|
ABSTRACT – Sant’Agostino riferisce la leggenda della traduzione dell’Antico Testamento in greco fatta da 70 saggi, quando gli ebrei sparsi nel mondo ellenistico ormai non conoscevano più la lingua dei loro padri. Il re d’Egitto mandò a Gerusalemme 70 scribi, e ognuno di loro tradusse individualmente i libri della Legge. Il fatto straordinario era che tutte le traduzioni coincidevano perfettamente. Per gli antichi, questo fatto era una prova dell’assistenza dello Spirito. Agostino prospetta la possibilità che, piuttosto, i saggi abbiano collaborato tra loro per dare una traduzione unitaria.
Ma ciò che più colpisce è la dichiarazione del vescovo d’Ippona quando fa riferimento alle molte differenze che la traduzione greca ha rispetto all’originale ebraico. «Può darsi – egli dice – che quegli scrittori abbiano tradotto come lo Spirito Santo credette fosse opportuno dire alle genti, lui che li muoveva all’azione e che aveva donato a tutti un’identica loquela».
Una traduzione può essere considerata una questione linguistica e tecnica, ma Agostino ci ricorda che ogni discorso ha un locutore e un interlocutore e, nel caso particolare della Sacra Scrittura, chi parla è Dio e chi riceve la parola di Dio è l’uomo, tutti gli uomini, attraverso la storia e nelle diverse aree geografiche e culture.
Il problema non è nuovo. Nella scena del Faust che precede immediatamente la comparsa di Mefistofele, Goethe ci presenta il dottor Faust che cerca di tradurre in tedesco il prologo del Vangelo di Giovanni. Sebbene Faust abbia invocato l’aiuto dello Spirito, sarà guidato dalla ragione e alla fine riconoscerà che lo spirito – la ragione pura – l’ha illuminato. È evidente che Goethe identifica lo Spirito con la ragione, e nella sua riflessione possiamo riconoscere lo «spirito» di Hegel, il freddo spirito della ragione che guida implacabilmente il pensiero.
Non vogliamo proporre una ricerca su che cosa significhi «parola» nel testo di Goethe, né su che cosa significhi nel primo versetto del prologo di Giovanni. Più importante è considerare l’«immaginario» della «parola» nel corso della storia, perché in questo modo si può dialogare con chi – nel corso della storia – ha sentito l’espressione «In principio era il Verbo», e ha immaginato qualcosa, riempiendo proprio con il contenuto di tale «immagine» l’espressione di Giovanni. Anche se la cultura della scrittura è più vicina a noi, non dobbiamo però dimenticare che la maggior parte della storia dell’uomo appartiene alla cultura dell’oralità.
Il Verbo si è fatto carne per noi e per la nostra salvezza: la materialità del Verbo incarnato è già una traduzione fatta dallo Spirito. Il traduttore della parola di Dio non può dimenticare che questo costituisce la parte più profonda del suo piano di salvezza.
***
WHEN THE TRANSLATOR DOES NOT BETRAY. On the imagine of the word
The Word became flesh for us and for our salvation. St. Augustine reminds us what this affirmation means, while denying its contrary: we must not think that the Word became word. The materiality of the incarnate Word is already a translation made by the Spirit, which it covers with its shadow, but does not darken, it makes the light of God’s word shine in the darkness. The translator of the word of God cannot forget that this is the most profound part of His plan of salvation.