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ABSTRACT — La tristezza non è certamente un sentimento desiderabile o attraente. Non lo è mai stata, anche se ha avuto una certa considerazione in ambito letterario e filosofico e ha in generale influenzato l’intera storia della cultura e della ricerca medica in occidente. A partire dal secondo dopoguerra, forse con l’intento di lasciarsi alle spalle gli orrori di quanto accaduto, si è cercato di eliminare la tristezza per proporre una visione dell’esistenza all’insegna della perfetta serenità. Magari artificiale.
Nel 2007 uscì negli Usa una ricerca dal titolo La perdita della tristezza. In essa si notava la preoccupante tendenza a confondere la tristezza motivata (la tristezza con causa) con la depressione (la tristezza senza causa). Mentre quest’ultima è da curare, anche con farmaci, la prima è invece importante per una vita sana e ricca sotto il profilo umano. L’ultima edizione (la quinta) del testo di riferimento più autorevole per la salute mentale, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), pubblicato nel 2013 e tradotto in italiano l’anno successivo, ha finito per patologizzare comportamenti e tendenze che esprimono tristezza, prescrivendone la cura fin dall’infanzia (cosa che le edizioni precedenti non avevano mai fatto).
Questo cambiamento di indirizzo non è legato soltanto alla psichiatria, ma riflette un più generale clima culturale, che può essere esemplificato da una celebre opera teatrale di A. Miller, Morte di un commesso viaggiatore. Un altro segno preoccupante della marginalizzazione della tristezza è la crescente diffusione tra adolescenti e giovani dell’alexitimia, cioè dell’incapacità di riconoscere ed esprimere il proprio vissuto affettivo, una situazione di cronica freddezza e superficialità.
Eppure la tristezza è parte della vita e aiuta a coglierne la ricchezza di sfumature; essa racchiude inoltre insegnamenti preziosi per vivere bene. Cercare di decurtarla sarebbe come eliminare la notte dal corso della giornata: eliminare la tristezza significa precludersi la possibilità di accedere ai sentimenti e atteggiamenti ad essa speculari, come la gioia, la pace, la creatività, il gusto di vivere. Persino a compiere con prontezza il bene. Non a caso la tristezza era già molto studiata dagli antichi, che ne riconoscevano la complessità e profondità; e suggerivano rimedi e indicazioni per interpretarla, come per esempio san Tommaso a sant’Ignazio di Loyola. Ha scritto lo psichiatra A. Frances: «Se non riusciamo a sopportare la tristezza, non siamo neanche in grado di essere felici».