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Si è detto che la musica, essendo un linguaggio asemantico, ossia non descrittivo o non correlato a una realtà ad esso esterna, si trova meglio in un orizzonte di tipo simbolico-concettuale, nel quale essa riesce a riflettere e a far propri valori astratti di tipo universale. Per questo la musica classica, dal primo Settecento a Beethoven, ha raggiunto il suo culmine perché in quell’epoca esistevano modelli simbolico-universali, assoluti, nei quali il singolo si riconosceva. Il riferimento è alla fuga, modello di teocentrismo, e alla forma sonata, modello dialettico di stampo illuministico. Era, quella, l’epoca dominata dalle aristocrazie, e per l’aristocratico l’arte non doveva esprimere valori personali o soggettivi: doveva invece raffigurare valori universali, cosmici, metafisici, come erano i postulati sociali e politici che legittimavano il potere dei nobili.
Forse è questa la ragione che spiega perché, anche ai nostri giorni, raffinati intellettuali come Émile Cioran e Aharon Appelfeld abbiano sperimentato la dimensione religiosa della vita grazie alla mediazione di Bach.
Il discorso è cambiato quando si è venuta affermando la borghesia, con il suo realismo. Il borghese, uomo della famiglia e del lavoro, voleva musica e arti che consolassero la sua fatica e lo introducessero nel mondo dell’evasione e del sogno, cioè delle emozioni soggettive e degli stati d’animo. Non più, dunque, quei valori universali impliciti nella fuga o nella forma sonata, che si rapportavano a concetti di carattere trascendente o comunque astratto. Il pubblico borghese esigeva un’arte dichiaratamente realistica[1].
Qui viene in mente Brahms, con la sua malinconia di uomo moderno, che Hugo Wolf chiamò «malinconia dell’impotenza», con le sue incertezze sul perché dell’esistenza e sul destino dell’umanità, che oscillava tra Goethe (Harzreise im Winter) ed Hölderlin (Hyperions Schicksalslied), che per i casi solenni della vita ricorreva a Goethe ma, quando lo possedeva la musa tragica, apriva la Sacra Scrittura — lui ateo — e ne traeva le parole che gli parevano più adatte a sostenere il suo pessimismo. Questo uomo moderno, figlio dell’alta civiltà cristiana europea, s’era comprato, quando ancora era un ragazzo povero, una Bibbia, il suo primo libro, e, con matite rosse e blu, aveva sottolineato i passi che gli sarebbe piaciuto mettere in musica. Dalla Scrittura aveva tratto i testi del Deutsches Requiem per la morte di sua madre e dei Vier ernste Gesänge, idealmente dedicati a Clara Schumann morente[2].
A queste interpretazioni, e ad altre possibili, sembra sfuggire Mozart. Henri Ghéon vedeva, anche nelle composizioni mozartiane dell’ultimo periodo, «un acrobata che sorride mentre vola elegantemente da un trapezio all’altro, a venti piedi di altezza», nel quale «la scienza ha raggiunto la bellezza»[3]. Il riferimento è alla scienza del contrappunto. Massimo Mila, trattando del teatro mozartiano, scorge, come suo fondamento, la serenità e la gioia, «ma una segreta malinconia vi s’insinua in sempre più larga misura, un assillo sempre più imperioso d’alti pensieri di morte, e ne nasce quel divino riso tra le lacrime, quell’ambiguità di gaiezza smorzata in un sospiro, che è il contrassegno della melodia mozartiana»[4]. E, stroncando l’opinione degli stolti che parlano di «Mozart apollineo, in certo modo al di fuori dell’umanità o, peggio, tutto frivole eleganze settecentesche», afferma che il musicista ha lasciato dietro di sé «una parola di aureo equilibrio, di raffaellesca euritmia nella completezza armoniosa di tutte le facoltà umane»[5].
Karl Barth e Mozart
A Mozart ci richiama un volumetto di Karl Barth (1886-1968)[6] pubblicato di recente. La relazione tra l’illustre teologo e la musica di Mozart è la storia di un lungo e fedele amore. In un altro volumetto, risalente al 1956, scritto in occasione del secondo centenario della nascita di Mozart (1756-91), Barth raccontava gli inizi di questo amore. Ricordava che, a cinque o sei anni, ascoltando suo padre eseguire al pianoforte la battuta Tamino mein! O welch ein Glück dal secondo atto della Zauberflöte, «ne fui afferrato fin nell’intimo»[7]. Al punto da scrivere ormai settantenne: «Se mai dovessi giungere in paradiso, domanderei anzitutto di Mozart, e soltanto dopo cercherei Agostino e Tommaso, Lutero, Calvino e Schleiermacher. Ma quale spiegazione dare? Forse, in poche parole, questa: il pane quotidiano comprende anche il gioco. Io sento che Mozart — il Mozart degli anni giovanili e quello più maturo, e come nessun altro — gioca. Il giocare è però qualcosa che richiede grande abilità e pertanto un impegno alto e severo. Sento in Mozart un’arte del gioco, quale non mi è dato di percepire in nessun altro»[8].
Per il bicentenario della nascita, Barth scrisse addirittura al musicista una lettera di ringraziamento: «Ciò di cui Le sono grato, per dirla schietta, è questo: ogni volta che L’ascolto, mi sento trasportato sulla soglia di un mondo che, col sole e nella bufera, di giorno e di notte, è felice e ordinato, e poi, come uomo del XX secolo, mi sento ogni volta infondere coraggio (non orgoglio!), vivacità (non una vivacità esagerata!), purezza (non una purezza stucchevole!), pace (non una pace illusoria!). Con la Sua dialettica musicale nell’orecchio si può essere giovani e invecchiare, lavorare e riposare, essere lieti e tristi: in una parola, si può vivere. Ora Lei sa assai meglio di me che per vivere occorre ben altro che la migliore musica. Eppure certa musica, più di altra, aiuta gli uomini a vivere. La Sua musica, questo aiuto lo dà. Poiché di ciò io ho avuto esperienza nel corso della mia vita, e poiché ritengo che la nostra epoca, che si va facendo sempre più oscura, abbia per l’appunto bisogno del Suo aiuto, io Le rendo grazie perché è vissuto»[9].
E concludeva la sua lettera con un giudizio rimasto famoso: «Forse gli angeli, quando sono intenti a rendere lode a Dio, suonano musica di Bach, ma non ne sono del tutto sicuro; sono certo, invece, che quando si trovano tra di loro suonano Mozart ed allora anche il Signore trova particolare diletto nell’ascoltarli. Ora, può essere che questa alternativa sia errata. E comunque anche di questo Lei è al corrente meglio di me»[10].
Barth riconosceva a Mozart il dono di dispiegarsi musicalmente con levità e con serietà, con grazia di fanciullo e inquietudine di uomo[11], il dono d’aver pronunciato una parola ultima sulla vita giocando, rivelando «il gioco sullo sfondo del lavoro e il piacere sullo sfondo della vita»[12]. Come gli altri due autori citati, anche il teologo di Basilea quasi non riusciva a parlare della musica mozartiana senza ricorrere alla categoria del gioco.
L’uomo che gioca
Ma che significa «giocare», «gioco», «uomo che gioca»? Che significa questa categoria applicata a Mozart? Noi abbiamo trovato la migliore spiegazione o delucidazione in un noto saggio di un insigne patrologo che qui riassumiamo[13]. Nell’argomento che stiamo trattando, gioco non è la comune e banale attività psico-fisica. È il «dominio del corporeo da parte dello spirito [che] ha in qualche modo trovato la propria perfezione nella agile levità, nella quasi aerea eleganza dell’“essere capaci di fare”; se la parola o il suono o il gesto sono disponibili e arrendevoli allo spirito; se il corporeamente visibile è divenuto espressione di un’interiore ricchezza paga di sé»[14]. Simboli di tale prodigio sono il bambino che gioca felice e l’artista che crea. Secondo noi, questo pensava Barth quando ascoltava, e sentiva, Mozart.
L’uomo che gioca è un uomo serenamente serio, come sono sereni e seri i bambini quando giocano, felici di star compiendo il loro dovere. La sua serenità (la Heiterkeit mozartiana) non gli impedisce di essere un uomo tragico, che ride e piange, che sorride tra le lacrime (come Mila diceva di Mozart), «perché ha penetrato le maschere tragicomiche del gioco della vita e misurato gli opprimenti limiti dell’esistenza terrena»[15]. L’uomo che gioca realizza l’ideale greco del sapiente serio e sereno, contrapposto al rigore stoico che proibiva la letizia al sapiente. Se poi è cristiano, la malinconia non scaccia la serenità e neppure precipita questa nella disperazione che si annida nell’osservazione e nella partecipazione alle cose della terra, perché la labilità delle vicende e delle opere umane sono viste attraverso le lenti della speranza che orienta a Dio, conferendo più profonda verità alla serietà e alla serenità del gioco[16] Sono elementi che la musica mozartiana ridesta e mantiene nell’anima. Barth l’aveva capito. Ma forse, per comprenderlo, occorre una certa «innocenza» dell’anima, senza la quale il gioco diventa comprensibile soltanto come attività ludica, svago dal lavoro ordinario, e Mozart corre il rischio di essere ancora confuso con i musicisti che rallegravano i salotti settecenteschi[17].
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[1] Cfr P. Fenoglio, «L’anelito all’infinito e il ripensamento della forma classica: le due anime del romanticismo musicale tedesco», in Bollettino della Società Letteraria 9 (1996) 207 s.
[2] Cfr S. Marinotti, «Il destino di Brahms», in Vita e Pensiero 81 (1998) 227; P. Buscaroli, «In cerca di Brahms sfogliando la Bibbia», in il Giornale, 15 marzo 1997, 22.
[3] H. Ghéon, Mozart, Milano, Nuova Accademia, 1961, 259.
[4] M. Mila, Breve storia della musica, Torino, Einaudi, 1963, 189.
[5] Ivi, 192 s.
[6] Cfr K. Barth, Ultime testimonianze, Brescia, Morcelliana, 2015. L’originale tedesco fu pubblicato nel 1969.
[7] Id., Wolfgang Amadeus Mozart, Brescia, Queriniana, 1980, 9. L’originale tedesco fu pubblicato nel 1956.
[8] Ivi, 10.
[9] Ivi, 13 s.
[10] Ivi, 14 s.
[11] Cfr ivi, 36-38.
[12] Id., Ultime testimonianze, cit., 26.
[13] Cfr H. Rahner, L’ homo ludens, Brescia, Paideia, 1969. L’originale tedesco è del 1952.
[14] Ivi, 12.
[15] Ivi, 32.
[16] Cfr ivi, 40-44.
[17] Cfr J. Moltmann, Sul gioco. Saggi sulla gioia della libertà e sul piacere del gioco, Brescia, Queriniana, 1971, 21-26.