Abbiamo già trattato in un articolo precedente l’antropologia del lavoro contemporaneo[1]. Ora riprendiamo le considerazioni di un gruppo di riflessione sulla dimensione umana del lavoro, che ne esaminava l’inserimento nel contesto economico, ecologico e sociale: se è vero che il lavoro ha lo scopo di prendersi cura della natura e della società, è anche vero che questa cura deve valere anche per il lavoratore[2]. Il lavoro talvolta è costrittivo, come ricordava l’articolo precedente, evocando, accanto ai suoi eccessi, il ruolo positivo della compliance («conformità» a leggi, decreti, regole, procedure, protocolli e titoli). Non c’è infatti bisogno di Socrate per capire che sottomettersi agli standard non è un atto privo di significato. A patto, naturalmente, che non si tratti di un effetto automatico, perché la «conformità» va alimentata con un ingrediente essenziale: la speranza di una gestione più equa delle attività e dei rapporti tra le parti interessate. È questo che dà senso al lavoro, sia per i dirigenti sia per i dipendenti, ed è anche la condizione previa al manifestarsi della spiritualità del lavoro. Il lavoro che non ha senso, che è mera identificazione con una procedura o è meccanica sottomissione alla norma, non può in
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