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ABSTRACT — Secondo diversi analisti, la nuova ondata di attentati terroristici condotti da militanti dell’Isis negli ultimi tempi sia in Europa e in Turchia, sia in Medio Oriente, sarebbe dovuta alle diverse sconfitte subite sui campi di battaglia dalle milizie nere in Siria e in Iraq. Di fatto nel 2016 lo Stato Islamico ha perso circa il 40% del suo territorio, mentre le sue capitali, Mosul e Raqqa, ora sono o sotto assedio militare o costantemente bombardate dall’aviazione a guida statunitense. Gli attacchi recenti, insomma, altro non sarebbero che i colpi di coda della «bestia» mortalmente ferita.
Anche se tale analisi ha un fondo di verità, è semplicistico pensare che lo «Stato Islamico» abbia ormai i giorni contati. Ad esempio, il lungo assedio di Aleppo e il fatto che una parte consistente dell’aviazione e dell’artiglieria pesante di alcuni Paesi (Russia, Iran e Turchia) fosse impegnata su questo teatro di guerra contro i nemici di Assad, hanno dato respiro all’Isis, permettendogli di riorganizzarsi.
Ora, è vero che la creazione di un asse anti-Isis tra la «Triplice» (Russia-Iran-Turchia) e il nuovo Presidente statunitense potrebbe provocare — non certamente in tempi rapidi — la totale eliminazione del califfato. Questo, però, non porterebbe alla scomparsa dell’Isis come movimento islamista, che invece continuerebbe a sopravvivere sia attraverso la Rete, sia attraverso la protezione di «Stati canaglia», pronti a finanziare i suoi progetti di morte.
Tutto il mondo occidentale è considerato dai jihadisti territorio di guerra. E, come afferma Kepel nel suo ultimo libro, i jihadisti vogliono portare la guerra civile in Europa, creare una «frattura» all’interno della società civile tra musulmani e non musulmani, e questo nel momento in cui nei singoli Paesi e nell’Unione Europea si sta discutendo il problema dell’accoglienza dei profughi e dei migranti.
Cedere alla paura del terrorismo sarebbe una vera sciagura per la nostra civiltà e per il nostro modo di vivere. Per combattere efficacemente il terrorismo islamico è innanzitutto necessaria una maggiore cooperazione tra gli Stati. Ma soprattutto è la comunità musulmana che vive nei Paesi occidentali che deve essere coinvolta in questa battaglia. Tocca ad essa fare il «lavoro duro e pericoloso»: prosciugare cioè il brodo di coltura dove nasce e si sviluppa il radicalismo jihadista, come fecero negli anni Settanta in Italia i militanti del Pci per combattere le Brigate Rosse. Questo è un compito improcrastinabile e necessario a cui sono chiamati tutti i musulmani moderati d’Europa.