione sul piano delle istanze intermedie (almeno fra i vescovi) «la più democratica», mentre la relazione tra il papa e il concilio sta su una via di mezzo. Il Papa non può «essere messo in minoranza» dal concilio, per lo meno non quando assume una decisione definitiva (cosa che non si è mai verificata con Paolo VI, il quale anche come un semplice padre conciliare ha presentato dei «modi»), ma il presidente di una conferenza episcopale può essere battuto dalla maggioranza dei suoi confratelli vescovi. Perciò proprio questo «livello intermedio» non è forse quello più conciliare-sinodale?
Un’altra questione riguarda il «consenso» e la «maggioranza». Si è certamente d’accordo sul fatto che la forma più autentica di una decisione conciliare è quella dell’«unanimità morale» e del «consenso»; almeno come ideale e come scopo da raggiungere, questo corrisponde alla tradizione della Chiesa. Ma nella storia della Chiesa possono presentarsi situazioni in cui buona volontà e apertura spirituale non sono in grado di superare il dissenso su decisioni importanti. E l’idea che, almeno nelle decisioni che riguardano la fede, nella Chiesa antica sia stato osservato rigorosamente il principio del consensus moraliter unanimis, come ha affermato la minoranza nel Vaticano I, già da tempo è considerata un mito: si pensi soltanto al concilio di Efeso (431) e al Costantinopolitano II (553).
Si può affermare, con Congar, che la «maggioranza» rappresenta la linea guida, ma nel processo conciliare il «consenso» va inteso come il punto finale da raggiungere. Ne consegue che una maggioranza che non tiene conto delle osservazioni della minoranza, e contravviene pertanto alla legge del dialogo conciliare, farebbe sì che la minoranza si trinceri nel suo ruolo di opposizione e ritenga di poter bloccare tutto. In determinate situazioni, può essere ragionevole porre tra parentesi e rimandare al futuro questioni nevralgiche, sulle quali almeno sul momento non vi è consenso, come è avvenuto a Trento riguardo alla relazione tra il papa e i vescovi; altrimenti, in linea generale, si giungerebbe spesso a immobilizzare il concilio su questioni di attualità.
Ma proprio il problema della maggioranza e del consenso, che non si può risolvere all’interno del concilio o per lo meno non può essere risolto una volta per tutte, richiama il ruolo irrinunciabile che assume l’ufficio petrino nel processo conciliare: a seconda dei casi, esso deve sensibilizzare la minoranza sugli intenti della maggioranza, suggerire compromessi, tenendo presente la posizione della minoranza anche contro la maggioranza (come ha fatto Paolo VI nel Vaticano II) e in genere superare i «punti morti». Le difficoltà incontrate nel «concilio panortodosso»[1], da poco terminato, possono fornire a questo riguardo un esempio istruttivo.
[1]. Cfr E. Farrugia, «Il Santo e Grande Sinodo panortodosso. Documentazione e reazione», in Civ. Catt. 2016 IV 53-67.