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Introduzione
Non possiamo chiedere ai personaggi storici come mai le domande che si sono posti fossero importanti ai loro tempi, e tantomeno possiamo indurli a rispondere a quesiti che sono significativi ai giorni nostri. Qualche mediocre studioso potrebbe approfittare di questa loro assenza per liquidare sbrigativamente il passato come insulso nella sua epoca e inservibile nella nostra. Tuttavia nel suo libro più recente, intitolato The Education of a Historian: A Strange and Wonderful Story[1], il gesuita statunitense John W. O’Malley spiega come la storia non ci consenta di fare una simile affermazione. La prospettiva di un bravo storico ci aiuta invece a capire perché e come il passato abbia senso entro i propri termini.
Questa lezione ci viene proposta ora da uno dei più importanti storici del nostro tempo. A molti il suo nome farà venire in mente la sua opera più popolare, The First Jesuits, del 1993[2], tradotta in 12 lingue, o l’altra del 2008, What Happened at Vatican II[3]. Quest’ultimo libro, pubblicato per il cinquantesimo anniversario dell’annuncio del Concilio Vaticano II da parte di san Giovanni XXIII, ha catturato l’attenzione mondiale. Dall’alto del curriculum di 12 monografie a sua firma, quattro delle quali di impatto rivoluzionario e molte altre pluripremiate, nella classifica degli studiosi O’Malley occupa un posto rilevante. Tuttavia, è pronto a ricordarci che «gli storici non sono spiriti disincarnati». E forse sarà stato il timore di essere scambiato per un titano di stirpe divina che gli ha ispirato The Education of a Historian, come un testamento che rivolge a noi proprio allo scopo di attestare la sua profonda umanità. Questo libro racconta «la storia di come abbia fatto un giovane di modeste origini di una piccola città dell’Ohio a raggiungere credito internazionale come storico della cultura religiosa dell’Europa moderna» (p. 2).
Nel corso degli anni la scrittura di O’Malley è stata guidata da un preciso principio: se avesse davvero capito un problema, avrebbe dovuto essere capace di spiegarlo a un vispo bambino di 10 anni. «Se non ne fossi stato in grado – egli scrive –, sarebbe stato segno che stavo girando intorno al problema, piuttosto che colpire nel segno». Leggere questa affermazione mi ha fatto pensare ad alcuni dei suoi altri scritti, in particolare a Vatican I[4]. Alla mia generazione di africani il Concilio Vaticano II (1962-65) ha offerto la possibilità di diventare cattolici senza dover rinunciare alla nostra africanità. E i termini «pre-Vaticano II» e «Vaticano I» ci suonavano sprezzanti, anche se non avevamo idea di che cosa fosse il Vaticano I (1869-70). Studiando teologia, ne avevamo appreso solo sporadiche frasi e, occasionalmente, sentenze riprese da fonti secondarie allo scopo di avanzare una critica negativa. Per quanto mi riguarda, è stato soltanto dopo aver letto Vatican I di O’Malley che ho imparato qualcosa sul contesto e sui contenuti di quel Concilio. Nel suo stile abituale, semplice e accessibile, egli ha reso umani i personaggi «pre-vaticani» e ci ha mostrato quanto fossero serie le domande che essi si ponevano.
In The Education of a Historian O’Malley ci racconta come fa uno storico a raggiungere quel livello di chiarezza. Scritto per un vasto pubblico, il libro è accessibile – finora – a chiunque sappia leggere l’inglese. Si potrebbe dire che se ne sentiranno direttamente interpellati tre tipi di lettori: lo storico, il cristiano e il gesuita.
Il mestiere di storico
Per O’Malley, la professione dello storico è sostanzialmente un mestiere. Attraverso la formazione, egli acquisisce le competenze di base per esercitarlo. La pratica gli conferisce poi l’esperienza e lo munisce di nuovi strumenti, che aggiungerà uno dopo l’altro alla sua cassetta degli attrezzi. The Education of a Historian ci permette di guardare dentro quella di O’Malley. È difficile immaginare un qualsiasi storiografo, maestro o apprendista, poco interessato a scoprire quali strumenti questo artigiano di successo abbia usato nel corso degli anni.
Ne evidenzierò solo quattro, tutt’altro che esaustivi rispetto a ciò che si trova nel libro. Il primo strumento, semplice ma indispensabile, è avere una missione chiara. Così O’Malley descrive la propria: «Aiutarci a capire da dove veniamo, aiutarci a capire come siamo arrivati a essere quelli che siamo, che cosa siamo, dove siamo, e quindi aiutarci ad affrontare la realtà in cui viviamo» (p. 153). Secondo lui, lo storico, mettendosi al servizio di questa missione, rende «operante la memoria del nostro passato collettivo nelle nostre vite». Compito non facile, anche perché «una comprensione completa [di quel passato collettivo] è impossibile a noi mortali». La maggior parte degli storici sarebbe d’accordo sul fatto che «anche eventi a volte apparentemente semplici si rivelano, a un esame, molto più complessi di quanto sembrassero a prima vista» (pp. 174 s). Questa schietta ammissione di finitezza richiede una grande umiltà da parte dello storico e, ovviamente, di tutti noi. Nel suo lavoro, O’Malley ha fornito ai lettori, con il suo stile accessibile, informazioni su questioni complesse, evitando facili congedi di eventi come il Vaticano I.
Quando viene ben compresa, la missione dello storico infonde potere in chi la pratica, sicché il secondo strumento che propongo è proprio il potere dello storiografo. I prodotti che egli forgia modellano la società, passata e presente. Persone che da sole non frequenterebbero mai gli archivi vedranno il passato dal punto di vista dello storico. E in virtù della visione che ne ricaveranno, cambierà anche la loro comprensione del presente. Studiamo la storia perché «il passato riguarda il presente e il presente riguarda il passato», afferma O’Malley. Inoltre, il passato «ci fa da memoria collettiva, e la memoria è ciò che costituisce l’identità» (p. 2). In questo senso, recepire bene il passato non è un’opzione che possiamo ignorare, e tantomeno possiamo fare a meno del mestiere dello storico.
O’Malley parla del potere «spaventoso» della conoscenza storica, che può distruggere «miti su cui le persone hanno costruito la loro vita» (p. 39). A questo riguardo, egli condivide una linea di pensiero sostenuta da vari famosi studiosi, che mettono in luce quante falsità, a volte accuratamente elaborate, modellino l’esistenza della società. Nel suo libro del 1983 intitolato Imagined Communities[5], per esempio, lo storico e politologo britannico Benedict Anderson osserva che l’«imbiancatura» delle tragedie passate è una procedura comunemente usata nella moderna costruzione delle genealogie nazionali. Tali genealogie generano una sorta di «egoismo nazionale» – prendiamo a prestito la brillante espressione dell’umanista britannico Sir Victor Gollancz[6] –, che a sua volta giustifica l’esclusione e può portare all’impoverimento, alla guerra e al genocidio.
Quando lo storiografo espone il vero significato del passato, insidia quanti godono di privilegi grazie a genealogie distorte e libera coloro che sono tenuti prigionieri per mezzo di storie falsificate. In un libro recente, intitolato Reimagining Human Rights[7], il gesuita americano William R. O’Neill ha collegato il successo nella promozione dei diritti umani alla nostra capacità di confutare false narrazioni come quelle che hanno generato e sostenuto l’apartheid in Sudafrica, il genocidio in Ruanda e la segregazione razziale negli Stati Uniti. Seguendo questa linea di pensiero, diventa ovvio che per migliorare il presente è essenziale descrivere correttamente il passato.
Da O’Malley apprendiamo inoltre che il potere richiede la responsabilità, requisito che viene proposto come terzo strumento. Il potere di cui lo storico dispone lo costringe a prestare attenzione al prodotto che presenta al pubblico. Il suo fardello di responsabilità non riguarda soltanto noi nel presente, ma anche coloro che vissero nel passato. Come un bravo storico non si divertirebbe a screditare i miti altrui, così neppure manipolerebbe il passato per trarne una narrazione consona a odierne considerazioni partigiane. O’Malley sostiene che le «apologie» settarie non hanno niente a che vedere con la buona storia. Il passato, in questa, ha senso nel modo in cui è accaduto. Si tratta di una lezione metodologica che lo storico gesuita ha appreso all’inizio della sua carriera. La descrive come una svolta che è avvenuta in un momento preciso della sua formazione, mentre lavorava alla sua tesi di dottorato su Egidio da Viterbo (1472-1532), frate agostiniano, cardinale, umanista e teologo rinascimentale. Egli scrive: «Stavo cercando di indurre Egidio da Viterbo, un pensatore del XVI secolo, a rispondere alle mie domande del XX secolo». E aggiunge che più si sforzava di utilizzare quel metodo, più gli risultava fallimentare. «Avevo bisogno di operare un cambiamento radicale: era necessario che entrassi nella sua mente e cogliessi quali fossero le sue domande» (p. 73). Una volta apportato questo cambiamento metodologico, Egidio risultò comprensibile a O’Malley nei termini di Egidio stesso. A sua volta, O’Malley, rimanendo fedele al contesto e al contenuto degli scritti del cardinale, si è reso responsabile nei suoi confronti.
Fa parte della responsabilità dello storico verso il passato, insiste O’Malley, «la necessità di temperare il sospetto con la compassione, quando si tratta di interpretare le motivazioni dei personaggi storici». Se infatti è impossibile acquisire una conoscenza completa di tutto, e per giunta i personaggi del passato oggi non possono difendere sé stessi, è anche vero che il presente ci ha esposti a fatti del tutto sconosciuti a coloro che vissero su questa Terra prima di noi. O’Malley consiglia al bravo storico di attenersi a «un giudizioso equilibrio tra un’ermeneutica del sospetto e un’ermeneutica della compassione» (pp. 50; 132).
Si sarebbe forse indotti a credere che la missione, il potere e la responsabilità che uno storico deve assumersi potrebbero trasformare il suo mestiere in un fardello preoccupante. Eppure, The Education of a Historian ci presenta un uomo che lo ha trovato piacevole e soddisfacente. O’Malley ne trae la conclusione che quando si svolge la missione dello storico con fedeltà e responsabilità, questo processo approda a «una comprensione del passato che ci è sufficiente» (p. 176). Non afferma, si noti, che lo storico abbia l’ultima parola su un qualsiasi argomento, nemmeno su un singolo personaggio come Egidio da Viterbo. Le riflessioni dello storico gesuita schiudono la possibilità di un apprendimento continuo, vale a dire aperto a costruire o a correggere ciò che è stato già realizzato, da sé o da altri.
Il libro abbonda di esempi che illustrano come la carriera di O’Malley abbia beneficiato della ricerca e dell’esperienza altrui. Mostra inoltre come si sia sviluppata la sua abilità di artigiano, sempre più affinata, man mano che acquisiva nuove capacità ed esaminava nuovi materiali. Una «serie continua di spunti» gli ha fornito «una comprensione sempre più profonda del mestiere dello storico» (p. 1). Egli può permettersi in proposito una battuta scherzosa: «È facile scrivere un libro quando stai plagiando te stesso»; ma poi si premura di spiegare che i suoi libri precedenti gli hanno dato un’idea chiara dello scopo che voleva ottenere in ciascun capitolo di ogni nuovo saggio che scriveva. A suo giudizio, «non c’è niente che spinga un autore a procedere più velocemente» (p. 168).
Potremmo quindi assumere come quarto strumento un’osservazione che O’Malley fa proprio alla fine del libro: «La professione storica si autocorregge». Questa è una proposta confortante, uno strumento essenziale nella cassetta degli attrezzi dello storico, utile a dissipare qualsiasi sentimento di timidezza o di competizione. «Gli storici rivedono e revisionano il lavoro degli altri, e ciò fa sì che le lacune vengano colmate e gli errori siano corretti», afferma O’Malley. Il compito di reperire un significato dal passato è, in questo senso, condiviso da tutti i buoni storiografi. E anche se la «comprensione del passato che emerge dal processo può non cogliere [ancora] la piena portata di ciò che è accaduto […], nondimeno la distingue quanto basta per farci comprendere a che punto siamo e come ci siamo arrivati» (p. 176).
La storia come àncora della fede
Fin qui le lezioni sul metodo con cui affrontare lo studio della storia, incentrate sul mestiere dell’uomo che la investiga. Ma The Education of a Historian offre anche lezioni sugli effetti benefici che la buona storia produce in noi. La lettura trasmette la sensazione che l’autore sia sereno nel momento presente e ottimista riguardo al futuro, perché conosce il passato. Questa convinzione non si incrina nemmeno quando egli racconta crisi sconvolgenti alle quali ha assistito di persona. O’Malley era a Firenze durante la grande alluvione del 1966; era a Detroit durante le catastrofiche rivolte del 1967; è stato nella regione di Boston, dove con vergogna e orrore ha assistito all’emergere dello scandalo sessuale relativo al clero locale, origine di un terremoto che presto avrebbe scosso la Chiesa cattolica. Ma può vantare anche l’esperienza romana nel corso di due delle sessioni del Vaticano II, quando stava rielaborando la sua tesi in vista della pubblicazione; e di nuovo nella Città eterna quando, negli anni Ottanta, furono restaurati gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina (cfr pp. 3 s).
Il volume costituisce anche un atto di generosa condivisione di sé stesso da parte di O’Malley con i suoi lettori, perché descrive chiaramente com’è accaduto che la sua vita si sia intrecciata con questa professione. «Quale che fosse il suo obiettivo specifico – afferma –, il mio libro non può non rivelare me stesso, un essere umano che affronta le sfide della vita, compresi i ricorrenti dubbi personali» (p. 4). Lo storico ci descrive la sua infanzia, in particolare il suo rapporto con i genitori, di cui era l’unico figlio, e con la sua famiglia allargata. Apprendiamo quali fossero le relazioni con i vicini e i compagni di scuola. Si fa riferimento alla morte della madre e al secondo matrimonio del padre. L’autore ci descrive la decisione di entrare nella Compagnia di Gesù, e che cosa abbia significato per i suoi genitori quella scelta del loro unico figlio, e la successiva formazione come gesuita. Ci fa considerare il peso che la Compagnia di Gesù ha avuto sulla sua carriera di storiografo. Sotto questo profilo, il libro sarà utile a ogni lettore che desideri trarre beneficio dal resoconto dell’itinerario esistenziale di un’altra persona. Si può parlare di una lettura edificante, non perché il libro contenga rivelazioni o eventi miracolosi vissuti dall’autore, ma per la sua ordinarietà, perché lascia l’impressione che chiunque potrebbe diventare un O’Malley.
Nell’insieme, la narrazione ci ritrae l’autore alle prese con le persone e le vicende della sua vita, piccole o grandi, banali o serie, e ci mostra come ognuna di esse abbia contribuito alla sua formazione. La sua passione per il gelato, per esempio, lo ha invogliato a studiare la storia italiana piuttosto che quella tedesca, e una crisi della Compagnia di Gesù, negli anni Settanta e Ottanta, lo ha portato a ricentrare la sua ricerca sui gesuiti. Comunque gli si presentasse, il presente diventava una finestra da cui poteva guardare il passato. Mentre siamo intenti nella lettura, possiamo quasi sentirlo ribadirci con fermezza che, se vogliamo comprendere il passato, dobbiamo prendere sul serio il nostro presente.
Trovare Dio in tutte le cose
Per quanto O’Malley affermi che il libro non riguarda la sua relazione con Dio, di fatto esso ci mostra come egli abbia trovato Dio in quasi tutto ciò che lo circondava. Il concetto di trovare Dio in tutte le cose risale a sant’Ignazio di Loyola, il fondatore dei gesuiti. In parole povere, ci viene suggerito di cogliere la presenza di Dio fedele a noi in qualunque circostanza ci troviamo. Alcune situazioni ci appaiono del tutto casuali, e non avremmo mai scelto di viverle. Eppure, anche in esse Dio ci rivela sé stesso. Questo tema traspare nella narrazione di O’Malley, quando ci racconta, per esempio, «come incontri casuali abbiano cambiato la [sua] vita e la [sua] carriera di studioso, talvolta in modo radicale» (p. 3). Ci sono stati molti eventi del genere, che hanno aperto le porte a conquiste magnifiche.
Come ogni memoria autobiografica, The Education of a Historian ci propone una visione soggettiva. Ma per gran parte dell’opera questa considerazione può essere presa in senso positivo. A rendere O’Malley uno storico responsabile è in effetti il suo ruolo attivo nella storia che racconta. La nozione di obiettività, talora fin troppo enfatizzata in ambito accademico, in questo caso viene temperata dalla responsabilità personale. Nessuno, per quanto ci provi, può spersonalizzarsi fino a trattare un tema come se fosse uno spirito disincarnato. O’Malley ci rende partecipi dei dettagli della sua vita, perché crede che «ogni comprensione che uno storico ha del passato sia colorita dalla sua personalità, dai suoi pregiudizi e dalle sue esperienze» (p. 175).
Questa ammissione, se da un lato giustifica il suo orgoglio per ciò che ha realizzato, dall’altro lo rende profondamente umile. Il suo non è mai l’unico punto di vista su qualcosa, tantomeno quello definitivo. Sulla base delle sue scoperte, egli ha potuto affermare con un sincero sentimento di fiducia: «Sapevo quello che sapevo e sapevo di saperlo». E questa stessa consapevolezza lo ha portato ad aggiungere: «Sapere ciò che sapevo mi ha reso consapevole di quanto fosse limitata la portata di quella conoscenza, e quindi mi ha reso dolorosamente consapevole della vastità di ciò che non sapevo» (p. 77). Dalla stessa sorgente lo storico ha attinto lezioni di giustificato orgoglio e di umiltà.
Prima abbiamo detto che tra i lettori che si sentiranno interpellati in prima persona da O’Malley ci sono i gesuiti. In effetti, si può allargare questo pubblico, fino a comprendere tutti i religiosi e le religiose, specialmente quelli che si ispirano alla spiritualità ignaziana. Nel passato, ai novizi e ai giovani gesuiti in formazione venivano proposti brani tratti dalle Lettres édifiantes et curieuses, che per lo più riferivano cronache missionarie di imprese grandi e miracolose compiute in terre lontane. Non rimpiangiamo la scomparsa di tale genere di strumento formativo, perché probabilmente molti novizi contemporanei non ne rimarrebbero edificati. E, d’altra parte, c’è la possibilità di imparare dalla storia di qualcun altro, specialmente se è una persona più avanti nella vita religiosa. Un racconto come quello di O’Malley, nella sua ordinarietà, mi sembra che abbia tale qualità.
Nella stessa giornata in cui mi è giunta la copia di The Education of a Historian ho ricevuto la mail di un giovane gesuita di Abidjan, in Costa d’Avorio, che mi confidava la sua passione per la storia. Questo desiderio lo aveva indotto a porsi domande importanti. Egli scriveva: «Onestamente non so da dove cominciare e come affrontare questa disciplina», per poi aggiungere: «Sto cercando di capire come questo mio interesse possa essere utile alla Compagnia di Gesù». Non riesco a pensare a un regalo migliore del libro di O’Malley da inviare a quel giovane gesuita. E potrebbero esserci molti altri giovani interessati alla storia come lui.
Ai gesuiti e ad altri religiosi il libro può offrire insegnamenti anche in modo più generale. C’è chi vorrà sapere come si sia comportato O’Malley quando, dopo gli studi di dottorato, gli è stato assegnato un ministero senza previa consultazione. In effetti, dalla sua narrazione si evince che pochi dei servizi che egli ha svolto furono dovuti a suggerimenti fatti da lui ai superiori.
Nel libro anche queste semplici parole rivelano il suo animo: «Nella mia vita di gesuita, […] per me è sempre più importante l’abitudine alla meditazione quotidiana che ho imparato da novizio a Milford. Mi ha nutrito e rasserenato ogni giorno, anche nei momenti che parevano più oscuri. Mi ha permesso di affrontare anche l’oscurità che trovavo dentro di me. Ecco perché apprezzo quei trenta o sessanta minuti di preghiera ogni mattina, e faccio in modo che nel mio programma nulla interferisca con essi» (pp. 173 s).
Conclusioni
Infine, c’è un messaggio speciale anche per gli anziani, soprattutto per quanti di loro trovano difficile venire a patti con l’idea del pensionamento. Probabilmente conosciamo la massima «Prega come se tutto dipendesse da Dio; lavora come se tutto dipendesse da te», spesso attribuita a sant’Agostino d’Ippona e talvolta a sant’Ignazio di Loyola. Alcuni studiosi hanno sostenuto che questa dichiarazione in realtà è stata fraintesa. Una corretta interpretazione della spiritualità ignaziana condurrebbe a operare come se tutto dipendesse da Dio e a pregare come se tutto dipendesse da noi. La differenza è sottile, ma decisiva. Nell’opinione del gesuita William A. Barry, «la versione consueta […] porta facilmente a una implicita visione in cui ci sono due sfere di attività: il nostro mondo ordinario, che va avanti come se Dio non vi avesse nulla a che fare, e un mondo soprannaturale, in cui Dio agisce e dal quale egli, occasionalmente, interviene nel nostro mondo ordinario». Secondo Barry, quando preghiamo come se tutto dipendesse da noi e lavoriamo come se tutto dipendesse da Dio, la nostra esistenza viene guidata da un atteggiamento spirituale completamente diverso: «Mi dedico con tutto il cuore a qualunque compito mi venga assegnato e faccio tutto il possibile perché il mio operato abbia successo. Ma non sposo quell’impresa al punto da identificarmi totalmente con il lavoro o con il posto che occupo o con le persone con cui lo svolgo. La mia identità dipende principalmente dalla mia relazione con Dio, che agisce per il suo fine dentro e attraverso di me. Sicché, se quell’impresa fallisce, o se vengo assegnato a un altro compito, o se non sono più in grado di portarla avanti per motivi di salute, non ne resto sconvolto e posso, come Ignazio (sebbene forse non così facilmente), ritrovare il mio equilibrio attraverso la preghiera»[8].
The Education of a Historian rivela quale persona sia John W. O’Malley. Mostra che egli non ha mai sposato l’arte dello storico al punto di sottomettere la propria persona alle sue prerogative. Ciò appare evidente quando leggiamo della sua decisione di ritirarsi: «Ho pregato per avere luce. Ho parlato con gli amici. Ovviamente ho consultato il mio provinciale e ho avuto diversi colloqui con il mio superiore a Georgetown. [Poi] mi sono dimesso dalla mia carica universitaria e il 12 giugno 2020 mi sono trasferito nella nostra comunità di gesuiti pensionati a Baltimora» (p. 171).
Dopo queste parole conclusive dell’autore, non resta che aggiungere soltanto una considerazione: ci vuole qualcuno del calibro di O’Malley per concentrare così tante cose in meno di 200 pagine.
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Riproduzione riservata
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[1] Cfr J. W. O’Malley, The Education of a Historian: A Strange and Wonderful Story, Philadelphia, Saint Joseph’s University Press, 2021.
[2] 2 Cfr Id., The First Jesuits, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1993; in it. I primi gesuiti, Milano, Vita e Pensiero, 1997.
[3] Cfr Id., What Happened at Vatican II, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2008; in it. Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 2013.
[4] Cfr Id, Vatican I: The Council and the Making of the Ultramontane Church, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2018; in it. Vaticano I. Il concilio e la genesi della Chiesa ultramontana, Milano, Vita e Pensiero, 2019; cfr G. Pani, «Il Vaticano I. Un nuovo contributo di John O’Malley», in Civ. Catt. 2020 II 76-81.
[5] Cfr B. Anderson, Imaged Communities: Reflections on The Origin and Spread of Nationalism, Condon, Verso, 1991; in it. Comunità immaginate, Roma – Bari, Laterza, 2018.
[6] Cfr V. Gollancz, My Dear Timothy: An Autobiographical Letter to his Grandson, London, Camelot, 1952, 292.
[7] Cfr W. R. O’Neill, Reimagining Human Rights: Religion and the Common Good, Washington, Georgetown University Press, 2021.
[8] W. A. Barry, «Jesuit Spirituality for the Whole Life», in Studies in the Spirituality of Jesuits 31 (2003/1) 14 e 26.