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Alle 15,45 del 26 gennaio 2019 papa Francesco ha incontrato nella Nunziatura di Panama 30 gesuiti della provincia centroamericana, che comprende i territori di Panama, Costa Rica, Nicaragua, El Salvador, Honduras e Guatemala. Tra di loro, il provinciale, p. Rolando Enrique Alvarado López, il maestro dei novizi, p. Silvio Avilez, e 18 giovani novizi. Appena Francesco è entrato nella sala dell’incontro, i gesuiti hanno intonato il canto «En todo amar y servir», ben noto nella Compagnia di Gesù. Poi il Papa ha salutato tutti, uno per uno, prima di prendere posto e iniziare la conversazione.
(Antonio Spadaro S.I.)
Grazie per la vostra visita. Nei miei viaggi mi piace incontrare «i nostri», come si diceva quando ero giovane[1]. Voglio dirvi subito una cosa: a quelle province della Compagnia che si lamentano di non avere novizi… tu, provinciale, passagli la ricetta! Domandate quello che volete, che vi interessa, che v’incuriosisce. E in base a questo organizziamo il dialogo. Io non ho preparato niente. Vedete voi…
Nell’omelia che ha rivolto ai vescovi, dopo aver parlato di monsignor Romero, ha citato il gesuita p. Rutilio Grande. Come va la causa di beatificazione di Rutilio?
Voglio molto bene a Rutilio[2]. Nell’ingresso della mia stanza c’è una cornice che contiene un pezzo di tela insanguinata di Romero e gli appunti di una catechesi di Rutilio. Sono stato molto devoto a Rutilio anche prima di aver conosciuto bene la figura di Romero. Quando ero in Argentina, la sua vita mi ha colpito, la sua morte mi ha toccato. Secondo le ultime notizie che ho da persone informate, la dichiarazione di martirio sta andando bene. Ed è un onore… Uomini di questo genere… Rutilio, inoltre, è stato il profeta. Ha «convertito» Romero.
Qui c’è una visione: la dimensione della profezia, quella di colui che è profeta per la testimonianza della vita, e non solamente come quelli che lo sono perché fanno lezione e vanno in giro a parlare. Lui è un profeta di testimonianza. Ha anche detto quello che aveva da dire, ma è stata la sua testimonianza, quella del martirio, che alla fine ha mosso Romero. È stata la grazia. E quindi rivolgetevi a loro con la vostra preghiera.
Lei è stato maestro dei novizi, vero? In quali anni?
Ho cominciato nel febbraio o marzo, non ricordo bene, del 1972. L’ho fatto fino al giorno di sant’Ignazio del 1973, quando ho assunto l’incarico di provinciale. Quindi per un anno e mezzo.
A lei, che è stato maestro dei novizi, faccio una domanda da maestro. Oggi, nei primi decenni del XXI secolo, le situazioni sono molto diverse da quei convulsi anni Settanta in America Latina. Ma c’è qualcosa che lei raccomandava allora ai suoi novizi, e che, secondo lei, dovremmo continuare a ripetere ai novizi di adesso?
Tra le cose di quei momenti che andrebbero trasferite a oggi e che restano attuali, metterei in rilievo un atteggiamento: la chiarezza di coscienza. Per i subdoli non c’è posto: alla Compagnia non servono. Quando leggi le lettere di san Francesco Saverio, vedi quanto egli teneva che si sapessero le cose: quello che Gesù fa nell’anima di ciascuno, e pure come il diavolo scompiglia e come il mondo seduce.
Questo spirito va unito a una grande fiducia. Quindi, il maestro dei novizi non dev’essere una persona timorosa. Dev’essere aperto, molto aperto, non deve spaventarsi di niente, non deve temere niente, e invece dev’essere acuto, capace di dire: «Attento a questo, guarda che questa cosa che mi dici è pericolosa; questa è una grazia, va’ avanti così». Deve saper discernere. Un uomo che non si spaventa, un uomo di discernimento.
Dunque, la chiarezza di coscienza. Quando sono con i novizi, dico loro: guardate, se non vi abituate fin da ora a essere trasparenti, meglio che ve ne andiate. Perché le cose si metteranno male. Allontanarsi dalla trasparenza, magari per una piccolezza, è una cosa che può succedere in ogni processo di crescita. Ma state attenti perché, se non si rimedia subito, poi verrà un momento in cui la Compagnia non saprà che fare con quella persona, perché si rompe il vincolo di fraternità, l’essere compagni nel Signore. A quel punto la persona andrà avanti a forza di trucchi, di scuse, di malattie. Di qualsiasi cosa gli permetta di fare come gli pare. Le persone che si comportano così magari andranno in paradiso, certo! Ma che vita brutta, Dio mio, che vita superficiale! Meglio uscire, e magari sposarsi, avere figli e stare in pace. Ma vivere così, senza chiarezza di coscienza, è fermarsi al guscio della Compagnia, non entrarci dentro.
Io insisterei molto su questo. È chiaro che è una cosa delicata. Infatti, nel maestro comporta una capacità di rispetto, di non spaventarsi, di ascoltare, di incoraggiare. Di essere più esigente.
Questo può valere anche per i superiori. A volte forse avresti desiderato che quella persona non fosse stata chiara di coscienza, perché ha un problema che non sai come risolvere. Ma è la chiarezza di coscienza che ci fa gesuiti. Inoltre, il gesuita deve sapere che il superiore gli vuole bene e che il dialogo è in Dio.
In un libro intervista sulla vita consacrata che è appena uscito racconto un aneddoto[3]. Si parla di un superiore. Un ragazzo, un «maestro»[4], era in un certo collegio spagnolo, e sua mamma aveva un cancro terminale. E nella città in cui viveva sua madre c’era un altro collegio della Compagnia. E un giorno, quando il provinciale venne in visita, fra le altre cose il ragazzo gli disse: «Guardi, mia mamma sta male. Avrà meno di un anno di vita. So che dovete mandare un maestro in quel collegio. Vorrei chiederle di mandare me; in questo modo sarò nella città di mia madre, così sarò vicino a lei nei suoi ultimi momenti». Il provinciale lo ascoltò molto attentamente e gli rispose: «Devo fare discernimento, devo pensarci su». E il ragazzo se ne andò in pace.
Questo è accaduto verso l’ora di pranzo. Il provinciale sarebbe ripartito la mattina seguente, all’alba. Il ragazzo trascorse normalmente il pomeriggio, e la sera si fermò a pregare nella cappella per sua mamma, perché andasse tutto bene… Ci rimase fino a tardi e, quando andò in camera sua, trovò una busta da parte del provinciale. La aprì… Era una lettera con la data del giorno dopo, in cui il provinciale gli diceva: «Dopo averci riflettuto alla presenza del Signore e aver cercato la sua divina volontà… [e altre affermazioni del genere…], e dopo aver celebrato l’Eucaristia [quella del giorno dopo!], penso che tu debba restare in questo collegio». Che cos’era accaduto? Il provinciale doveva partire presto e si era portato avanti con il lavoro, aveva già scritto e lasciato tutte le lettere al ministro[5], che avrebbe dovuto consegnarle l’indomani. Ma il ministro, vedendo che era tarda sera e già dormivano tutti, le aveva consegnate subito.
Quel gesuita non ha lasciato la Compagnia, ma avrebbe avuto tutti i motivi per farlo.
Dunque, è vero che a volte la chiarezza di coscienza va a finire in una contro-testimonianza di questo tipo, in un’ipocrisia! Inoltre, si gioca con il discernimento, con la Messa, con tutto! Quel superiore non aveva scrupoli. Era di quel genere di superiori che stanno sempre in equilibrio, che giocano su questo. Superiori mondani, con lo spirito del mondo. E quindi anche i superiori a volte non aiutano ad avere chiarezza di coscienza, e ne hanno la responsabilità.
Il superiore dev’essere molto umile, molto fraterno, e sapere che verrà il giorno in cui dovrà essere lui ad aprire la sua coscienza a un altro superiore. Insisto su questo: la trasparenza. Mettetevelo in testa, puntate su questo. Altrimenti sarete un fallimento. Sarete dei gesuiti inconsistenti. E allora è meglio andarsene, meglio essere buoni padri di famiglia.
Non ne sto facendo una tragedia, ma è una delle cose centrali della Compagnia, ciò che garantisce l’amore per Cristo, il seguire Cristo. Sono stato formato così…
Come vede lei, oggi, la vocazione di fratello?
Le vocazioni nella Compagnia sono tre: di professo, di coadiutore spirituale e di fratello[6]. Nel 1974, ai tempi della 32a Congregazione, che cominciò il 3 dicembre, c’era molta effervescenza sull’uguaglianza. Si pensava che la differenza tra professo e coadiutore spirituale fosse un’ingiustizia sociale. C’era stata qualche infiltrazione ideologica. Insomma, tirava aria di far diventare tutti professi, così, secondo loro, sarebbero stati tutti uguali. P. Arrupe dovette reagire. Se fosse andata in quel modo, si sarebbe perduto qualcosa della Compagnia. E all’epoca saltò fuori un’altra visione, anch’essa ideologica: che il servizio proprio dei fratelli in Compagnia fosse una sorta di ingiustizia sociale. Si faceva una questione di «livello sociale». Come se il fratello Antonio García, il custode del museo dei martiri a Nagasaki, fosse un «servo» nel senso classico e sociologico del termine. E invece egli era più saggio di tutti noi qui messi assieme! Ed era lui ad aiutare tanti con il suo consiglio. Il fratello è quello che ha il carisma più puro della Compagnia: servire. Servire. Servire.
Prima cantavate En todo amar y servir. Il fratello è così. Concreto. Tra i fratelli che ho conosciuto, alcuni erano «coloriti», avevano i loro difetti… Alcuni hanno combattuto tanto, hanno combattuto per la loro vita religiosa, da eroi, e non sono stati aiutati abbastanza nelle loro lotte e difficoltà. Ne ricordo uno, che aveva la coscienza chiara, ma era un po’ «dongiovanni». Quel povero fratello si innamorava di continuo. E veniva con umiltà, e diceva: «Ah, padre, non faccio altro che cercare continuamente la fidanzata». Chissà, forse non sarebbe neanche dovuto entrare in Compagnia! Ma erano uomini trasparenti e capaci di valutare bene le situazioni. Qui c’è una vocazione al servizio in un modo diverso: nella stessa fraternità, con la stessa dignità religiosa, non semplicemente sociologica, come volevano considerarla una volta.
Alcuni facevano comparazioni e dicevano: «Il fratello è la madre». No, no, no. Questo non va bene. La madre è la Compagnia, e ce ne basta una. Ma il fratello è quello che ha la testa al concreto, che guarda al concreto, che si sa muovere nel concreto, qualsiasi cosa faccia. Da infermiere, da cuoco, da portinaio, da professore. Ha un’altra dimensione. Non è da gesuiti valutare il fratello secondo un profilo sociologico. Questo vuol dire togliere il suo servizio dal contesto proprio.
Tra i fratelli che avevamo in Argentina, alcuni avevano i loro difettucci, certo, ma erano uomini di questo calibro. Ne ricordo uno, un sant’uomo. Era croato, fuggito dalla sua patria e finito in Belgio, a Charleroi, dove aveva fatto il minatore. Aveva sempre conservato la devozione. Voleva diventare religioso. Non sapeva dove. Emigrò in Argentina e là entrò nella Compagnia. Era un uomo molto semplice. Era incaricato di tutti i lavori di ferramenta. E, per dirla in termini di ferramenta, possedeva la chiave di tutto ciò che accadeva, coglieva le cose come stavano, ma non apriva bocca se non glielo chiedeva il superiore.
Ne ho conosciuti tanti come lui: erano querce. Molti erano spagnoli che venivano in Argentina. La provincia di Loyola era una «fabbrica» di fratelli. I baschi venuti da noi, quelli che ho conosciuto io, erano uomini tutti d’un pezzo.
Perché faccio tutti questi esempi? Per dirti che la vocazione di fratello non va considerata da un punto di vista sociologico, ma dal punto di vista di quello che i fratelli sono in realtà nella loro vocazione specifica come sant’Ignazio li ha voluti nella Compagnia. Non voglio esagerare, ma, quando ero provinciale, forse i pareri più semplici e insieme più azzeccati per le ordinazioni me li davano proprio i fratelli. Dicevano: «Sì, così e così… ma sta’ attento a questo problema…». Oppure: «Questa persona ha certi difetti sì, ma ha anche questa virtù…». Insomma, non sfuggiva loro niente. Avevano un occhio speciale. Nella Compagnia, il fratello influisce molto sul corpo collettivo e sulla comunità. Lo si deve promuovere, come qualunque gesuita, perché dia il meglio di sé. Ma la promozione non dev’essere fondata solamente su una motivazione sociologica o ideologica, come se il fratello avesse bisogno di una promozione per sentirsi persona! Se egli non si sente persona come tale, deve ripensare la sua vocazione. E il fratello non ha bisogno di cosmesi. Questa vocazione non deve andare perduta! Non so se ti ho risposto.
Siamo nel contesto della GMG e ci sono vari incontri di giovani. Nel giorno del benvenuto, alla «Cinta Costera», ha parlato della cultura dell’incontro. Lei è convinto che l’incontro sia un tema forte per la nostra gioventù, invasa da tanta cultura informatica. Sembra che l’incontro a volte venga troncato, e che la vicinanza sia mediata dalla rete informatica.
Guarda, il mondo virtuale aiuta nel creare contatti, ma non «incontri». A volte «fabbrica» incontri, seducendoti con i contatti. Chi ha visto bene questo sotto l’aspetto filosofico è stato Zygmunt Bauman. Ha scritto il suo ultimo libro con il suo aiutante italiano, ed è morto mentre lavorava all’ultimo capitolo. La vedova lo ha dato all’aiutante, dicendo: «Lo finisca lei e lo pubblichi, metta anche il nome di mio marito», perché era un suo discepolo e lo conosceva bene. E l’ha pubblicato in italiano[7]. S’intitola Nati liquidi, cioè inconsistenti. Ma nella traduzione in tedesco il titolo è Die Entwurzelten, «Senza radici». Nella mentalità tedesca quelli che nascono liquidi non hanno radici. Perfetto. È proprio così.
Che cosa fa il mondo puramente virtuale, se è isolato in se stesso? Ti dà soddisfazione, ti dà una consolazione artificiale, ma non ti tiene unito alle tue radici. Ti manda in orbita. Ti toglie la dimensione concreta. Questo rischia di essere un mondo di contatti – l’ho detto ai vescovi –, ma non è un mondo di incontri. E questo è pericoloso, molto pericoloso. E riguardo a ciò, i giovani devono ricevere una direzione molto seria. Una direzione da cui non devono sentirsi spossessati, ma arricchiti. Quelli di voi che lavorano con i giovani, ad esempio nei collegi, hanno il compito di aiutarli all’incontro.
E in che cosa consiste la crisi odierna dell’incontro? È una crisi di radici. La generazione di mezzo – almeno in Europa e nella mia patria –, vale a dire i genitori dei giovani, non ha la forza di trasmettere le radici. Perché sono persone lacerate, spesso in competizione con i figli. Sono i nonni a dare le radici. Sono ancora in tempo a farlo. Le radici le danno i vecchi. Per questo, quando dico che i giovani devono incontrarsi con i vecchi, non esprimo un’idea romantica. Fateli parlare. All’inizio i giovani dicono che sono stufi, che si annoiano, se ne stanno zitti.
Ho avuto esperienza di giovani e di gruppi giovanili a cui si faceva la proposta di andare a suonare la chitarra agli ospiti di una casa di riposo. Rispondevano: «No, sono vecchi». Ma poi, quando andavano a trovarli, non se ne volevano più andare. Una canzone, poi un’altra. «Perché non mi canta questa?», e: «Ai miei tempi…», e così via: i vecchi si risvegliano… E faccio riferimento al capitolo 3 del libro di Gioele: i vecchi sogneranno e i giovani profetizzeranno. I vecchi cominciano a sognare, a raccontare, e i giovani si mettono a profetizzare: non quello che hanno detto loro i vecchi, ma quello che i sogni dei vecchi risvegliano in loro.
Questo è incontro. Questa è realtà. Ma è importante andare alle radici. Quello che ci propone la cultura virtuale è qualcosa di liquido, di gassoso, senza radici, senza tronco, senza niente. Succede la stessa cosa in campo economico e finanziario. In questi giorni leggevo una notizia comunicata nell’incontro di Davos, che il debito generale dei Paesi è molto più alto del prodotto lordo di tutti insieme. È come la truffa della catena di sant’Antonio: le cifre si gonfiano, milioni e miliardi, ma sotto non c’è altro che fumo, è tutto liquido, gassoso, e prima o poi crollerà.
La virtù che oggi viene richiesta a tutti, e tanto più a un gesuita, è la concretezza. Come quel confessore che avevamo al Colegio Máximo, che confessava di sera. Era molto anziano. Mentre facevamo l’esame di coscienza, alcuni andavano a confessarsi, e davanti alla sua porta c’era sempre una coda. Lui confessava rapidamente, diceva poche parole. Ma un nostro compagno, un tipo angelico, molto spirituale, un giorno ci raccontò che una volta era andato a confessarsi da lui e che non ci sarebbe mai più tornato. «Mi ha maltrattato, mi ha attaccato», diceva. E certo, ci siamo incuriositi… che cos’avrà mai detto quest’angelo per farsi sgridare così? E lui ce lo ha raccontato: «Io ho cominciato a dirgli le mie difficoltà. E lui ha detto: sputa il rospo, sputa il rospo!». Insomma, era abituato a sentirsi dire cose grosse e quindi quando quello era venuto a raccontargli cose angeliche, così liquide, non gli aveva creduto per niente e quindi lo esortava a rivelarsi. Concretezza! Basta con la testa fra le nuvole!
Ma come fare in modo che i ragazzi siano concreti? Mi viene in mente p. La Manna, che adesso è all’Istituto Massimo di Roma. Quest’uomo è riuscito a fare concretezza nel suo istituto, una delle scuole più chic di Roma; è riuscito a creare con i ragazzi un impressionante spirito sociale. Concretezza. Via le cosucce eteree. La vita spirituale concreta. La vita impegnata, concreta. La vita di amicizia, concreta. Concretezza. È con questo che salveremo l’uomo. Ma torno sul dialogo con i vecchi: per favore, fatelo prima che sia troppo tardi! Perché è un’àncora che può salvare la nostra gioventù.
Vedendo la testimonianza che ha caratterizzato la Compagnia di Gesù nell’America centrale, che cosa pensa che possiamo apportare alla Chiesa universale?
In America voi siete stati pionieri negli anni delle lotte sociali cristiane. Siete stati pionieri. Se p. Arrupe scrisse la Lettera su cristiani e «analisi marxista» per parlare della realtà della teologia della liberazione, è perché c’era qualche gesuita che si confondeva un po’. Non con cattive intenzioni, ma si era confuso, e a quel punto il padre ha dovuto rimettere le cose a posto. Rimetterle a fuoco. Allora chi condannava la teologia della liberazione, condannava tutti i gesuiti del Centroamerica. Ho sentito condanne terribili. E chi la accettava, accettava tutto senza fare distinzioni. In ogni modo, la storia ha aiutato a discernere e a purificare. Sono processi di purificazione. Ma se non mi sbaglio, voi siete stati pionieri, con i vostri peccati, con i vostri errori, ma comunque pionieri.
A quei tempi, un giorno presi l’aereo per andare a una riunione. Partivo da Buenos Aires, ma, siccome il biglietto costava meno, feci scalo a Madrid, per poi andare a Roma. A Madrid salì a bordo un vescovo centroamericano. Lo salutai, lui mi salutò; ci sedemmo accanto e cominciammo a parlare. Io gli domandai della causa di Romero, e lui mi rispose: «Non se ne parla nemmeno, proprio no. Sarebbe come canonizzare il marxismo». È stato solo il preludio. Ha continuato di questo passo. Anche nell’episcopato c’erano visioni diverse, c’era pure chi condannava la linea della Compagnia. E infatti quel vescovo passò dal criticare Romero a criticare i gesuiti dell’America centrale. Ma non era certo l’unico a pensarla così. All’epoca, alcuni altri membri della gerarchia ecclesiastica erano molto vicini ai regimi di allora, erano molto «inseriti».
In una riunione a Roma incontrai un provinciale, uno che veniva accusato di essere di sinistra. Lo interpellai sulla teologia della liberazione, e lui mi fece un panorama molto obiettivo, perfino critico verso alcuni gesuiti, ma mostrandomi qual era la direzione positiva; a chi vedeva tutto questo dal di fuori, invece, tutto sembrava molto, molto difficile da accettare. L’idea era che canonizzare Romero fosse impossibile perché quell’uomo non era neppure cristiano, era marxista! E quindi lo attaccavano. In quella tempesta c’erano anche dei semi buoni. Alcuni hanno esagerato, sì, ma poi sono tornati. Ci sono sempre state esagerazioni.
Qualcuno le ha dette più grosse di altri, è vero, ma la sostanza era diversa. Voi siete stati nel pieno di quella rivolta. E sarebbe bene che rileggeste la storia di quegli uomini. C’erano persone come Rutilio, che non si è mai sbandato, e ha fatto tutto quello che doveva fare. Dal punto di vista ideologico, egli non si è mai smarrito, e invece c’era qualcun altro che da quelle parti un po’ si smarriva, perché era innamorato della filosofia di un certo autore e su quella base rileggeva e interpretava i fatti. Ma sono cose umane, comprensibili in circostanze difficili.
Le dittature che avete avuto voi in Centroamerica erano del terrore. L’importante è non farsi sopraffare dall’ideologia né da un lato né dall’altro, e nemmeno dalla peggiore di tutte, che è l’ideologia asettica. «Non impicciarti»: questa è l’ideologia peggiore. Era l’atteggiamento di quel vescovo incontrato in aereo, che era un asettico. Arrupe su questo era molto chiaro nel discernimento che faceva. Difendeva tutti, ma poi correggeva ciascuno in privato su ciò che doveva correggere, se doveva correggere qualcosa. Questo è tipico del superiore, difendere tutti… E perciò è importante il rendiconto di coscienza, perché in esso si stringono le viti che vanno strette. Questa è la mia opinione.
E oggi noi vecchi ridiamo per quanto ci eravamo preoccupati riguardo alla teologia della liberazione. Quello che allora mancava era la comunicazione all’esterno di come le cose stavano per davvero. C’erano molti modi di interpretarla. Certo, alcuni sono scaduti nell’analisi marxista. Ma vi racconto una cosa divertente: il grande perseguitato, Gustavo Gutiérrez, il peruviano, ha concelebrato la Messa con me e con l’allora prefetto della Dottrina della Fede, il card. Müller. Ed è successo perché proprio Müller me lo portò come suo amico. Se qualcuno a quell’epoca avesse detto che un giorno il prefetto della Dottrina della Fede avrebbe portato Gutiérrez a concelebrare con il Papa, lo avrebbero preso per ubriaco.
La storia è maestra della vita. Si va imparando. Una delle cose che mi hanno fatto molto bene in un momento della mia esistenza è stato leggere la Storia dei Papi di Ludwig von Pastor… un po’ lunghetta, 37 tomi! Vi ho scoperto soprattutto l’epoca dell’espulsione della Compagnia, ma non solo quella. La storia ci insegna. Senza andare molto lontani, vi consiglio di leggere i quattro volumi di Giacomo Martina, grande professore della Gregoriana, sulla storia della Chiesa da Lutero ai giorni nostri. È una lettura piacevole, perché aveva un’ottima prosa. Vi farà orientare tra i problemi del modernismo… Ricorrere alla storia per capire le situazioni. Senza condannare le persone e senza santificarle in anticipo. Non so se ti ho risposto.
Tra poco alcuni di noi faranno la professione dei voti. Che cosa può dirci?
Che i voti sono perpetui! Non sono perpetui per il superiore che li riceve, ma per voi che li pronunciate, sì[8]. E su questo non si scherza. Se qualcuno non si sente bene, non li faccia, si prenda altro tempo. Provarci? No, niente affatto. Da parte tua, sono perpetui, per tutta la vita.
Giocarsi la vita: è una delle cose più arrischiate che ci siano oggi. Infatti, siamo in un’epoca in cui il provvisorio prevale sul definitivo. Sempre. Ad esempio, si dice: «Mi sposo per tutta la vita… finché dura l’amore». Insomma, è come se dicessi: «Mi sposo per tre o quattro anni, poi, al primo conflitto, al primo raffreddamento dell’amore, mi cerco un’altra compagna». Un vescovo venuto in visita mi raccontava che un giovane avvocato, appena laureato, ventitreenne, zelante, inserito in un gruppo, gli aveva detto: «Voglio farmi prete, ma per dieci anni!». Ecco il provvisorio! C’è un libro di José Comblin di quaranta o cinquant’anni fa, introvabile, che si intitola O provisório e o definitivo, e parla della filosofia della cultura che oggi emerge: quella del provvisorio. Tutto c’è finché dura. Finché dura la consolazione, finché mi trattano bene…
E a volte la vita non ti tratta bene, ti tratta come un delinquente. E se tu ami Colui che è stato trattato come un delinquente, non puoi fare altro che sopportare. È definitivo, con tutto quello che comporta la «terza settimana» degli Esercizi spirituali[9]. Con tutto quello che significa il colloquio delle «Due bandiere»[10], che non è una trovata cavalleresca di Ignazio, ma è la sua esperienza. Il che implica chiedere di essere umiliati, di subire umiliazioni, per amore di Cristo, senza averne dato motivo. I voti sono perpetui, con uno stile di vita che dev’essere quello degli Esercizi, secondo il quale ti possono mandare a fare qualsiasi lavoro, qualsiasi cosa: tanto insegnare religione ai bambini quanto insegnare all’università, o fare, che so, l’equilibrista in un circo… La Compagnia può mandarti a fare qualsiasi cosa. È questo che intendo per definitivo. Il tempo, definitivo; lo stile, quello degli Esercizi; la disponibilità, a qualsiasi cosa. Per amare e servire, come cantavate all’inizio. Non dicevate per simpatizzare e dare una mano. Amare e servire è il nucleo. Non spaventatevi! Coraggio.
Ho una domanda sull’inculturazione riguardo ai popoli della nostra America. Ne parlo in prima persona, perché appartengo alla cultura maya. Che cosa pensa di quei preti e vescovi diocesani che cercano di omologare i giovani già dai primi momenti della formazione? In pratica, purtroppo, formare diventa come offuscare, e l’identità viene coperta. Che ne pensa di quei preti che non si sentono più in sintonia con il popolo dal quale sono usciti?
Mia nonna teneva molto alla catechesi. Ci spiegava che nella vita dovevamo essere umili e non dimenticarci che eravamo nati in una famiglia umile. Lei, che era del Nord Italia, ci raccontava di una famiglia che in un paese italiano aveva mandato un figlio a studiare all’università. Diceva che era un fatto realmente accaduto. Si trattava di una famiglia di contadini. Il figlio non tornò finché non si laureò. Non aveva avuto la possibilità di tornare. E una volta a casa, cominciò a domandare al padre: «Come si chiama quell’attrezzo? E come si chiama quell’altro?». «Questa è la pala, figlio mio». «Ah, la pala. E quell’altro attrezzo come si chiama?». «Il martello». «Ah, il martello». Era cresciuto là, ma non ricordava niente. «E quest’altro attrezzo come si chiama?». E il padre glielo diceva. C’era anche un rastrello. E il figlio, distrattamente, lo calpestò. Il rastrello ruotò e lo colpì in testa. E lui esclamò: «Accidenti al rastrello!». [Qui il Papa imita il gesto, provocando l’ilarità generale].
Chi si dimentica della sua cultura ha proprio bisogno di una rastrellata in faccia. È terribile quando la consacrazione a Dio ci rende snob, ci fa salire di categoria sociale verso una che ci sembra più educata della nostra. Ciascuno deve conservare la cultura da cui proviene, perché la santità che vuole raggiungere si deve basare su quella cultura, non su un’altra. Tu che vieni da quelle culture, non ti inamidare l’anima, per favore! Sii maya fino alla fine. Gesuita e maya.
L’altro giorno p. Lombardi mi diceva che stava lavorando alla causa di beatificazione di Matteo Ricci e mi parlava dell’importanza della sua amicizia con Xu Guangqi[11], il laico cinese che lo accompagnava e che restò laico e cinese, santificandosi da cinese e non da italiano com’era Ricci. Questo è mantenere la propria cultura.
Oggi ho pranzato con i giovani. Venivano da tutte le parti: dal Burkina Faso, dall’India, dagli Stati Uniti, dall’Australia, dalla Spagna. Era bellissimo. E c’era una ragazza centroamericana, indigena, che aveva voluto truccarsi secondo le sue tradizioni. Una persona «illuminata», vedendola così, avrebbe forse detto con ironia: ecco la «piccola india», tutta pitturata! Ecco, quando la «piccola india» ha parlato, ha dato una bella batosta a quelli che non rispettano la madre terra. Quella ragazza ha parlato, a partire dalla sua cultura, con una tale capacità intellettuale che alla fine, quando quelli della Sala Stampa mi hanno chiesto chi potevano portare per le interviste, ho risposto: portate chi volete, ma lei portatela di sicuro, perché dirà cose che nessuno direbbe. Quella ragazza, militante, cattolica, credo insegnante di professione, non aveva perduto la sua cultura, l’aveva fatta crescere! Quindi, ecco quello che voglio dire: dobbiamo inculturarci fino alla fine.
Nel 1985, nella nostra facoltà di Teologia di San Miguel, facemmo un congresso su «L’evangelizzazione della cultura e l’inculturazione della fede»[12]. Erano gli anni di Puebla. Ci furono interventi che a qualcuno parvero scandalosi. Ricordo che una volta andai a Roma per qualche faccenda e feci visita alla Congregazione per il culto divino. Uno dei periti che lavoravano là, parlando di inculturazione, mi disse: «Stiamo facendo progressi. Adesso abbiamo permesso ai giapponesi di fare una riverenza all’altare, invece di baciarlo. Perché per loro baciarlo non significa niente». Tutta qui la grande inculturazione di un ufficio della Curia? Così non serve a niente! Siete voi che dovete dire che cos’è l’inculturazione a partire dalla vostra esperienza. Ma tu, per favore, non cambiare cultura. Ricordati del rastrello.
Come trova lei questa regione centroamericana e che cosa potremmo fare noi?
Siete molto «colorati»… nel senso migliore, intendo. Questa è una terra di colori. Penso alla cultura brasiliana, afrobrasiliana, come a una terra di suoni, di danze, di festa. Voi invece siete una terra di colori… La sento così. È terra di colori. È la prima volta che metto piede a Panama, e ne parlavo a tavola con il nunzio, che mi ha aiutato a trovare la parola giusta, perché la pensava come me: qui c’è «nobiltà». È una terra di nobiltà. Panama lo è. Questo mi ha colpito. Voi siete un condensato di colori, nel senso più ricco e più simbolico della parola. È la mia percezione. E certamente qui per un maestro dei novizi discernere può essere più difficile, soprattutto al momento dell’inculturazione, dell’espressione colorata del suo popolo. Ma è bello.
Dopo un’ora di incontro i responsabili del viaggio avvisano il Papa che è tempo di andare. Il Papa dice di fare altre due brevi domande. Ecco la prima: da gesuiti che atteggiamento dobbiamo avere verso la politica?
Oggi a pranzo mi ha fatto la stessa domanda una ragazza del Nicaragua. La dottrina sociale della Chiesa è limpida ed è diventata sempre più esplicita attraverso diversi pontificati. Su questo l’Evangelii gaudium è chiarissima. Inoltre, anche il Vangelo è un’espressione politica, perché tende alla polis, alla società, a ogni persona e alla società, a ogni persona in quanto appartiene alla società. È vero che la parola «politica» è a volte persino disprezzata e intesa soltanto come logica della parte, settarismo politico, con tutto ciò che questo comporta in America Latina quanto a corruzione politica, sicari della politica e via dicendo. L’impegno politico per un religioso non significa militare in un partito politico. È chiaro che bisogna esprimere il proprio voto, ma il compito è quello di stare sopra le parti. Però non come chi se ne lava le mani, bensì come uno che accompagna le parti perché giungano a una maturazione, apportando il punto di vista della dottrina cristiana. In America Latina non sempre c’è stata maturità politica.
Approfitto della domanda per citare alcuni problemi che per me hanno rilevanza politica. Il primo è quello della nuova colonizzazione. La colonizzazione non è solo quella che avvenne quando arrivarono gli spagnoli e i portoghesi che presero possesso delle terre. Questa è una colonizzazione fisica. Oggi le colonizzazioni ideologiche e culturali sono di moda, sono quelle che stanno dominando il mondo. In politica voi dovete analizzare bene quali sono oggi le colonizzazioni a cui sono sottoposti i nostri popoli.
Il secondo è quello della nostra crudeltà. L’ho detto a un politico europeo, che mi ha risposto: «Padre, l’umanità è sempre stata così, soltanto che ora con i media ce ne accorgiamo di più». Può darsi che abbia ragione. Ma la crudeltà è terribile. Si inventano persino le torture più raffinate, si degrada l’umano. Ci stiamo abituando alla crudeltà.
Il terzo riguarda la giustizia ed è la pena senza speranza. Ieri ero felice quando ho lasciato l’Istituto dei minori, perché ho visto tutto il lavoro che fanno lì per ricostruire la vita di persone, ragazzi, ragazze molto degradati dai delitti, per reinserirli. Ma la cultura della giustizia aperta alla speranza non è ancora ben radicata.
Alla fine dell’incontro si avvicina un gesuita del Nicaragua e consegna al Santo Padre una lettera da parte di un ragazzo che ora è in carcere, dicendo: «È stato chierichetto fin da quando aveva nove anni e il suo grande desiderio era venire alla Giornata Mondiale della Gioventù». Poi si sono avvicinati altri gesuiti con regali. Il primo è stato quello che a Panama chiamano un «cocobolo», un oggetto fatto in legno duro tropicale dell’America centrale, che rappresenta il monogramma IHS, proprio della Compagnia di Gesù, con la richiesta di porlo nel luogo dove prega al mattino. Il Papa, ridendo, dice: «E se prego al pomeriggio?». Tutti ridono. Il provinciale lo avvisa che si farà di colore più scuro col passare del tempo. Poi gli viene dato un telo realizzato con tessuti propri di vari Paesi del Centro America. Viene portata al Papa anche la bandiera del «Magis», una iniziativa ignaziana che coinvolge i giovani tra i 18 e i 30 anni, dei volontari del «Colegio Javier» di Panama alla Gmg. Al Papa viene chiesto di apporre una firma sulla bandiera. A seguire vengono offerti altri doni personali. L’incontro, durato circa un’ora e 10 minuti, si conclude con una foto e la preghiera «Ave Maria».
(ENGLISH) (ESPAÑOL) (FRANÇAIS)
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[1]. «I nostri» è un’espressione tradizionale dei gesuiti per indicare se stessi. Le «province» sono i territori in cui la Compagnia è suddivisa nel mondo. I «novizi» sono i giovani religiosi nella loro prima formazione.
[2]. Cfr J. M. Tojeira, «Il martirio di Rutilio Grande», in Civ. Catt. 2015 II 393-406.
[3]. Cfr Papa Francesco, La forza della vocazione. La vita consacrata oggi. Conversazione con Fernando Prado, Bologna, EDB, 2019.
[4]. Il «magistero» è una tappa di formazione del gesuita tra lo studio della filosofia e quello della teologia. È dedicata al lavoro apostolico.
[5]. Il «ministro» nelle case della Compagnia è colui che si occupa della vita concreta della comunità religiosa, come responsabile della casa.
[6]. Il corpo della Compagnia contempla tre vocazioni. Quella dei sacerdoti professi è composta da coloro che hanno pronunciato i tre voti di povertà, castità e obbedienza, e hanno fatto uno speciale voto di ubbidienza al Papa (quarto voto). La seconda è costituita da sacerdoti «coadiutori spirituali», che pronunciano solo i tre voti semplici. La terza è quella dei fratelli, che sono religiosi non sacerdoti e pronunciano solo i tre voti semplici. La scelta tra il sacerdozio e la vita da religiosi non sacerdoti è fatta generalmente dal soggetto stesso al momento del suo ingresso nella Compagnia. In alcuni casi si entra da «indifferenti», e la scelta viene fatta dopo un discernimento durante il tempo di noviziato.
[7]. Z. Bauman – Th. Leoncini, Nati liquidi, Milano, Sperling & Kupfer, 2017.
[8]. I «primi voti» dei gesuiti, che si fanno alla fine del noviziato, sono considerati perpetui per chi li pronuncia. Dunque, non vengono «rinnovati» ogni tre anni, come avviene negli altri Istituti religiosi. Vengono invece «ricordati» annualmente fino a che non si pronunciano gli «ultimi voti» come professo, coadiutore spirituale o fratello, alla fine della formazione e, per i sacerdoti, dopo l’ordinazione. Tuttavia i primi voti sono solvibili semplicemente dal superiore provinciale.
[9] . Si tratta della terza tappa degli Esercizi spirituali, nella quale si contempla il mistero della Passione del Signore.
[10]. Si tratta di una meditazione della «seconda settimana» degli Esercizi, prima di passare alla elezione dello stato di vita. Ignazio chiede di meditare su «come Cristo chiama e vuole tutti sotto la sua bandiera, e Lucifero al contrario sotto la sua», anche «vedendo il luogo», cioè immaginando la «regione di Gerusalemme come un grande campo, dove il sommo capitano generale dei buoni è Cristo nostro Signore; e nella regione di Babilonia com’è l’altro campo, dove il capo dei nemici è Lucifero». L’obiettivo è quello di «chiedere conoscenza degli inganni del cattivo capo e aiuto per guardarmene; e conoscenza della vita vera che il Sommo e Vero Capitano indica e grazia per imitarlo».
[11]. Xu Guangqi (1562-1633), di Shanghai, conobbe Matteo Ricci e collaborò con lui. Ricevette il battesimo all’età di 41 anni e studiò approfonditamente la dottrina cristiana. Cfr A. Jin Luxian, «Xu Guangqi. Il compagno cinese di Matteo Ricci», in Civ. Catt. I 2016 282-297.
[12]. P. Bergoglio ne tenne il discorso inaugurale e fece il saluto finale (cfr J. M. Bergoglio, «Fede in Cristo e umanesimo», in Civ. Catt. 2015 IV 311-316). In quella sua riflessione egli poneva in risalto il fatto che le diverse culture, frutto della sapienza dei popoli, sono un riflesso della Sapienza di Dio. La sapienza umana è contemplazione che ha origine dal cuore e dalla memoria dei popoli. Essa è luogo privilegiato di mediazione tra il Vangelo e gli uomini, ed è frutto del lavoro collettivo nel corso della storia. Da qui, nel compito di evangelizzare le culture e di inculturare il Vangelo, la necessità, da una parte, di una «contemplazione sapienziale delle culture» e, dall’altra, di «una santità che non teme il conflitto ed è capace di costanza e pazienza» apostolica, vincendo con parresia ogni paura e ogni «estremismo di centro».