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Introduzione
Pubblicato nel 1968, il libro Men in Dark Times[1] ha ancora qualcosa da dire ai nostri giorni. Hannah Arendt lo ha scritto molto tempo fa, è vero, e l’opera consiste in una raccolta di saggi dedicati a personaggi che hanno vissuto la maggior parte della loro vita durante la prima metà del secolo scorso, ad eccezione di Lessing[2].
Eppure, una luce risplende nella vita di queste persone che ci hanno preceduto: il fatto che alcuni di loro non abbiano mai perso la loro integrità nel difficile contesto in cui hanno vissuto. Questo è per noi oggi non solo un promemoria dei pericoli ideologici che ancora ci minacciano, ma anche un lievito di speranza in un’umanità che, sebbene spesso nascosta, ci incoraggia per il futuro.
Infatti, il mondo in cui Arendt ha vissuto con i personaggi la cui vita è per lei un leitmotiv della sua riflessione, si è lasciato avvelenare dalle ideologie totalitarie che hanno segnato il secolo scorso. Nel contesto che ci ha portato a due grandi guerre e a una crescente polarizzazione ideologica che è proseguita, in una certa misura, nel dopoguerra, alcuni non si sono lasciati ridurre a essere puri figli del loro tempo. Queste sono le persone che Arendt chiama «uomini dei tempi bui».
Una di queste figure è Angelo Giuseppe Roncalli (1881-1963), il semplice sacerdote il cui destino ha misteriosamente condotto alla cattedra di Pietro. Il saggio di Arendt porta come titolo l’implicita affermazione dell’autenticità cristiana del personaggio: «Angelo Giuseppe Roncalli: un cristiano sul trono di San Pietro dal 1958 al 1963»[3]. Assumendo, senza lasciarsi corrompere, il ruolo e anche il potere della sede petrina, che è proprio del peso delle istituzioni, Roncalli ha sempre conservato la sua fede e il suo stile di vita autenticamente cristiano. A questo proposito, Arendt esordisce rievocando ciò che si sentiva dire dalla gente semplice di Roma che lo aveva incontrato: «Questo Papa era veramente un cristiano. Come è possibile?»[4].
Quando leggiamo la riflessione di Arendt su Roncalli, anche se si tratta di un protagonista degli anni Sessanta del secolo scorso, le storie, le sue parole, così come i suoi gesti, ci fanno facilmente pensare all’attuale pontificato di Francesco. Lo testimonia il fatto che neanche i violenti appelli alle dimissioni da parte di settori ultraconservatori siano riusciti a distruggere l’immagine di questo nuovo «papa buono». In questo senso, partendo dal testo di Arendt, cercheremo ora di stabilire un parallelismo tra Giovanni XXIII e papa Francesco, sia per quanto riguarda le loro persone sia per i rispettivi pontificati.
Autenticità e semplicità di vita
Dall’inizio del suo pontificato nel 1958, tutti – e non solo i cattolici, come sottolinea Arendt – sono stati piacevolmente sorpresi e toccati dai gesti e dalle parole di Giovanni XXXIII[5]. Così pure, il documentario di Wim Wenders, Papa Francesco, un uomo di parola, mostra la stessa ammirazione per papa Francesco da parte di vari settori della società.
Si tratta di due persone trasparenti, il cui stile di vita rivela una semplicità e un’autenticità che precedono, o meglio determinano, la strategia che essi potrebbero usare nel loro modo di governare. Arendt si meraviglia della disinvoltura di un papa che sa ridere e che lo fa senza pudore[6], così come Austen Ive-reigh descrive la vicinanza tra l’allora arcivescovo Bergoglio e la sua gente[7].
Lo stesso vale per il buon rapporto che i due pontefici hanno con persone di tutti gli strati sociali. Infatti, come Giovanni XXIII sviluppò un rapporto molto familiare con gli operai e i contadini del Vaticano[8], così sono note le immagini di papa Francesco che pranza in piena convivialità con i lavoratori dello Stato Pontificio. Pertanto, la descrizione del pontificato di Roncalli fatta da Arendt riporta prontamente la nostra immaginazione a Francesco. Stare a contatto con tutti – carcerati, peccatori, operai, giardinieri del Vaticano –, trattare tutti alla pari, compresi la figlia di Krusciov e suo marito[9], che Giovanni XXIIII accolse in Vaticano, non senza critiche da parte di coloro che ne furono scandalizzati: tutto ciò è molto simile al modo di essere di papa Francesco, che ha tanto colpito Wenders.
Questa prossimità, questa familiarità sono in rapporto con quanto dice papa Francesco dei pastori che hanno «l’odore delle pecore»[10]. Certo, da un punto di vista cristiano, è necessaria l’intima vicinanza, la compassione del cuore per le persone. Questo è quanto ci mostra il samaritano nella parabola che Gesù racconta nel Vangelo di Luca (cfr Lc 10,25-37). Senza questa prossimità, senza questo amore, la fraternità e la solidarietà saranno vuote, perché il «servizio», come dice Francesco, «guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la promozione del fratello»[11].
Ed è in questa priorità della prossimità del cuore che possiamo comprendere i gesti e le parole di papa Francesco, che non possono scandalizzare di più di quelli del suo predecessore, san Giovanni XXIII. A tale proposito, vale la pena notare quanto dice Arendt di Roncalli: il suo pontificato è compreso sulla base dello stile di vita che ha assunto in quanto autentico cristiano; e dunque il mandato divino «Vieni e seguimi» precede il mantenimento delle strutture e delle regole dell’istituzione ecclesiastica, come pure la proclamazione e la fredda difesa apologetica dei dogmi[12]. In definitiva, l’essenzialità di Roncalli si manifesta nel pontificato di Giovanni XXIII, nel senso che i suoi gesti e le sue parole rivelano più l’uomo di fede che i princìpi e le strutture di un’istituzione.
È naturale che l’imprevedibilità caratterizzi parimenti i gesti e le parole di chi è autentico. Ci sono molte storie divertenti su Giovanni XXIII. Forse non tutte si sono svolte esattamente come le si raccontano. Tuttavia, esse rivelano lo spirito di questo personaggio. Arendt ci riferisce alcuni di questi aneddoti, in particolare quello di Giovanni XXIII che passeggia nei giardini vaticani anche durante l’orario di visita a essi. E quando gli viene suggerito di non farlo, dice spontaneamente: «Ma perché non possono vedermi? Vi giuro che non mi comporterò male»[13].
Francesco ha diritto di riconoscere in Giovanni XXIII un sacerdote che esce per strada, dove incontra la gente comune di questo mondo[14]; per lui è l’esempio di un vero pastore. Ciò che lega Francesco a Giovanni XXIII è il fatto che entrambi conservano la consapevolezza della loro umanità condivisa con i comuni mortali, anche nell’esercizio del ministero loro affidato. Così facendo, questi due papi vengono percepiti dalla gente come uomini come noi. Qui sta l’umiltà che ci tocca e che permette loro di avvicinarsi alle persone e di sensibilizzarle alle questioni di giustizia sociale e ai gesti di pietà popolare.
Roncalli e Bergoglio nei «tempi bui»
Finora abbiamo considerato l’umanità di questi due personaggi. Ora è il momento di descrivere i loro «tempi bui». Nel suo libro, Arendt è interessata alle persone concrete, al modo in cui hanno vissuto in questo mondo e a come sono state influenzate dal contesto storico[15]. L’espressione «tempi bui» è stata presa in prestito da Bertold Brecht, sebbene Arendt le dia un significato molto più ampio. Infatti, mentre per il poeta tedesco essa si riferisce a un tempo di carestia, a un’epoca di eccessiva violenza e ingiustizia, di spaventosi massacri e di catastrofi estreme, per Arendt questi «tempi bui» non si riducono alle mostruosità del XX secolo. Questi tempi, che non sono né rari né inediti nella storia umana, sono periodi bui in cui tuttavia brilla la luce, non di belle teorie e di bei concetti, ma della vita di alcuni uomini e donne, generalmente pochi, che non si sono lasciati assorbire dallo spirito del loro tempo che ha condotto l’umanità alla catastrofe[16].
In questo senso è interessante notare un parallelismo non solo tra le personalità dei due papi in questione, ma anche dei rispettivi contesti storici. Si tratta dei tempi bui di cui essi sono la luce? La verità è che Roncalli ha vissuto l’Olocausto, la Seconda guerra mondiale e la crisi dei missili di Cuba, mentre Francesco gli succede adesso come primo papa del dopoguerra che assiste a una nuova invasione militare di un Paese sul suolo europeo.
Pertanto, ora vogliamo esaminare come entrambi abbiano affrontato le difficoltà del loro tempo. Da parte sua, Roncalli, in qualità di nunzio apostolico in Turchia, si dimostrò franco con l’ambasciatore tedesco, Franz von Papen, rifiutando di collaborare con il corpo diplomatico vaticano per sostenere il Reich[17]. Agendo per salvare il maggior numero possibile di vite di ebrei minacciati, era aperto al dialogo (da non confondere con le concessioni) con tutti. In seguito, come pontefice di Roma, egli accolse, durante una breve udienza, rappresentanti della Russia comunista e impartì loro anche una benedizione[18].
L’indicazione di questa udienza come «molto polemica» ci rimanda a molti episodi dell’attuale pontificato. Pensiamo, ad esempio, all’incontro tra Francesco e Nancy Pelosi, una politica statunitense che difende il diritto all’aborto. Per papa Francesco, come per Giovanni XXIII, non si tratta di cambiare idea sui princìpi della morale cristiana, ma semplicemente di compiere gesti di misericordia, capaci di mettere in moto processi di cui non sta a noi determinare la conclusione.
L’espressione utilizzata da p. Antonio Spadaro di una «diplomazia della misericordia»[19] è pertinente per comprendere non solo l’attuale pontificato, ma anche lo stile del riformatore che ha convocato l’ultimo Concilio ecumenico.
Il magistero di Giovanni XXIII e quello di Francesco
A questo riguardo, possiamo stabilire un parallelismo tra due encicliche che sono simbolo dei due pontificati: Pacem in terris (PT, 1963) e Fratelli tutti (FT, 2020). Entrambi i testi sono stati scritti in un mondo minacciato da crisi di varia natura, compresa la possibilità di una guerra tra blocchi ideologicamente separati in una polarità crescente. I due autori vengono criticati, da alcuni settori della Chiesa stessa, per non aver esplicitato in esse la necessità del battesimo e della conversione per la salvezza delle anime. Ora, è vero che in queste due encicliche non sembra esserci tale preoccupazione per la salvezza finale, ma si tratta piuttosto di determinare come debbano vivere e agire, hic et nunc, coloro che hanno adottato il cristianesimo come stile di vita.
In questo modo si promuove la cultura del dialogo e dell’incontro a scapito della cultura della violenza e della frammentazione. Così le due encicliche papali convergono in questo umanesimo cristiano. Anche se le preoccupazioni ambientali ed ecologiche non erano ancora presenti nel magistero di Giovanni XXIII, è impossibile non rimanere sorpresi dai molti punti in comune che ci sono tra i due documenti. Se Giovanni XXIII considera «con profonda amarezza il fenomeno dei profughi politici»[20], difendendo i loro diritti e la loro dignità di persone umane, mentre fa appello ai princìpi della «solidarietà umana e dell’amore cristiano»[21], l’enciclica di Francesco potrebbe perfettamente utilizzare queste stesse espressioni. In effetti, le parole di Giovanni XXIII sono riaffermate dalle proposte che Francesco elenca in FT, ovvero: «incrementare e semplificare la concessione di visti; adottare programmi di patrocinio privato e comunitario; aprire corridoi umanitari per i rifugiati più vulnerabili; offrire un alloggio adeguato e decoroso; garantire la sicurezza personale e l’accesso ai servizi essenziali; assicurare un’adeguata assistenza consolare, il diritto ad avere sempre con sé i documenti personali di identità, un accesso imparziale alla giustizia, la possibilità di aprire conti bancari e la garanzia del necessario per la sussistenza vitale; dare loro libertà di movimento e possibilità di lavorare; proteggere i minorenni e assicurare ad essi l’accesso regolare all’educazione; prevedere programmi di custodia temporanea o di accoglienza; garantire la libertà religiosa; promuovere il loro inserimento sociale; favorire il ricongiungimento familiare e preparare le comunità locali ai processi di integrazione» (FT 130).
Le espressioni di «fraternità universale» e «amicizia sociale» di Francesco[22] fanno eco alla «solidarietà umana» di cui parlava papa Giovanni e al sogno di una «vera comunità fraterna», capace di riunire «tutti i popoli della terra»[23], a cui egli aspirava. A tale proposito, è opportuno ricordare le parole del suo predecessore Pio XII, per il quale «non nella rivoluzione, ma in una evoluzione concordata sta la salvezza e la giustizia. La violenza non ha mai fatto altro che abbattere, non innalzare; accendere le passioni, non calmarle; accumulare odio e rovine, non affratellare i contendenti; e ha precipitato gli uomini e i partiti nella dura necessità di ricostruire lentamente, dopo prove dolorose, sopra i ruderi della discordia»[24].
Queste parole erano chiaramente pertinenti nel contesto di un mondo segnato dal blocco sovietico e dall’orizzonte marxista. In ogni caso, il principio che opera nella logica di Giovanni XXIII è molto simile a quello di Francesco. Si tratta di iniziare con gesti di misericordia il cammino verso la fraternità universale: un cammino difficile e progressivo, che non abbandoniamo grazie alla speranza insita alla nostra fede cristiana.
Per questo le proposte di Giovanni XXIII, così come quelle di papa Francesco, non si riducono affatto a sogni ingenui o a slogan velleitari di adolescenti. In quanto emergono dall’autentica vita cristiana, sono le proposte di chi si sente misticamente legato a tutti gli esseri umani, anzi a tutte le creature attraverso la relazione con il nostro Padre comune.
Infatti, la promozione della pace e della collaborazione di tutti per il bene comune, a cui Francesco e Giovanni XXIII fanno esplicito riferimento[25], non si riducono a una semplice strategia politica che diluisce l’essenziale della dottrina cristiana. Si tratta di una mistica cristiana, secondo cui ci si prende cura del prossimo e del creato non per puro dovere etico. Attraverso la fraternità che scaturisce dal cuore, la cura del fratello o della sorella va ben oltre la morale: si traduce in un’azione che rispecchia i nostri desideri più profondi e ci consente di realizzarci come persone che vivono autenticamente il cristianesimo.
Il dialogo sincero appare dunque come un processo in cui si concretizza la cultura dell’incontro. In tale processo, il desiderio di incontrare gli altri, nelle loro differenze, va ben oltre il semplice fatto di rispettarli con tolleranza. Finché sarà possibile tollerare l’altro nell’indifferenza pietrificante, nel suo modo di vivere e nelle sue convinzioni, l’incontro fraterno non avrà mai luogo in questo mondo, perché la fraternità esiste solo quando si prova «stima» per l’altro che si rivela davanti a noi come figlio di Dio[26].
Per questo la «fraternità universale» ha bisogno dell’«amicizia sociale». Altrimenti rischierebbe di essere ridotta a un ideale astratto, freddamente perseguito sulla base dei princìpi di sistemi impersonali, dove l’affetto della vicinanza non potrebbe mai diventare un evento concreto. Anche quando il contesto della pandemia ci ha costretti a stabilire una distanza fisica per proteggere i più vulnerabili, papa Francesco ha tenuto a sottolineare che questa necessità dimostra quanto siamo legati agli altri: le mie scelte influenzano la vita degli altri. Ecco perché una morale individualista non può mai essere fondata: perché siamo intrinsecamente legati gli uni agli altri, siamo nati in relazione e per rimanere in «contatto» con gli altri[27].
Papa Francesco condivide quindi con Giovanni XXIII questo realismo umano della prossimità affettiva e dell’autenticità di vita. È sulla base di tale realismo che possiamo comprendere ciò che entrambi dicono sulla guerra e sul disarmo. Non si tratta affatto di un idealismo astratto e inefficace, ma di una continuazione concreta dell’esempio di Gesù.
A questo proposito, si noti come Giovanni XXIII abbia invocato il disarmo durante la «guerra fredda», subito dopo la difficile crisi dei missili di Cuba, mentre Francesco ha criticato la nozione di «guerra giusta» in un mondo le cui tensioni ci hanno condotto a una nuova guerra sul suolo europeo.
Papa Giovanni non solo fa appello all’«effettiva riduzione degli armamenti», ma si azzarda perfino a chiedere «la loro eliminazione». La sua logica, o meglio la cristologia che egli segue, è semplice: nella misura in cui tale eliminazione rimane per sempre irrealizzabile finché non si raggiungono «gli spiriti», è consigliabile «dissolvere la psicosi bellica». Così, invece di cercare di stabilire una sorta di pax romana, basata «sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia»[28]. Questo è ciò che riappare nel magistero di Francesco, in esplicito riferimento al Papa che ha convocato il Concilio Vaticano II: «Come diceva san Giovanni XXIII, “riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia”. Lo affermava in un periodo di forte tensione internazionale, e così diede voce al grande anelito alla pace che si diffondeva ai tempi della guerra fredda. Rafforzò la convinzione che le ragioni della pace sono più forti di ogni calcolo di interessi particolari e di ogni fiducia posta nell’uso delle armi. Però non si colsero pienamente le occasioni offerte dalla fine della guerra fredda, per la mancanza di una visione del futuro e di una consapevolezza condivisa circa il nostro destino comune. Invece si cedette alla ricerca di interessi particolari senza farsi carico del bene comune universale. Così si è fatto di nuovo strada l’ingannevole fantasma della guerra» (FT 260).
Queste parole, come i gesti di papa Francesco che a volte ci sorprendono o scandalizzano, possono essere comprese solo come l’ispirazione di un vero discepolo di Cristo. Questo è ciò che Arendt riconosce in relazione a Roncalli: voleva solo che fosse fatta la volontà di Dio suo Padre, in terra come in cielo[29]. Non si tratta in prima istanza di una semplice strategia politica, ma di una politica che nasce da una mistica cristiana.
La conversione come liberazione dalle ideologie
Solo questa mistica rende intelligibili i gesti e le parole di Giovanni XXIII e di papa Francesco. Come fa notare Arendt a proposito di Giovanni XXIII[30], questo pontefice si è sempre preoccupato di seguire l’esempio di Gesù. In ogni circostanza egli incarnava il Vangelo nella sua vita, andando al di là delle convenzioni e dei costumi, a volte mettendo da parte i protocolli e le regole istituzionali. È quanto è successo quando ha incontrato un entourage di comunisti russi, che ha benedetto nel contesto degli anni Sessanta del XX secolo.
Lo stesso vale per le persone al di fuori della Chiesa con cui si incontra Francesco. Se, nel contesto della «guerra fredda», papa Giovanni ha saputo accogliere e dialogare con i comunisti sovietici senza rinnegare la sua fede cristiana, oggi Francesco cerca di costruire ponti con diverse persone che, in linea di principio, sembrano essere al di fuori, perfino contrasto con la Chiesa. Consideriamo, ad esempio, l’incontro con il grande Imam Ahmad al-Tayyeb nel 2019. In un mondo, come quello di oggi, in cui un incontro pacifico e dialogico a volte sembra impossibile a causa della crescente polarizzazione ideologica, il documento che Francesco ha firmato con il leader musulmano, così come il gesto di abbraccio amichevole che essi hanno compiuto, possono sorprendere, persino scioccare, soprattutto i fedeli delle due religioni. Perché l’incontro armonioso tra persone di fedi o opinioni diverse appartiene oggi a una controcultura. Questo è dunque l’atteggiamento del Papa che si differenzia dall’aggressività presente nei dibattiti attuali estremamente polarizzati.
Ora, fedele alla più pura tradizione cristiana, papa Francesco ha abbracciato Ahmad al-Tayyeb, che lo ha accolto ad Abu Dhabi 800 anni dopo che il Poverello di Assisi aveva scelto, in un mondo segnato da crociate e guerre di religione, di incontrarsi pacificamente con il sultano Malik Al Kamil. Invece della violenza, san Francesco ha scelto il dialogo. Invece del potere e della forza del mondo, il Poverello ha scelto la povertà del Vangelo. Invece di cercare una vittoria mondana, ha abbracciato la croce e la sua logica. Certo, agli occhi del mondo, la sua missione è stata probabilmente un fallimento. Perché, in definitiva, anche dopo aver ricevuto la proclamazione autentica di uno dei più grandi santi ed evangelizzatori che la Chiesa abbia mai conosciuto, il sultano è rimasto musulmano. Secondo il Papa, questo episodio non fa che rispecchiare, nel concreto della vita, le parole che il santo d’Assisi ha lasciato per iscritto. Ha affermato Francesco: «Mi piace citare san Francesco, quando dà istruzioni ai frati su come avvicinarsi a saraceni e non cristiani. Ha scritto: “Che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani” (Regola non bollata, XVI)»[31].
San Francesco non è preoccupato di conquistare il mondo o di preservare la fede del suo gruppo. Più che cercare di convincere gli altri, il suo atteggiamento nasce da una visione soprannaturale del Vangelo, l’unica che ci permette di comprendere e vivere la croce.
Invece di iniziare dal voler convertire i diversi, Francesco ha vissuto l’esperienza di un Dio accogliente, un Dio che ama fino a offrire la propria vita. Chi sperimenta questo Dio accoglie l’altro e fa del diverso il suo prossimo. Si tratta di vivere a partire dall’incontro con Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Chi diventa discepolo desidera un incontro libero con gli altri. Solo così possiamo comprendere l’atteggiamento di papa Francesco. Si tratta, molto semplicemente, di evangelizzare alla maniera di Gesù e dei grandi santi che lo hanno seguito.
Per quanto paradossale possa sembrare, qui non c’è strategia, anche se è questo atteggiamento che trasforma o converte veramente il mondo, l’altro e ciascuno di noi a Dio. Più che una strategia, Francesco cerca di vivere le beatitudini del Vangelo, che proclamano «beati i miti» (Mt 5,5). Il papa commenta questo passo di Matteo affermando che «non è beato chi aggredisce o sopraffà, ma chi mantiene il comportamento di Gesù che ci ha salvato: mite anche di fronte ai suoi accusatori»[32].
È un modo di essere che riconcilia con sé stessi, con la propria vita e, naturalmente, con Dio, con il mondo e con gli altri. Quale libertà è dunque necessaria per compiere tali gesti? Arendt, commentando le parole che Giovanni XXIII ha lasciato nel suo diario spirituale[33], individua in questo papa un uomo profondamente libero, fino al punto di essere disponibile a distaccarsi da tutte le cose di questo mondo, siano esse i beni materiali o il potere, il prestigio dei titoli o la buona reputazione[34].
Pertanto, siamo di fronte a un profeta, non di quelli che predicono aspettative, il futuro secondo le proprie aspettative, ma di quelli che si trovano disponibili a compiere la volontà di Colui che dà loro la vita. È questa libertà che permette a papa Francesco, nel bel mezzo della guerra in Ucraina, di criticare il patriarca Kirill per il suo sostegno a Putin, pur prendendo le distanze dal crescente bellicismo della Nato[35]. È la stessa libertà interiore che gli permette di dialogare, con un approccio pastorale, con i politici che promuovono il diritto legale all’aborto, pur condannandolo fermamente[36]. Con questa libertà, egli è in grado di vedere e denunciare i problemi del nostro mondo: dalla questione dei migranti e dei rifugiati alle crisi ambientali, senza dimenticare il crescente disinteresse e abbandono degli anziani[37]. Quanto a Giovanni XXIII, constatiamo la stessa libertà di parola, per la quale egli ha avuto innumerevoli difficoltà, secondo l’espressione di Arendt, «con Roma»[38], cioè con l’istituzione.
Fondamentalmente si tratta di distaccarsi dalle ideologie, a favore di un dialogo fruttuoso con tutte le persone. Crediamo che, come la Chiesa ha sempre bisogno di essere riformata – Ecclesia semper reformanda[39] –, così la conversione a cui siamo chiamati, oggi più che mai, consista in una conversione del cuore, per renderlo mite e libero dal fondamentalismo ideologico che ci polarizza e ci allontana gli uni dagli altri, frammentando sempre più la società in diverse barricate o cittadelle.
Questo è stato l’approccio di Giovanni XXIII, e lo è anche di papa Francesco. A tale proposito, è interessante notare quanto Arendt osserva ne Il giornale dell’anima di Giovanni XXIII, le cui pagine testimoniano la sua fede: l’idea di convocare un nuovo Concilio gli è venuta nel contesto della preghiera; egli non aveva nulla di premeditato o pianificato, e quindi non poteva prevedere quale sarebbe stato il risultato di un evento del genere[40]. Anche sotto questo aspetto, egli era libero.
In sostanza, la riforma inizia innescando un processo in cui persone diverse si uniscono in una cultura del dialogo. È quello che ha fatto Giovanni XXIII con il Concilio ecumenico, con il Sinodo diocesano da lui convocato, e con la sua dichiarazione di voler rivedere il Codice di diritto canonico. Non è forse quello che sta facendo anche papa Francesco con il Sinodo sulla sinodalità (2021-23)? Infatti, nell’omelia di apertura di questo processo sinodale, Francesco, commentando l’episodio evangelico del giovane ricco (cfr Mc 10,17-22), ha descritto le caratteristiche dell’approccio di Gesù. In primo luogo, c’è l’incontro libero, in cui Gesù lascia parlare l’altro: si tratta di ascoltare. Poi viene il processo di discernimento, come un cammino che si fa insieme con gli altri. Il Papa afferma che «fare Sinodo significa camminare sulla stessa strada, camminare insieme. Guardiamo a Gesù, che sulla strada dapprima incontra l’uomo ricco, poi ascolta le sue domande e infine lo aiuta a discernere che cosa fare per avere la vita eterna. Incontrare, ascoltare, discernere: tre verbi del Sinodo su cui vorrei soffermarmi»[41].
Per tornare al testo di Arendt su Roncalli, mettiamo in risalto l’affermazione lapidaria che il «papa buono» non era mosso né da teorie, né da protocolli, né da convenzioni, ma solo da una fede concretamente vissuta. E alla sua libertà si unisce la sua umiltà, dice Arendt[42]. Potremmo dire la stessa cosa nel contesto attuale riguardo a Francesco? Sì, a patto che la chiamata alla conversione venga intesa come distacco da teorie chiuse e cristallizzate nel tempo, per meglio incarnare lo stile di Gesù che invita sempre all’accoglienza e all’ascolto.
In questo senso, sia Giovanni XXIII sia papa Francesco non solo si allontanano dalla tendenza che caratterizza molti uomini e donne del nostro tempo: quella di un fanatismo ideologico che, nella sua isteria e violenza, impedisce l’incontro pacifico tra persone diverse, così come il bene comune. Inoltre, i due papi sono agli antipodi di un Eichmann, il quale, secondo Arendt, ha agito senza convinzione, senza riflessione, aderendo passivamente al sistema perverso e banalizzando così il male[43].
Conclusione
In questo articolo abbiamo cercato di mostrare come molto di ciò che Arendt dice di Roncalli ci rimanda facilmente a papa Francesco. Che si tratti della loro spontaneità, della loro maniera informale di rivolgersi a tutti allo stesso modo, della loro determinazione per la pace o della loro libertà di pensiero, che hanno suscitato critiche da diversi schieramenti politici, questi due personaggi si assomigliano per molti aspetti.
In occasione della canonizzazione dei beati Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, Francesco ha detto che papa Giovanni «nella convocazione del Concilio ha dimostrato una delicata docilità allo Spirito Santo, si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa un pastore, una guida-guidata, guidata dallo Spirito». Così ha reso un «grande servizio» alla Chiesa[44].
Si tratta della docilità dei beati che ricevono la grazia della pace, di essere strumenti di pace. La grazia che Francesco d’Assisi ha ricevuto e che l’attuale papa chiede costantemente: «Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace», perché vengono proclamati «beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). La grazia richiesta in questa preghiera di san Francesco contrasta con molte posizioni intransigenti che tendono a caratterizzare i dibattiti nelle nostre società moderne (e anche all’interno delle stesse comunità ecclesiali), sempre più frammentate.
Giovanni XXIII e papa Francesco ci mostrano la strada che si apre quando permettiamo al Vangelo di plasmare la nostra vita. Il loro esempio rivela il paradosso per cui dobbiamo rimanere moderati per seguire Gesù in modo radicale. Nel mondo polarizzato di oggi, questa moderazione è tanto radicale quanto necessaria.
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JOHN XXIII AND POPE FRANCIS, TWO “MEN OF DARK TIMES”
In the 1960s, Hannah Arendt collected a series of essays in a book entitled Men in Dark Times. In one of these essays, she analyzes the figure of John XXIII, the “good pope,” who convened the Second Vatican Council. Much of what Arendt says makes us think of the current pontificate of Francis. In this sense, the parallelism between Roncalli and Bergoglio leads us to understand Christian conversion in our day as an inner liberation in the face of the rigidity of theories and ideologies that, in an increasingly polarized environment, threatens us today as in the past.
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[1]. Cfr H. Arendt, Men in Dark Times, New York, Harcourt, Brace & World, 1968.
[2]. Cfr ivi, VII.
[3]. Cfr ivi, 57-69.
[4]. Ivi, 57.
[5]. Cfr ivi, 59.
[6] . Cfr ivi, 60.
[7] . Cfr A. Ivereigh, The Great Reformer. Francis and the Making of a Radical Pope, New York, Henry Holt and Company, 2015, 44.
[8] . Cfr H. Arendt, Men in Dark Times, cit., 61.
[9] . Cfr ivi, 65.
[10]. Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n. 24.
[11]. Id., «Omelia nella Messa a L’Avana, Cuba, 20 settembre 2015», in Oss. Rom., 21-22 settembre 2015, 8. Brano citato nell’enciclica Fratelli tutti, Assisi, 3 ottobre 2020, n. 115.
[12]. Cfr H. Arendt, Men in Dark Times, cit., 58.
[13]. Ivi, 63.
[14]. Cfr F. Ambrogetti – S. Rubin, Pope Francis. His life in His Own Words. Conversation with Jorge Bergoglio, New York, G. P. Putnam’s Sons, 2013.
[15]. Cfr H. Arendt, Men in Dark Times, cit., VII.
[16]. Cfr ivi, VIII s.
[17]. Cfr ivi, 62.
[18]. Cfr ivi, 66.
[19]. A. Spadaro, «La diplomazia di Francesco. La misericordia come processo politico», in Civ. Catt. 2016 I 209.
[20]. PT 57.
[21]. Cfr PT 58.
[22]. Cfr PT 9; 94.
[23]. Cfr PT 91.
[24]. PT 86.
[25]. Cfr PT 89; FT 15.
[26]. Cfr FT 93; 224.
[27]. Cfr Pope Francis, Let Us Dream. The Path to a Better Future. In conversation with Austen Ivereigh, New York – London – Toronto – Sidney – New Dehli, Simon & Schuster, 2022, 23.
[28]. PT 61.
[29]. Cfr H. Arendt, Men in Dark Times, cit., 68 s.
[30]. Cfr ivi, 66.
[31]. Francesco, Omelia ad Abu Dhabi, 5 febbraio 2019.
[32]. Ivi.
[33]. Cfr Giovanni XXIII, s., Il giornale dell’anima e altri scritti di pietà, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2003.
[34]. Cfr H. Arendt, Men in Dark Times, cit., 63.
[35]. Cfr Francesco, «Papa Francesco in conversazione con i direttori delle riviste culturali europee dei gesuiti», in Civ. Catt. 2022 II 521-529.
[36]. Cfr «Pope Francis respects US Supreme court decision and condemns abortion», in Vatican News (www.vaticannews.va/en/pope/news/2022-07/pope-francis-condemns-abortion-like-hiring-a-hit-man.html), 4 luglio 2022.
[37]. Cfr Pope Francis, Let Us Dream…, cit., 116.
[38]. Cfr H. Arendt, Men in Dark Times, cit., 61.
[39]. Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Unitatis Redintegratio, 21 novembre 1964, n. 6.
[40]. Cfr H. Arendt, Men in Dark Times, cit., 59 s.
[41]. Francesco, Omelia nella celebrazione dell’Eucaristia per l’apertura del Sinodo sulla sinodalità, Basilica di San Pietro, 10 ottobre 2021.
[42]. Cfr H. Arendt, Men in Dark Times, cit., 65.
[43]. Cfr Id., Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, New York, The Viking Press, 1963.
[44]. Cfr Francesco, Omelia in occasione della canonizzazione dei beati Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, Piazza San Pietro, 27 aprile 2014.