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Dalla fine del XIV secolo circa, nelle banche dell’Italia settentrionale si è diffusa una tecnica contabile che consiste nell’identificare uno stock come capitale: una nave che sta per attraversare l’Atlantico, un granaio colmo di grano, un campo, una macchina… Cos’è un «capitale»? È qualcosa che deve fruttare un flusso di reddito in futuro e il cui valore oggi si decide che sia pari alla somma attualizzata (cioè convertita nella moneta odierna) di queste entrate future. Un’operazione del genere potrebbe sembrare banale, tanto oggi è diffusa; infatti, è alla base di tutta la pratica finanziaria dei mercati, serve da principio guida per l’analisi costi-benefici e per tutta l’economia ambientale; senza di essa, il sistema economico crolla.
Ora, questa operazione equivale ad appiattire il futuro sul presente: consiste nel pretendere che il futuro sia interamente noto al proprietario di un capitale, e che conti solo il reddito monetario che tale capitale potrà fruttare. Il futuro è anticipato in modo così perfetto da poter essere quantificato e che si possa attribuire un valore esatto alla fonte di questo reddito: il capitale attuale. Non è tollerata alcuna sorpresa in futuro, altrimenti il valore odierno del capitale verrebbe messo in discussione. Il tempo non esiste più. Nemmeno lo spazio, perché la quantificazione del valore monetario del capitale pretende di essere universale e consente di confrontare tutto.
L’Amazzonia brucia? Questo non ha alcuna importanza se i profitti attesi dalla deforestazione superano quelli che si crede di poter stimare da un rallentamento del riscaldamento globale. E poiché alcuni eminenti economisti si ostinano a profetizzare che un aumento della temperatura di 6 gradi C costerebbe solo il 10% del Pil mondiale reale – nonostante i ripetuti avvertimenti della comunità scientifica che un tale riscaldamento provocherebbe l’apocalisse sulla Terra –, il gioco è fatto: il capitale amazzonico è molto più interessante come stock di legname e terreno coltivabile che come polmone del Pianeta.
Alla radice di un errore così tragico si trova l’assimilazione dell’Amazzonia a un «capitale». Nata nel Medioevo in Italia, questa follia della capitalizzazione si è diffusa al di fuori delle banche nel XVIII secolo, in seguito al suo utilizzo da parte dei silvicoltori tedeschi, che già volevano stimare il valore di una foresta in base alla quantità di legname che poteva fornire ogni anno. Nel XIX secolo è entrata a far parte di alcune operazioni contabili, per poi diventare una pratica quasi universale dopo la Seconda guerra mondiale.
È questo che spiega l’ostinazione di alcuni economisti nel fingere di credere nella cosiddetta «ipotesi delle aspettative razionali». Questa teoria pretende che tutti gli agenti economici anticipino perfettamente il futuro, nel senso che siano in grado di prevedere cosa accadrà in base alle informazioni disponibili. Ipotesi assurda, ovviamente, eppure indispensabile alla pratica contabile, economica, finanziaria della capitalizzazione. Tanto più che questa non si ferma agli attivi finanziari e alle foreste. Anche il «prezzo» di una vita umana viene valutato nei contratti di assicurazione secondo lo stesso principio: la vostra vita è quindi un capitale, uno stock che dovrete rendere redditizio.
Infine, gli storici sanno bene che per secoli «capitale» significava prima di tutto «schiavo». È qui che diventa evidente il legame tra le patologie generate dalla costruzione delle nostre società sulla pratica della capitalizzazione e quelle provocate dal rifiuto di una «cosmologia relazionale», in cui tutti gli esseri sono legati gli uni agli altri. Che cos’è, infatti, uno schiavo se non, soprattutto, una persona che è stata tagliata fuori da ogni rapporto con i «suoi» per essere interamente alla mercé del suo padrone? Lo schiavo è socialmente morto. Allo stesso modo, il capitale è uno stock morto dal punto di vista della cosmologia relazionale; non fa riferimento ad alcun futuro che sarebbe una lieta sorpresa, una «buona notizia», un futuro in cui il regno di Dio potrebbe manifestarsi. Il suo essere è interamente soggetto alla volontà e alle previsioni del suo proprietario.
È con questa pratica che la cosiddetta Economy of Francesco intende rompere[1]. No, la vita di un essere umano, o di uno dei 100 milioni di squali che uccidiamo ogni anno, o di un albero… non è un «capitale». Il suo valore è incommensurabile. Non può essere identificato indipendentemente dalle relazioni che lo costituiscono. Rompere con la capitalizzazione significa porre dei limiti a una pratica e a un’idea. Significa quindi al contempo dover inventare nuove pratiche e forgiare le idee che ne esprimono il senso. Ciò non vuol dire che non si debbano prevedere i raccolti del prossimo anno, calcolare le probabilità che si verifichi un fenomeno come El Niño o la possibilità del fallimento di un debitore. Ma è opportuno impedire la capitalizzazione di un certo numero di risorse, tra cui la vita umana, il corpo umano, la salute, il clima, la biodiversità, i fondali marini, i panda, le foreste ecc.
A ben riflettere, cosa resterà da capitalizzare? Non molto, forse. E se questo fosse il «prezzo» da pagare per salvare la possibilità di una vita dignitosa su questo Pianeta? E se rinunciare a capitalizzare ciò che per noi ha veramente valore fosse il segreto per l’apertura a un futuro in cui Dio ha un posto, per un’apertura alla gioia? «Andate in queste università ultraspecializzate in economia liberale, e guardate la faccia dei giovani e delle giovani che studiano lì», ci ha detto Francesco lo scorso settembre ad Assisi[2]. Imparare nei minimi dettagli le tecniche di valorizzazione del capitale rende tristi, perché ci taglia fuori dai rapporti con il cosmo, senza i quali, però, non esistiamo.
Prendersi cura dei nostri beni comuni oggi
La proprietà privata ha una profonda relazione con la capitalizzazione. Da quando il diritto romano ha inventato la proprietà privata, dire «questo è mio» significa escludere «ogni altro» da qualsiasi possibile rapporto con ciò di cui io sono proprietario. È tagliare la mia proprietà da ogni relazione con gli altri. È trasporre sul piano dei rapporti uomo-cosa la terribile operazione in cui consiste lo schiavismo: la cosa al posto dello schiavo. Non c’è dubbio che i freni che si devono apportare alla capitalizzazione imporranno forti limiti all’estensione della proprietà privata. Ma sappiamo che la grande tradizione cristiana ha sempre considerato la proprietà privata una soluzione di ripiego, legata alla nostra finitezza. Il tipo di proprietà che, secondo tutta la patristica e almeno fino a san Tommaso, è di diritto naturale è la res communis, i beni comuni.
Sia chiaro: non si tratta di proprietà pubblica, res publica. Limitare la capitalizzazione richiede di porre limiti alla proprietà statale come pure alla proprietà privata. Lo testimonia, infatti, l’esempio dell’Amazzonia: lo Stato brasiliano può purtroppo considerare che il capitale amazzonico sia più prezioso dei miliardi di tonnellate di carbonio che la giungla sudamericana potrebbe assorbire per salvare il Pianeta. Allo stesso modo, la proprietà pubblica cinese, ad esempio, non ha impedito a Pechino di organizzare un estrattivismo tecnocratico che non ha nulla da invidiare a quello occidentale. La posta in gioco, quindi, è valorizzare i beni comuni, a pari distanza dalla proprietà privata e dalla proprietà pubblica.
Non si legge negli Atti degli Apostoli che la prima comunità cristiana praticava la condivisione dei beni? «Nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (At 4,32). A testimonianza del fatto che questa condivisione era di grande importanza per i primi cristiani, gli Atti raccontano che, quando una coppia di pii laici, Anania e sua moglie Saffira, cerca di tenere nascosto il denaro – per riprivatizzare surrettiziamente i beni comuni –, viene fulminata da Dio (cfr At 5,1-11). I contadini senza terra del Brasile ne sono consapevoli: il primo «bene» a cui occorre restituire lo status di «bene comune» è la terra stessa. Già il Levitico diceva: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Lv 25,23). La terra appartiene a Dio, non può essere privatizzata, e ancor meno capitalizzata. L’umanità è di passaggio su questa Terra: si prende cura della creazione, ma non ne è proprietaria.
Imparare a prendersi cura dei nostri beni comuni – locali, regionali, nazionali, globali – è già stato fatto da molte comunità che, sul campo, stanno inventando regole d’uso, di condivisione e di modi di fare che permettano di salvaguardare tali risorse: un sistema di irrigazione, degli stagni, un sentiero ecc. I beni comuni costituiscono il nostro rapporto più ancestrale con il mondo. È anche ciò che si sta inventando su Internet con il software libero, il copyleft, il peer-to-peer… I beni comuni sono pure la nostra invenzione più moderna ed efficace. Wikipedia è un buon esempio: ci sono meno errori e (molte) più informazioni su Wikipedia di quante ce ne siano mai state nell’Encyclopædia britannica o nell’Encyclopædia universalis, entrambe basate su un’organizzazione pubblica (statale) del sapere.
La gestione dei beni comuni è anche il legame di creatività collettiva di cui abbiamo bisogno per affrontare le sfide ecologiche. La pandemia di Covid-19 ne ha appena fornito la prova. Ad eccezione di quelli confinanti con la Cina, la maggior parte degli Stati non aveva previsto tale pandemia. Tutto è accaduto come se essi non avessero imparato nulla dagli episodi precedenti, compreso il primo, la Sars, che risale al 2003. L’Oms, tipica emanazione delle Nazioni Unite nel Secondo dopoguerra, non è stata ascoltata, sebbene da anni avvertisse dell’imminenza di nuove zoonosi. Il settore privato non si è dimostrato molto efficace nell’affrontare la pandemia: il suo motore, il profitto, lo squalifica in gran parte dal fornire soluzioni di fronte a un virus che, finché può moltiplicarsi all’interno di una frazione della popolazione, continuerà a mutare fino a diventare un supervirus (molto più contagioso e molto più dannoso). Ora, privatizzare la salute – ad esempio, fissando un prezzo per l’accesso al vaccino – comporta inevitabilmente che ne vengano privati i meno privilegiati, i quali costituiranno un terreno ideale per la mutazione virale, che renderà inefficaci i vaccini con cui i più ricchi cercano di proteggersi. In altre parole, l’unico modo per combattere efficacemente una malattia come il Covid-19 consiste nel trattare la salute globale come un bene comune. E un bene comune che comprende non solo gli esseri umani, ma l’intero regno animale[3].
Costruire istituzioni locali, regionali, nazionali e internazionali che ci permettano di prenderci cura della salute dei viventi come di un bene comune, questa è l’unica soluzione praticabile e duratura alle pandemie che si moltiplicheranno nei prossimi decenni, in particolare quelle tropicali, la cui diffusione al di fuori dei tropici sarà favorita dal riscaldamento globale. A Ginevra, la Drugs for Neglected Desease Initiative (Dndi) è un eccellente esempio di istituzione di questo tipo. Ce ne servono altre, non solo per la salute, ma anche per il clima stesso, per i fondali oceanici, la biodiversità terrestre e marina, la fauna ittica ecc. Lo testimoniano i gravi errori commessi dalla Cina nella sua politica zero-Covid: l’opzione autoritaria non consentirà di affrontare efficacemente le sfide ecologiche, perché finirà sempre per mediare tra la conservazione del proprio potere e la lotta efficace contro i mali che ci colpiscono. Al contrario, la creatività delle équipe mediche che, nella primavera del 2020, si sono liberate dalle regole burocratiche che le soffocavano e hanno messo in comune tutte le loro risorse per far fronte all’ondata di pazienti contagiati, per produrre respiratori gratuiti con stampanti 3D ecc., ha dimostrato che l’intelligenza libera, messa in comune, può fare miracoli.
È ancora possibile raggiungere il livello minimo di zero emissioni nette di carbonio nel 2050. Un recente rapporto[4] descrive un percorso che consente all’economia francese di raggiungere questo obiettivo e il cui costo viene stimato sia per il settore pubblico (circa il 2% del Pil francese ogni anno) sia per il settore privato (circa 20 miliardi di investimenti annui in infrastrutture verdi). Se lo si raggiungesse a livello globale prima del 2060, un tale limite consentirebbe di massimizzare le nostre possibilità di non volare troppo al di sopra del tetto di +2°C, su cui la comunità internazionale si è impegnata nel 2015 e oltre il quale gli scienziati sanno che forti non linearità possono accelerare il riscaldamento globale e le catastrofi sopra descritte. Ma per realizzare davvero questi scenari, è necessario che a livello locale, all’interno delle comunità, così come nelle nostre grandi organizzazioni internazionali, si metta un freno alle distopie della capitalizzazione del mondo, e si promuova la creazione di istituzioni che permettano di prendersi cura dei nostri beni comuni (materiali e immateriali)[5].
È chiaro che questa attuazione richiede immensi sforzi di concertazione, compromesso, deliberazione. È l’opposto sia dell’immaginario dell’economia neoclassica (che crede di poter organizzare un mondo intorno ai prezzi di mercato, senza parlarsi) sia dell’autoritarismo antidemocratico. Questo apprendistato della deliberazione collettiva è ciò che la tradizione cristiana chiama «discernimento comunitario» ed è ciò a cui papa Francesco invita la Chiesa portando avanti la sinodalità.
Cos’è che blocca la transizione ecologica?
Da tre decenni, le informazioni trasmesse dalla comunità scientifica sui rischi vitali associati al riscaldamento climatico sono molto chiare. E per tre decenni, la maggior parte dei nostri Paesi non ha fatto quasi nulla per ridurre le emissioni, e ancor meno per adattarsi alle devastazioni presenti e future.
Le inondazioni che affliggono il Pakistan hanno provocato diverse migliaia di morti e 33 milioni di persone colpite, senza contare le carestie e le epidemie che devasteranno il Paese durante gli anni necessari alla sua ricostruzione. Essendo direttamente collegate al riscaldamento climatico e alla deforestazione, esse erano ampiamente prevedibili, proprio come i megaincendi che distruggono le foreste in Australia, Amazzonia, California e Francia. Già si sa che almeno un terzo del Bangladesh sarà sommerso dall’acqua prima del 2050, così come l’intero delta del Mekong. I governi di questi Paesi sono alla disperata ricerca di soluzioni per anticipare i vertiginosi spostamenti di popolazione e i rischi di carestia che ciò comporterà. Per contro, nel giro di pochi decenni, intere regioni dell’India rischiano di essere soggette quasi tutto l’anno a picchi di calore e umidità letali per gli esseri umani, proprio come gran parte del Sud-Est asiatico e dell’America centrale. Quali disposizioni stanno adottando questi Stati per mettere in guardia le loro popolazioni e aiutarle a prepararsi? Entro il 2040 Italia, Spagna e Portogallo rischiano di perdere oltre il 40% dell’accesso all’acqua dolce di cui godono oggi. Dove sono gli impianti di desalinizzazione dell’acqua di mare che permetteranno alle persone di sopravvivere?
Resta il fatto che le rare iniziative intraprese sono molto tardive e spesso su una scala inadeguata rispetto alla sfida. Il fabbisogno di finanziamento per gli investimenti verdi è stimato in 90.000 miliardi di dollari entro il 2035 su scala globale[6]? Il Fondo Verde per il clima delle Nazioni Unite fatica a raccogliere 50 miliardi in 5 anni…
La fantasia di un’isola deserta
Le ragioni di questa relativa paralisi diverse. La prima è quella che si può definire la «sindrome del Titanic»: una parte delle nostre élite economiche continua a ballare sul ponte della nave nonostante abbia capito che il transatlantico ha già urtato l’iceberg e sta imbarcando acqua. Perché? Perché queste élite sono convinte che avranno un accesso privilegiato alla scialuppa di salvataggio; pertanto, si sentono al sicuro e considerano esorbitante il costo finanziario e politico delle riforme che permetterebbero di riparare la nave per evitare che l’avaria finisca in un naufragio. È quella che si può definire la «fantasia di un’isola deserta»[7]: questi ultraricchi sognano un rifugio dove potranno ripararsi dalle conseguenze disastrose della propria noncuranza. In effetti, sono queste stesse élite le principali responsabili della crisi climatica: il 10% più ricco del Pianeta produce da solo più del 40% delle emissioni. Questo genere di isola deserta esiste già: sono le gated communities, che si trovano in America Latina o nei «villaggi» dove si rifugiano gli espatriati delle compagnie estrattive in Africa, protetti da milizie private.
È chiara allora l’importanza di una discussione scientifica sulla possibilità di estinzione dell’umanità? Non esiste una tale isola deserta. Anche se, per un caso straordinario, una comunità di ultraricchi riuscisse a isolarsi in uno dei bunker che alcuni di loro stanno costruendo, la scomparsa di interi strati di popolazione li priverà della maggior parte dei servizi senza i quali non sono in grado di vivere[8].
Una scelta di società
La seconda ragione della nostra paralisi sta nel fatto che le nostre società si trovano a un bivio in termini di economia politica delle energie non fossili. Ci vengono offerte due opzioni, La prima, invocata dalla maggior parte degli ambientalisti e dei giovani della Economy of Francesco, consiste nel riorganizzare le nostre società per distribuire il più ampiamente possibile le fonti di accesso all’acqua e di produzione di energia rinnovabile e il potere decisionale politico: in sostanza, una democrazia partecipativa strutturata attorno a beni comuni decentralizzati. La Germania nell’ultimo decennio sembrava volersi impegnare in questa direzione, a giudicare dalla proliferazione di cooperative di produzione di energia rinnovabile (eolica e solare) in alcuni Länder. Il decentramento e la condivisione delle risorse energetiche dovevano logicamente essere accompagnati da una condivisione delle decisioni politiche. Da allora, purtroppo, la maggior parte di queste cooperative è stata privatizzata, e la Germania è tornata al carbone: due grandi regressioni che hanno riportato questo Paese al bivio dove si trovano ancora tutti gli altri. La seconda opzione è, per dirla in modo semplice, quella seguita dalla Cina di Xi Jinping e dalla Russia di Putin e verso la quale la Francia cerca di impegnarsi: un’alleanza autoritaria tra la sfera pubblica e un settore privato oligopolistico per favorire una concentrazione molto diseguale delle fonti di produzione energetica e, quindi, delle decisioni politiche. Questa opzione si adatta volentieri alla «soluzione nucleare».
La nostra diagnosi è che una parte delle nostre élite esita: alcuni si sono schierati a favore della seconda opzione e stanno cercando un modo per imporla ai popoli loro malgrado. Preferiscono perdere anni preziosi nella lotta contro le crisi ecologiche che ci stanno colpendo piuttosto che correre il rischio di perdere potere lasciando che le componenti della società civile – in particolare i giovani – si impegnino troppo rapidamente per l’opzione democratico-decentralizzata.
Il controllo antidemocratico dei media da parte dei loro proprietari in un «mercato dei media» sempre più concentrato è, da questo punto di vista, un pessimo segnale: rende possibili le peggiori manipolazioni collettive, e non esiste solo la propaganda di Pechino e Mosca. Eppure, come abbiamo già detto, l’autoritarismo burocratico non può dispiegare le risorse di intelligenza di cui abbiamo bisogno per affrontare le sfide di oggi.
La paralisi del settore finanziario
Il terzo ostacolo alla conversione ecologica delle nostre élite è la paralisi del settore finanziario. Francesco lo ha ricordato: «La finanza è una cosa acquosa, una cosa gassosa, non la si può prendere»[9]. Già nel 1931 l’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI aveva denunciato la dittatura della finanza. Più recentemente, la dichiarazione del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, firmata dal cardinale Turkson nell’autunno del 2011, richiamava a una regolamentazione indispensabile della finanza di mercato e del settore bancario. Questa regolamentazione non è stata attuata a causa dell’idolatria a cui la generazione dei boomers ha scelto di offrire sacrifici e che si nasconde dietro argomentazioni fallaci sulla presunta efficienza dei mercati o sull’eccessiva difficoltà di invertire le molte decisioni di deregolamentazione che sono state prese a partire dagli anni Ottanta.
Nel 2021 è stato dimostrato che le prime 11 banche dell’eurozona detengono da sole 530 miliardi di euro di attivi finanziari direttamente legati agli idrocarburi fossili: carbone, petrolio, gas[10]. Questi attivi rappresentano in media il 95% dei fondi propri di tali banche. Se non se ne sbarazzano, il giorno in cui le nostre società decideranno finalmente di vietare i fossili – cosa che bisogna fare il prima possibile, se vogliamo che i bambini di oggi possano vivere dignitosamente –, la maggior parte di esse fallirà. Lo sanno ma, invece di cambiare radicalmente il loro business model, e dal momento che nessuno vuole più comprare da loro questi nuovi asset ormai «marci», stanno tirando a tutta forza il freno a mano sulla decarbonizzazione delle nostre economie, anche a costo di utilizzare mezzi di ricatto nei confronti degli Stati (incapaci di aiutarle in caso di crollo), delle banche centrali (di cui sono i principali committenti), delle multinazionali private (che dipendono da loro per il proprio finanziamento). In pratica, si sta facendo quello che papa Francesco ha denunciato ad Assisi: «Non basta fare il maquillage, bisogna mettere in discussione il modello di sviluppo»[11]. Un modello interamente guidato oggi dai diktat della sfera finanziaria, a sua volta celata dietro il green washing della finanza «verde»[12].
Qual è la via d’uscita da questa impasse? Non si tratta di creare bad bank nazionali, che ricomprino a prezzi esorbitanti questi asset «marci», per poi trasferire le proprie perdite nel bilancio dello Stato: ciò significherebbe far pagare ancora una volta il conto ai contribuenti, e ai più poveri. Piuttosto, bisogna esigere che le banche centrali, poste sotto il controllo dei parlamenti, riacquistino esse stesse i suddetti asset e compensino le proprie perdite con la creazione di moneta. Questo non costerebbe nulla a nessuno e non creerebbe inflazione, se i nuovi margini di manovra di concessione del credito che saranno così liberati per le banche verranno messi a profitto per finanziare la transizione ecologica. Certo, alcuni agiteranno lo spettro del rischio inflazionistico; e se fosse vero che la creazione di moneta è sempre e ovunque inflazionistica, allora tutte le banche dovrebbero chiudere, perché il loro compito è proprio quello di creare moneta ex nihilo[13]. «State attenti a questa gassosità delle finanze: voi dovete riprendere l’attività economica dalle radici, dalle radici umane, come sono state fatte», ha detto Francesco[14].
L’esempio «tseltal maya»
L’Europa, fino al XVII secolo, era «analogista». Ciò significa che considerava il cosmo come costituito da entità autonome legate tra loro da rapporti di analogia, al cui vertice c’era Dio. L’intera creazione era in relazione con lui attraverso un’analogia astorica dell’essere (analogia entis), la cui dottrina fu stabilita da Tommaso d’Aquino e dai concili medievali e che molti teologi protestanti hanno rifiutato. Per tutta una serie di ragioni che qui non è possibile esporre, ci sembra molto difficile, se non impossibile, tornare ingenuamente a una visione del mondo strutturata dall’analogia medievale. Sono invece possibili altri tipi di analogie, più orizzontali, aperte a chi non si definisce cristiano. Lo stiamo già sperimentando quando cerchiamo di trarre ispirazione da esempi che ci hanno preceduto per fare qualcosa di nuovo, che è proprio quello che dovremo inventare per creare istituzioni capaci di governare i nostri beni comuni locali e globali. Siamo quindi in un rapporto di analogia con le fonti che ci ispirano.
Quest’altro tipo di analogia – che il teologo Christoph Theobald chiama analogia Regni, l’analogia del regno di Dio che si avvicina[15] – fornisce forse la chiave per comprendere il nuovo tipo di cosmologia che può aiutarci ad affrontare le nostre sfide: una cosmologia storica da parte a parte, in cui impareremo a prenderci cura delle nostre relazioni con il vivente, presente, passato e, soprattutto, futuro.
Natale
«Quale senso può avere – scrivevamo in un articolo per il Natale del 1979 – parlare di gioia e di pace in un momento così difficile?». Ce lo siamo chiesto ancora e di nuovo.
Un’esperienza concreta di economia sociale e solidale nella giungla del nord del Chiapas ci permette di capire di che cosa stiamo parlando. Il nord del Messico insegue il miraggio statunitense di uno stile di vita consumistico che sappiamo essere insostenibile e che sarà brutalmente stroncato dai disastri climatici, se non si cambia rotta. Nell’estate del 2022, gli abitanti di Nuevo León, che vivono in una delle regioni più ricche del Paese, hanno sofferto per la carenza di acqua potabile e hanno adottato misure senza precedenti per beneficiare della poca acqua rimasta nelle vicine dighe. Purtroppo, pochissimi messicani hanno fatto un collegamento tra questa catastrofe e la promozione delle industrie estrattive che generano un consumo eccessivo di acqua.
Nel Messico centrale e meridionale, invece, possiamo ancora vedere quello che Guillermo Bonfil Batalla descrive come il México profundo[16], quello che resiste alla morte e cerca l’armonia comunitaria, principalmente nelle famiglie contadine e nelle comunità indigene. Nello Stato del Chiapas, lo tseltal maya è attualmente il gruppo etnico più numeroso, e la loro lingua è la terza parlata nel Paese. La cultura tseltal è un esempio vivente di ciò che papa Francesco si sforza di comunicare ai giovani che cercano altri stili di vita ed economie alternative. Le comunità tseltal sono sopravvissute all’arrivo dell’Occidente grazie al sistema del cargo, una pratica delle culture mesoamericane. I cargos sono persone che acquisiscono autorità morale all’interno della loro comunità grazie al servizio che rendono ad essa. Possono essere coloro che risolvono conflitti, coloro che aprono i cuori, guardiani della madre terra, catechisti o persino diaconi. Rappresentano un modo di vivere in comunità e di prendersi cura degli altri, perché i problemi di una persona riguardano tutti e minacciano l’armonia dell’intera comunità umana e della sua ecumene.
In quest’area geografica, con il suo ecosistema di giungla e la sua ricchezza culturale e naturale, le famiglie contadine vivono di un’economia di sussistenza e di autoconsumo. Nonostante le sue ricchezze naturali e culturali, la regione è una delle aree con i più alti livelli di povertà ed emarginazione del Paese, con oltre il 40% della popolazione che vive al di sotto della soglia di estrema povertà.
Grazie alla lotta contadina delle comunità lungo tutto il XX secolo, e in particolare durante la rivolta dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln), le terre di questa regione sono state sottratte alle mani dei cacicchi stranieri e messe a beneficio delle comunità indigene attraverso la figura degli ejidos, un modo comunitario di lavorare e amministrare la terra senza titoli di proprietà privata. La proprietà è comune agli ejidatarios, e di norma non può essere privatizzata. In particolare, non può essere venduta a nessuno al di fuori dell’ejido. Le comunità tseltal negli ultimi decenni si sono dedicate alla coltivazione della milpa (mais, fagioli, peperoncino, zucca, chayote ecc.) come base della loro alimentazione, e alla coltivazione del caffè come principale prodotto agricolo commercializzato ed esportato in altri Paesi.
Sebbene i movimenti sociali abbiano apportato un cambiamento così significativo nella proprietà fondiaria, la struttura economica in cui si trova la regione continua a essere prevalentemente estrattiva e monopolizzata da pochi intermediari, che beneficiano di margini sostanziali tra il prezzo di acquisto del caffè e la sua rivendita sui mercati internazionali. I coyotes, come vengono chiamati gli intermediari del caffè, monopolizzano la catena di distribuzione del caffè e cercano, quando possono, di espropriare i più poveri delle loro terre. L’elevata volatilità del prezzo dei chicchi di caffè alla Borsa di New York – dove la speculazione degli investitori e delle grandi industrie decide il reddito che un coltivatore di caffè tseltal percepirà per il suo raccolto senza nemmeno sapere che lui esiste – rende il mercato del caffè uno spazio erratico, profondamente iniquo e ingiusto. È l’esempio più evidente di un’economia che uccide.
Le comunità tseltal si sono quindi organizzate e hanno deciso, negli ultimi due decenni, di mettere in atto un metodo alternativo, che permetta di produrre un reddito equo e sostenibile per coloro che coltivano il caffè secondo pratiche agro-ecologiche sane. È così che è nato Yomol A’tel («Lavoriamo insieme», in lingua tseltal). Oggi è un insieme di esperienze di organizzazione socio-imprenditoriale delle comunità indigene tseltal del Messico, situate nei comuni di Chilón, Sitalá, Yajalón, Ocosingo e Pantelhó, nella giungla settentrionale del Chiapas. Esso si propone di generare condizioni economiche eque, alla portata delle comunità, commercializzando prodotti di qualità, con l’obiettivo di migliorare i redditi e il consumo delle famiglie di produttori, rafforzare i sistemi di lavoro comunitario e preservare la biodiversità dell’ecosistema locale, conosciuto in questo luogo come lekil kuxlejalil («vita in armonia»).
A Yomol A ́tel l’obiettivo è lo sviluppo integrale della catena del valore nella produzione di caffè, miele e saponi a partire dalla trasformazione di donne e uomini che aspirano al buen vivir. In questa esperienza, la microfinanza svolge un ruolo importante, ma al cuore del modello di impresa sociale c’è soprattutto la formazione: si tratta di una visione della formazione che riproduce il modo in cui tradizionalmente il popolo tseltal apprende, senza un insegnamento formale, attraverso l’osservazione e la propria pratica, al fine di lavorare per generare le capacità necessarie per difendere i territori in pericolo e per far fronte alla fluttuazione irregolare dei prezzi.
Queste pratiche concrete si basano su tre princìpi:
1) la costruzione di un prezzo equo che permetta ai produttori e alle loro famiglie di avere una vita dignitosa e un reddito sufficiente a coprire i propri bisogni;
2) mettere le donne e gli uomini al centro dell’impresa affinché questa sia governata dai princìpi di inclusione, giustizia ed equità, con modelli orizzontali di organizzazione e di decisione che cercano di tener conto di tutte le voci;
3) lavorare alla creazione di opportunità d’impiego, al proprio sistema educativo – non necessariamente la scolarizzazione in senso occidentale – e a processi produttivi che consentano l’appropriazione del territorio e che permettano di sostenere la vita delle generazioni future tenendo conto dei valori e della cultura tseltal.
In quale misura questi princìpi e pratiche possono ispirarne altri, in altri luoghi? È questa la sfida dell’analogia Regni: duplicare per analogia le esperienze di successo degli uni e degli altri, passare a scale diverse, imparare dai nostri errori, tutto questo permette di accrescere l’accoglienza del Regno.
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[1]. Cfr G. Giraud, «L’economia di Francesco e i giovani», in Civ. Catt. 2020 IV 531-544.
[2]. Cfr Id., «La notte della gioventù contemporanea. Una riflessione dopo “Economy of Francesco”», in Civ. Catt. 2022 IV 324-331.
[3]. Cfr Id., «Per ripartire dopo l’emergenza Covid-19», in Civ. Catt. 2020 II 7-19.
[4]. Cfr G. Giraud et Al., «2% pour 2°C ! Les investissements publics et privés nécessaires pour atteindre la neutralité carbone de la France en 2050», in Institut Rousseau, 8 marzo 2022.
[5]. Cfr G. Giraud, «Cosmopolitica», in Civ. Catt. 2021 III 3-10.
[6]. Cifra proposta dal New Climate Economy Report (2019) e che viene confermata in Martin et Al., Carbon Tax Policies: Impact on Global Warming and the World Economy, in corso di pubblicazione.
[7]. G. Giraud, Composer un Monde en commun. Une théologie politique de l’Anthropocène, Paris, Seuil, 2022.
[8]. Il film Sans filtre – Triangle of sadness, di Ruben Östlund, Palma d’Oro 2022, lo racconta con un’ironia glaciale.
[9] . Francesco, «Discorso in occasione dell’evento “Economy of Francesco”», 24 settembre 2022.
[10]. Cfr G. Giraud – C. Nicol, «Actifs fossiles, les nouveaux subprimes ? Quand financer la crise climatique peut mener à la crise financière», in Institut Rousseau, 10 giugno 2021.
[11]. Francesco, «Discorso in occasione dell’evento “Economy of Francesco”», cit.
[12]. Cfr A. Grandjean – J. Lefournier – G. Giraud, L’ illusion de la finance verte, Les Editions de l’Atelier, Ivry-sur-Seine, 2021.
[13]. Cfr G. Giraud, La rivoluzione dolce della transizione ecologica, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2022.
[14]. Francesco, «Discorso in occasione dell’evento “Economy of Francesco”», cit.
[15]. Cfr C. Theobald, Le courage de penser l’avenir. études oecuméniques de théologie fondamentale et ecclésiologique, Paris, Cerf, 2021.
[16]. Cfr G. Bonfil Batalla, México profundo. Una civilización negada, Alcalá, Fondo de Cultura Económica, 2019.