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ABSTRACT — Sono trascorsi 400 anni dalla morte di Justus Takayama Ukon, ricordato e venerato in Giappone non solo come martire, ma anche come grande testimone della fede cristiana, praticata a contatto con le missioni della Compagnia di Gesù. Egli è stato il più grande missionario giapponese del Cinquecento proprio per il suo vivere la fede cristiana con quelle caratteristiche di tenacia, rigore, fedeltà tipiche del popolo giapponese, favorendo l’inculturazione del cristianesimo per mezzo della sua testimonianza di vita, che lo ha visto infine morire in esilio. A motivo di questa sua testimonianza, i pagani chiamarono il cristianesimo la «legge di Takayama». Già alla sua morte si parlava di lui come di un santo.
Ukon Takayama nasce nel 1552 a Haibara-cho, in Giappone, da una famiglia di proprietari terrieri. Si converte al cristianesimo a 12 anni, quando entra in contatto con i missionari gesuiti. Il Vangelo infatti viene introdotto in Giappone da Francesco Saverio nel 1549 e si diffonde rapidamente.
Al suo arrivo, avvenuto il 15 agosto 1549, il gesuita constatò come questo popolo fosse desideroso di conoscere il Vangelo e, a contatto con gli usi e costumi locali, accrebbe ancora di più la sua stima per gli alti valori morali e spirituali di cui i giapponesi davano prova: valori che di lì a poco avrebbero giocato un ruolo decisivo nell’accogliere e nel vivere la fede cristiana.
Una caratteristica fondamentale del popolo giapponese consisteva nel desiderio che ogni giapponese aveva di conservare il proprio onore davanti agli altri: questo rendeva l’individuo non soltanto capace di rinunciare e relativizzare altri valori, ma anche più disposto all’ascesi e alla vita austera.
Quando lo shōgun Toyotomi Hideyoshi sale al potere, i suoi consiglieri lo spingono a vietare la pratica del cristianesimo. Tutti i grandi feudatari accettano questa disposizione, tranne Ukon. Egli preferisce perdere le sue proprietà, la sua carica e l’onore, ed è costretto ad andare in esilio. Con altri 300 cristiani giapponesi fugge a Manila, dove poco dopo si ammala e muore il 4 febbraio 1615.
Ukon mostrò che la fede cristiana come amore non si oppone a nessuna cultura, anzi è in grado di approfondire e di portare al proprio compimento ogni cultura. Il cristianesimo mette in discussione una cultura soltanto se essa tende ad assolutizzarsi o se un’autorità profana intende sostituirsi a Dio.
La sua testimonianza di fede è stata ed è convincente e, come la sua vita ha condotto molti al Vangelo, così anche il sangue del suo martirio può continuare ad essere «seme di cristiani».