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Il Concilio Vaticano I è noto principalmente per la Costituzione Pastor aeternus sul primato e l’infallibilità del Papa. Lo storico John W. O’Malley, invece, nel recente saggio su questo Concilio mette in rilievo la svolta che, 300 anni dopo il Concilio di Trento, segna la storia della Chiesa[1]. Quando il papato perse lo Stato pontificio e la città di Roma, i pontefici iniziarono a esercitare un’autorità maggiore rispetto al passato. Se il mondo occidentale stava ancora facendo i conti con lo sconquasso della Rivoluzione francese e con l’Illuminismo, che aveva scosso un ordine consolidato da un millennio, la Chiesa si sentì tragicamente minacciata nelle sue fondamenta e reagì assumendo una forma nuova, più incentrata sul papato. Ciò portò alla «genesi della Chiesa ultramontana»[2], che auspicava l’incremento dell’autorità pontificia e vedeva «nell’infallibilità papale l’unica risposta possibile alla crisi culturale, politica e religiosa» (p. 10).
Nel 1854, dopo le turbolente vicende del 1848, Pio IX definì il dogma dell’Immacolata Concezione. Era la prima volta che un papa, al di fuori da un Concilio, definiva un dogma. Sebbene avesse consultato circa 600 vescovi, quasi tutti favorevoli, Pio IX non aveva lasciato trapelare che agiva con il loro consenso.
Dieci anni dopo, il Sillabo condannava gli errori del mondo moderno: l’ateismo e il panteismo, il liberalismo e il socialismo, la separazione tra Chiesa e Stato, e il matrimonio civile. La condanna globale indicava «quanto fossero drastici i cambiamenti che avevano portato alla nascita della “civiltà moderna” e radicali le sfide che essi costituivano per il cattolicesimo» (p. 86). Il dogma e il Sillabo erano due aspetti di uno stesso progetto: «eliminare i mali del presente e creare una società cristiana» (p. 87).
Verso il Concilio Vaticano I
La preparazione del Concilio non si rivelò semplice: si doveva affrontare non un’eresia, ma lo sconvolgimento delle fondamenta della Chiesa. Emersero subito i problemi: era opportuno un Concilio? Non era forse meglio promuovere l’unità dei cristiani? E se invece, contro il mondo moderno, si proclamasse drasticamente l’infallibilità del papa? Quest’ultima era l’idea di Henry Manning, un prelato d’Oltremanica, poi divenuto arcivescovo. Altri invece erano contrari: Karl von Hefele, storico dei Concili; Ignaz von Döllinger, teologo e storico, il quale sosteneva che era giunto il tempo di rinunciare alla sovranità temporale, ed era critico verso la teologia romana, ritenuta oscurantista. Più che un Concilio, occorreva promuovere l’unità dei cristiani, favorire la missione profetica dei teologi e assimilare i moderni metodi esegetici e critici.
Per la prima volta nella storia dei Concili, acquistò rilievo la stampa; anzi, iniziò la campagna dei notiziari. Nel 1869 La Civiltà Cattolica pubblicò un articolo intitolato «Corrispondenza di Francia», in cui si qualificavano cattolici «veri» quelli per i quali il Concilio doveva «definire l’insegnamento del Sillabo e proclamare il dogma dell’infallibilità papale per acclamazione, come “manifestazione unanime dello Spirito Santo”» (p. 99). La reazione fu immediata, sia in Francia (il giornalista Veuillot) sia in Germania, dove si rivelò particolarmente dura: von Döllinger, con lo pseudonimo «Janus», pubblicò Il Papa e il Concilio[3], in cui si accettava il primato quale si era sviluppato nel Medioevo, ma si rigettava «l’infallibilità del papato [perché] si basava su testi canonici contraffatti» (p. 100). Il libro fu subito messo all’Indice.
In Francia, il vescovo Henri Maret, per conciliare le fazioni in conflitto, scrisse il volume Du Concile général et de la paix religieuse, in cui sosteneva che la Chiesa era formata da due elementi essenziali: il papato e l’episcopato. Benché quest’ultimo fosse inferiore al papa, «era essenziale per definire infallibilmente un dogma» (p. 102). Purtroppo, il libro ottenne l’effetto contrario; fu attaccato dal liturgista Prosper Guéranger, fondatore dell’abbazia di Solesmes, che proponeva la visione ultramontana: «Il papa non riceve nulla dalla Chiesa, come Pietro non riceveva nulla dagli apostoli. Il papa occupa il posto di Gesù Cristo, come i vescovi occupano quello degli apostoli» (pp. 102 s). Pio IX gli manifestò la sua gratitudine.
Il vescovo di Orléans, Félix Dupanloup, riteneva invece inopportuna una definizione i cui fondamenti storici erano in discussione e che, per di più, avrebbe eretto barriere contro la riunificazione delle Chiese ortodosse e il riavvicinamento dei protestanti. Il vescovo inveì anche contro le riviste che avevano trattato l’argomento dell’infallibilità in modo imprudente e dichiarò che «i vescovi quali successori degli apostoli [sono] “posti dallo Spirito Santo a governare la Chiesa di Cristo”» (p. 104).
L’apertura del Vaticano I
L’8 dicembre 1869 fu aperto il Vaticano I, a cui parteciparono 792 padri conciliari: un raduno internazionale nuovo nella storia. O’Malley lo descrive da una duplice prospettiva: da un lato, la dinamica tra la maggioranza a favore dell’infallibilità e la minoranza contraria alla definizione; dall’altro, il ruolo svolto da Pio IX nel Concilio.
L’Autore dà particolare rilievo al primo schema presentato per la discussione: la Costituzione Dei Filius. Essa ribadiva le verità fondamentali del cristianesimo: l’esistenza di un Dio personale; la sua conoscenza; l’atto di fede, che è dono e libera adesione dell’intelligenza; la funzione della Chiesa, «custode e maestra della parola rivelata»; infine, il rapporto fra fede e ragione, che si integrano a vicenda. Benché la dottrina fosse tradizionale, i vescovi si trovavano di fronte a una situazione assolutamente nuova, dovuta allo sviluppo della società moderna. Tuttavia, il documento ricevette un’approvazione quasi all’unanimità, con la consapevolezza che occorreva capire il mondo moderno. Ciononostante, non si canonizzava il Sillabo e nemmeno si condannavano Darwin o Marx. La Dei Filius è un testo importante del Vaticano I, ma la stampa quasi non se ne accorse, perché il tema dell’infallibilità dominava l’opinione pubblica.
«La Chiesa» era l’argomento dello schema successivo, nel quale veniva dedicato un capitolo alla giurisdizione del papa, ma non si faceva parola dell’infallibilità. Questa però venne proposta da diversi postulati della maggioranza. Nonostante il parere contrario di alcuni consultori, Pio IX avocò a sé la decisione e fece aggiungere nel documento una parte sull’infallibilità.
Il testo si componeva di quattro articoli – tre sulla giurisdizione del papa e uno sull’infallibilità – e prese il nome di Pastor aeternus. Fu subito chiaro il nodo del problema: qual era l’oggetto dell’infallibilità? Il vescovo di Poitiers, Louis Pie, nel presentare il testo, affermò che era infallibile non la persona del papa, ma il suo magistero, e lo era quando, con l’assistenza dello Spirito, dava una definizione solenne, invocando la sua piena autorità apostolica; inoltre, l’infallibilità si applicava agli stessi campi di infallibilità della Chiesa, cioè in rebus fidei et morum.
Il vescovo di Digione, François Rivet, fece un intervento contraddicendo del tutto Pie: una definizione dell’infallibilità papale era inopportuna, suonava troppo personale e assoluta, lontana dal sentire della Chiesa. Inoltre, non era necessaria, perché nessuno contestava l’autorità del papa: lo si era visto in occasione della definizione del dogma dell’Immacolata, che era stato accolto subito dalla Chiesa. Il vescovo Johann Greith aggiunse una citazione di sant’Antonino di Firenze che esprimeva la posizione della minoranza: «Quando il romano pontefice fa uso di un concilio e si avvale delle risorse della Chiesa universale, non può errare» (p. 159).
Mons. Henry Manning replicò che l’infallibilità era assolutamente necessaria per i diritti della Santa Sede e per confermare i cattolici nella fede. Certamente essa non era una novità, perché era stata già affermata implicitamente nel Concilio di Firenze: il papa poteva definire verità, condannare errori, ratificare i Concili.
Tuttavia, controbatté William Clifford, vescovo di Clifton, la gente comune «avrebbe concluso che il Concilio aveva fatto del papa un despota» (p. 162). L’intervento non fu gradito da Pio IX, che fece rimproverare il vescovo, perché era un grave errore «mettersi contro il papa e la Chiesa» (ivi).
Ciò di cui né la maggioranza né la minoranza si rendevano conto era l’assumere, dal punto di vista storico, la situazione presente quale norma per interpretare il passato. Inoltre, essi ignoravano lo «scetticismo del mondo moderno su pretese di infallibilità avanzate da qualsivoglia persona o istituzione» (p. 156).
Il primato e l’infallibilità
Il 17 giugno 1870, nell’anniversario dell’elezione, Pio IX pronunciò un discorso provocatorio, in cui divideva i vescovi – le «sentinelle della Chiesa» – in tre gruppi: il primo includeva quanti di notte abbandonavano le vesti episcopali (forse un richiamo al vescovo Josip Strossmayer, apostrofato come «nuovo Lutero»); il secondo includeva coloro che vivevano con i nemici della Chiesa e avevano scelto lo spirito del mondo (allusione alla minoranza); il terzo, infine, era costituito dalle buone sentinelle, fedeli al loro Pastore.
Il giorno seguente ci fu l’episodio più noto e discusso del Concilio. Il cardinale domenicano Filippo Maria Guidi, che era stato nominato arcivescovo di Bologna ma non aveva potuto prendere possesso della sede a causa del Regno d’Italia, dichiarò che il papa non dipendeva dai vescovi per ciò che concerneva l’autorità, ma per conoscere il sensus fidei. Questo era stato il modo di procedere degli apostoli stessi nell’assemblea di Gerusalemme (cfr At 15), e poi dei padri nei primi Concili. Inoltre, si doveva cambiare il titolo del capitolo IV: non «sull’infallibilità del papa», ma «sul magistero infallibile del papa». Il discorso riscosse un pio consenso: si fondava su san Tommaso e sul card. Bellarmino, e sembrava raggiungere un accordo tra la minoranza e i moderati della maggioranza.
Ma non tutti erano d’accordo, e Pio IX era molto irritato: la sera stessa accusò Guidi di aver stretto amicizia con i nemici della Chiesa, e sembra che in quell’occasione abbia pronunciato la tremenda frase: «Io sono la tradizione! Io, io sono la Chiesa!» (p. 168).
Nei giorni seguenti il dibattito si cristallizzò, accentuando ancora di più i due fronti, finché il 14 luglio si giunse al voto. Il risultato fu: 451 placet; 88 non placet; 62 placet con riserva. Il numero dei contrari era molto alto; Pio IX si aspettava non più di una decina di non placet. Se la minoranza pensava che si sarebbe dovuto tener conto delle sue proposte, si sbagliava. Pio IX si irrigidì e fece modificare il testo per la votazione finale. Nella formula «le definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse» fece inserire «e non per il consenso della Chiesa» (p. 172). In aula, il relatore spiegò che l’aggiunta chiariva il senso del «per se stesse», già presente nel testo; e infine si richiamò alle responsabilità dei padri per il bene della Chiesa e del mondo.
La minoranza tentò un ultimo disperato appello al Papa, il quale rispose in maniera elusiva alla proposta di modificare il testo. Non ci fu alcuna correzione. Perciò i vescovi della minoranza non parteciparono alla votazione finale. La Pastor aeternus fu approvata, e fu promulgata il 18 luglio 1870.
Il Corpo diplomatico e la stampa si interrogavano su quali conseguenze avrebbe avuto sul piano politico la definizione dell’infallibilità del papa.
Intanto gli eventi precipitarono: il 20 settembre, le truppe del Regno d’Italia aprirono un varco a Porta Pia e occuparono Roma. Si concludevano così oltre 1000 anni di storia e cessava il potere temporale dei papi. Il Concilio veniva sospeso a tempo indeterminato.
Uno scisma nella Chiesa?
Quando fu pubblicata la Pastor aeternus, si temette uno scisma, che però non avvenne. Il Concilio diede al primato e all’infallibilità papale una nuova dignità. Prevaleva il desiderio di garantire l’autorità in un mondo in cui crollavano certezze che si davano per scontate e si reagiva a forme di ecclesiologia incentrate sui vescovi[4].
Dopo il 1870, l’accettazione dell’infallibilità avvenne lentamente nella Chiesa, sfumando le interpretazioni più radicali. Un fenomeno nuovo fu la «devozione al papa»: con i moderni mezzi di comunicazione i fedeli potevano conoscere e sentire più vicino il pontefice.
O’Malley termina la storia del Concilio Vaticano I con un cenno al Vaticano II, rilevando come alcune proposte della minoranza siano riapparse in quest’ultimo Concilio, dove «l’accento si è sensibilmente spostato dal sociologico al biblico, dal giurisdizionale al sacramentale, dal settario all’ecumenico, dal papale all’episcopale, dal gerarchico al collegiale»[5].
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[1] Cfr J. W. O’Malley, Vaticano I. Il Concilio e la genesi della Chiesa ultramontana, Milano, Vita e Pensiero, 2019. Nell’articolo, i numeri delle pagine indicati tra parentesi si riferiscono a questo volume. Il testo dell’Autore era stato preceduto da un suo accurato studio sul Vaticano II, pubblicato nel 2010, e da un altro sul Concilio di Trento, pubblicato nel 2013.
[2] È il sottotitolo del volume. «Ultramontano» indica di per sé ciò che si trova «oltre i monti», cioè al di là delle Alpi. Il termine originariamente indicava un pontefice non italiano; ora invece è riferito a chi sostiene l’autorità papale.
[3] Janus, Der Papst und das Konzil, Leipzig, Steinaider, 1869.
[4] Si noti il titolo del volume di O’Malley: Vaticano I. Il Concilio e la genesi della Chiesa ultramontana.
[5] J. W. O’Malley, Vaticano I…, cit., 192, dove si cita P. Granfield, «The Church as “Societas Perfecta” in the Schemata of Vatican I», in Church History 48 (1979) 446.
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THE FIRST VATICAN COUNCIL. A new contribution by John O’Malley
Following his essays on Vatican II and the Council of Trent, the historian, John W. O’Malley, has now published a study on the First Vatican Council. This Council marked a turning point in the history of the Church, not only for the Pastor aeternus Constitution on the primacy and infallibility of the Pope, but also for the event that followed thereafter – the loss of the Papal State-, which led to a strengthening of papal authority. After the upheaval of the French Revolution and the Enlightenment, the Church took on a new form which was centered on the papacy. O’Malley has followed the events of Vatican I through the dynamics of the majority – in favor of infallibility – and of the minority – against, and the role that Pius IX played in its development. At the end of Vatican I a schism was feared; instead, the figure of the Pope acquired new author