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La «guerra dei potenti contro i deboli»[1] si accanisce contro tutti coloro che, a partire dalla fede, si schierano dalla parte dei semplici, degli umili, dei poveri e degli esclusi della nostra storia. Il Gesù del Vangelo è stato al centro dell’attività pastorale di p. Rutilio Grande, e i contadini salvadoregni delle zone di Aguilares ed El Paisnal l’accolsero con entusiasmo. Molti di loro decisero di alfabetizzarsi per poter leggere il Vangelo. E il Nuovo Testamento venne finanche adottato come il testo che, in una alfabetizzazione ispirata a Paulo Freire, li avrebbe aiutati a scoprire sia la loro dignità sia le capacità e le possibilità dell’essere contadini.
Tutto questo mentre El Salvador si dibatteva in uno scontro crescente tra settori arricchiti e folle povere che reclamavano i loro diritti. La morte di p. Rutilio, nel 1977, è stata il frutto del suo lavoro a favore della dignità dei più poveri. La sua attività di pastore era pienamente radicata nella Parola di Dio e lo spingeva a difendere i poveri, duramente perseguitati quando reclamavano una fondamentale giustizia sociale. Alla fine del 2014 l’arcidiocesi di San Salvador ha avviato il processo di beatificazione di Rutilio Grande come martire.
Chi era Rutilio
Rutilio Grande nacque nel 1928 a El Paisnal, una piccola località rurale a 35 chilometri da San Salvador, in una famiglia contadina. La morte prematura di sua madre, le occupazioni di suo padre, dedito alla politica locale, e l’essere stato affidato alle cure della nonna produssero, da un lato, una forte pietà tradizionale e, dall’altro, una timidezza e un’insicurezza che a volte giunsero a causargli momenti di angoscia e di depressione. Quando era adolescente, manifestò all’arcivescovo monsignor Chávez, che era in visita pastorale, il suo desiderio di essere sacerdote. L’arcivescovo lo invitò ad accompagnarlo nella prosecuzione della sua visita pastorale in altre località di El Salvador e successivamente lo mandò al Seminario arcidiocesano San José de la Montaña, allora diretto dai padri gesuiti.
Rutilio conservava una viva impressione di quel periodo trascorso ad accompagnare l’arcivescovo. Vederlo camminare tra le persone semplici, con enorme affabilità e vicinanza, con un linguaggio accessibile e comprensibile e con un grande affetto per i sacerdoti confermò il giovane candidato nella sua vocazione. Da allora nacque fra i due un’amicizia che andò maturando e approfondendosi nel corso degli anni.
Dopo alcuni anni di Seminario, Rutilio decide di entrare nella Compagnia di Gesù. Trascorre il periodo del noviziato in America Latina, come parte degli studi umanistici. Poi ritorna nel suo Seminario nel Salvador, dove collabora alla formazione dei giovani seminaristi. Successivamente viene inviato a Oña, in Spagna, dove frequenta di seguito i tre anni di filosofia e i quattro di teologia. Sono sette anni intensi e probabilmente duri per un giovane dei Tropici, in mezzo alla steppa castigliana. Ma è anche un tempo di rafforzamento nella fede e nella resistenza personale, come pure di formazione di nuove amicizie. Nella sua pastorale dei fine settimana si incaricò, tra l’altro, di accompagnare i «crociati eucaristici», giovani dai quali poi sarebbero provenute alcune vocazioni al sacerdozio.
Nel corso della sua formazione Rutilio ebbe varie crisi, alcune di salute, altre frutto del suo carattere. Uomo di sofferenze a volte profonde, ne veniva sempre fuori grazie alla sua fiducia nel Signore. Quando fu scosso da dubbi e da scrupoli riguardo alla sua ordinazione, il p. Marcelino Zalba, famoso moralista, lo aiutò a riacquistare la calma. Alcune di quelle crisi si sarebbero ripresentate in mezzo alle difficoltà dell’evangelizzazione e delle tensioni sociali ed ecclesiali che gli toccò di vivere.
Ordinato nel 1959, poco prima che iniziasse il Concilio Vaticano II, Rutilio cerca di aprire la formazione classica alle nuove esigenze ecclesiali. È così che a Bruxelles, nel 1963, partecipa ai corsi di Lumen Vitae. Poi torna nel Salvador, ancora una volta al lavoro nel Seminario, dove resterà fino al 1970. A partire dal suo ritorno dal Belgio, e come incaricato della pastorale dei seminaristi, si trasforma nell’uomo che rinnova e incoraggia tra seminaristi e giovani sacerdoti il dinamismo apostolico di una Chiesa che vive se stessa come Popolo di Dio. In questo senso è un divulgatore del Concilio Vaticano II non soltanto alla lettera, ma moltiplicando quella nuova vicinanza alla «gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia degli uomini» (Gaudium et spes, n. 1) di quel tempo in cui già si scorgevano seri problemi riguardanti El Salvador.
Per Rutilio, il principio pastorale di cercare sempre la maggiore partecipazione possibile della base della Chiesa si trasforma in una vera passione. Pochi anni prima di lasciare il suo lavoro con i seminaristi incontra il futuro monsignor Romero, nominato segretario della Conferenza episcopale del Salvador, che è venuto ad abitare nel Seminario. Nasce così un’amicizia profonda tra due sacerdoti che si assomigliano sotto molti punti di vista: entrambi con una timidezza che si trasforma in audacia nel predicare il Vangelo, parresia nel difendere i poveri e radicale vicinanza umana con tutti. I suoi compagni di comunità lo vedevano spesso passeggiare con il segretario Romero, che egli avrebbe successivamente accompagnato come maestro di cerimonie nella sua ordinazione episcopale.
Nell’istituto Lumen Vitae di Bruxelles ha luogo quella che Rutilio ha chiamato «la sua prima conversione». L’autocomprensione della Chiesa come Popolo di Dio tocca profondamente questo uomo di pietà tradizionale, di radici contadine, di linguaggio semplice e che sa di essere lui stesso parte del popolo e vicino alla sua gente. Il passaggio da una Chiesa verticale a una Chiesa vicina, da una «società perfetta» a una Chiesa pellegrina, coincide con il suo sentimento profondamente popolare, di salvadoregno «caffè e latte», come gli piaceva descriversi, e lo rilancia nella sua capacità pastorale e di servizio, evidente fin dagli inizi della sua vocazione.
Da quel momento Rutilio si convince dell’importanza di cercare sempre la massima partecipazione possibile della base. Una sua caratteristica ricorrente era, durante le vacanze, quella di spingere i più anziani del Seminario a svolgere la missione nelle parrocchie. Cercava di far sì che i seminaristi avessero rapporti con la gente del popolo, la capacità di avvicinarsi, di ascoltare i poveri e i semplici, di parlare di Dio con il linguaggio e l’affetto del popolo. Compì una di queste missioni, con circa cinquanta seminaristi, proprio a Ciudad Barrios, il paese natale di monsignor Romero.
Se in lui restava qualcosa di una formazione classica che esaltava gli aspetti più solenni del sacerdozio, la sua apertura al Concilio ne radicalizzava lo spirito di servizio e lo stile immediato, amichevole e pastorale. La sua dedizione al Seminario lo portò ad attraversare una crisi molto particolare. Verso il 1970, e in una situazione di relativa tensione tra la direzione gesuita del Seminario e la paura che alcuni vescovi mostravano verso la modernità e i cambiamenti incoraggiati dal Concilio, veniva proposta alla Conferenza episcopale la nomina di Rutilio a rettore del Seminario.
Qualche mese prima egli aveva partecipato alla prima Settimana di pastorale d’insieme e aveva espresso il proprio disaccordo su alcuni giudizi critici della Conferenza episcopale nei confronti dei risultati della riunione. Gli fu affidata l’omelia del 6 agosto, festa di El Salvador, e pertanto festa nazionale, in occasione della Messa solenne concelebrata dalla Conferenza episcopale e alla quale partecipava l’intero Governo.
In quella omelia, ispirandosi alla Populorum progressio di Paolo VI, Rutilio fece una profonda critica della situazione sociale salvadoregna. Citava la parte in cui il Papa affermava che «i contadini prendono coscienza, anch’essi, della loro “miseria immeritata”. A ciò s’aggiunga lo scandalo di disuguaglianze clamorose, non solo nel godimento dei beni, ma più ancora nell’esercizio del potere. Mentre una oligarchia gode, in certe regioni, di una civiltà raffinata, il resto della popolazione, povera e dispersa, è “privata pressoché di ogni possibilità di iniziativa personale e di responsabilità, e spesso anche costretta a condizioni di vita e di lavoro indegne della persona umana”» (n. 9).
Nella sua omelia Rutilio reclamava una «trasfigurazione del Salvador» mossa dal Vangelo, interpretata a partire dal motto «Dio, unione, libertà» riportato sulla bandiera salvadoregna, che conducesse il Paese su strade di vera giustizia sociale. In quella omelia pronunciò frasi che in un simile contesto suonavano forti, come quella che diceva: «Gesù Cristo è il rivoluzionario numero uno della storia. Ha cambiato il corso della storia. L’ha trasformata in storia della salvezza»[2]. Una salvezza ovviamente integrale, che salvasse «ogni uomo e tutto l’uomo».
In quello stesso anno Rutilio ebbe un pubblico diverbio, attraverso La Prensa Gráfica, uno dei giornali più importanti del Salvador, con un membro di una delle famiglie più potenti del Salvador, inquadrato fortemente nell’alveo di un cristianesimo tradizionale e conservatore. In quel contesto, alcuni vescovi misero il veto alla sua nomina a rettore del Seminario maggiore. Fu allora che egli decise di chiedere una parrocchia e di avere un’intensa esperienza pastorale. Da uomo profondamente rispettoso della gerarchia, nella mancanza di fiducia che gli negava di essere rettore del Seminario vedeva un atto di sfiducia per tutto il suo lavoro nel Seminario in quanto incaricato della pastorale, e preferiva lasciare quel lavoro a cui aveva dedicato tante energie. E nello stesso tempo decideva di lanciarsi a vivere quella stessa vita di servizio pastorale e parrocchiale alla quale aveva formato tanti sacerdoti. Vivere e sperimentare. Sicché intraprese quella seconda tappa di formazione, più immersa nel mondo latinoamericano, che lo avrebbe condotto verso l’ultima fase della sua vita e verso il suo martirio.
«La sua seconda conversione», sempre stando alle sue parole, ha come base la riunione e il documento della Conferenza episcopale latinoamericana di Medellín. In quella rilettura della realtà latinoamericana, realizzata a partire dal Vangelo, dal Concilio Vaticano II e dallo zelo pastorale solidale e vicino ai poveri, Rutilio Grande trova una nuova ispirazione. I documenti di Medellín erano già stati letti e fatti propri nel suo pensiero, ma l’applicazione pastorale di questa lettura latinoamericana non aveva ancora trovato la sua sintesi.
Per questo egli fu inviato a Quito a frequentare i corsi di pastorale che allora si tenevano all’Ipla, l’Istituto di pastorale latinoamericano del Celam. E successivamente trascorse un paio di mesi a Riobamba, in Ecuador, nella diocesi di monsignor Leonidas Proaño. Vivendo nella casa di quel vescovo cordiale e semplice, austero, ospitale e vicino alla gente, conoscendo la pastorale di quella diocesi, che univa evangelizzazione, sviluppo umano e coscienza della dignità dei popoli indigeni, in Rutilio sorgevano nuove idee e piani pastorali.
L’inserimento tra gli emarginati, in cui il vescovo Proaño era esemplare, l’accompagnamento che rifugge il protagonismo e lascia crescere il popolo cristiano, l’opzione preferenziale per i poveri si trasformarono, dopo questa esperienza, in un’ansia e in un desiderio che lo avrebbero portato presto a scegliere una parrocchia rurale, non appena tornato alla sua terra salvadoregna. Monsignor Chávez lo spingeva verso la parrocchia di Aguilares, che non era di pieno gradimento di Rutilio, perché allora comprendeva il suo stesso paese di El Paisnal. Ma l’insistenza di monsignor Chávez, un vescovo amico e nello stesso tempo maestro, quasi una figura paterna per Rutilio come per molti altri sacerdoti salvadoregni, svolse un ruolo rilevante, e Rutilio ci andò, con altri tre compagni, per aprire e realizzare un piano pastorale.
L’evangelizzatore
Rutilio giungeva ad Aguilares in un momento in cui si stava radicalizzando una crisi nazionale. Dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta, per circa venticinque anni, El Salvador aveva avuto una crescita media del proprio Pil del 5% annuo, strettamente legata ai prezzi internazionali del caffè. Tuttavia, mentre l’economia cresceva, la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale si facevano più evidenti. Al tempo stesso, in quel periodo furono avviate alcune riforme che aprirono alla possibilità di organizzazione e di rivendicazione popolare.
Lo scontento e la critica davanti a uno Stato padrone dell’industria del caffè, in cui il peso dell’oligarchia era eccessivo, superava le timide riforme governative. Di fronte alla protesta e all’organizzazione popolare, la tendenza alla repressione aumentava. Lo Stato salvadoregno cominciava a dare vita, tra l’altro, all’Organizzazione democratica nazionalista, più nota con la sua sigla «Orden», che diventava ogni giorno più temibile, perché denunciava e perseguitava qualsiasi movimento di rivendicazione dei contadini. La Polizia rurale e la Guardia nazionale, due rami della polizia militarizzata, agivano con brutalità maggiore. Le frodi elettorali rendevano la situazione sempre più tesa. Si gettavano i semi di quelli che sarebbero diventati gli squadroni della morte.
P. Grande comincia a evangelizzare in questo ambiente. Mentre altri gruppi, per evangelizzare, prendono le mosse dallo scontento sociale, il nuovo parroco inizia le sue missioni partendo soprattutto dalla religiosità popolare. Rutilio considera i contadini, allora una grande maggioranza, la riserva umana e spirituale di El Salvador. E così comincia le sue missioni partendo dalla profonda esperienza religiosa della popolazione, dall’analisi della situazione in cui vive, dalla promozione dei valori comunitari e dalla lettura del Vangelo.
Il metodo è simile a quello di monsignor Proaño, a Riobamba. Il Vangelo viene letto secondo la fede del popolo e viene immediatamente confrontato con la realtà religiosa, comunitaria e sociale. La fede popolare, la vita e il Vangelo costituiscono il pilastro di quell’evangelizzazione che si eleva dai valori popolari al Cristo vivo e vivificatore. Molti contadini, uomini e donne, cominciano a seguire corsi di alfabetizzazione per adulti, organizzati anche dalla parrocchia, con il desiderio di poter leggere personalmente il Nuovo Testamento. E molti giovani, della stessa parrocchia, ma talora anche provenienti da fuori, s’impegnano a insegnare a leggere e a scrivere, mentre nello stesso tempo imparano dalla vita e dalla speranza di questi contadini che hanno «fame e sete di giustizia».
Alle missioni facevano seguito la celebrazione della Parola e la catechesi, come attività ordinarie delle comunità. La celebrazione della Parola era insostituibile e indispensabile affinché la comunità continuasse a crescere nella consapevolezza e nel servizio. Nessuna riunione, per quanto importante, poteva sostituire quella meditazione e quel dialogo comunitario costruito attorno alla Parola. La partecipazione a questa celebrazione doveva avvenire secondo la molteplicità dei servizi e delle capacità di ciascuno: «Così importanti sono i musicisti che ci cantano i loro versi pieni di messaggi — messaggi di cambiamento, di valori nuovi —, quanto lo è l’umile contadino che porta le panche e le dispone per la celebrazione, o l’umile contadina che applaude alle tortillas, con un applauso rivolto a opere della parrocchia»[3]. La catechesi, accuratamente preparata dallo stesso Rutilio nell’istruzione che impartiva ai catechisti, era l’altro pilastro della coltivazione della fede e della formazione cristiana.
In questo lavoro ha un peso speciale non soltanto la chiarezza pastorale di p. Rutilio, ma anche il suo carattere. Egli è un uomo, potremmo dire oggi con un’espressione resa popolare da Papa Francesco, «con l’odore delle pecore». Discepolo di monsignor Chávez, un altro servitore amichevole, semplice e popolare, questo gesuita usa come strumento apostolico il suo stesso carattere che, sebbene talvolta lo faccia soffrire interiormente, è profondamente empatico, simpatico, e di grande acume nell’uso del linguaggio popolare.
Una rezadora[4] tradizionale delle veglie funebri ricorda che una volta Rutilio le chiese, con fare affettuoso e sorridente, se fosse una rezadora «cohetera»[5]. Lei, sconcertata, gli domandò che cosa intendesse dire. E Rutilio, sempre amichevole e sorridente, le rispose dicendo che lo era se pregava come i cohetes, che vanno sempre verso l’alto e non hanno mai rapporti con quelli che stanno attorno. Sorpresa dalla domanda, e catturata nello stesso tempo dalla simpatia e dal calore di Rutilio, quella donna divenne poi un’attiva promotrice della lettura del Vangelo e dell’incorporazione della vita di Gesù nella propria vita personale.
La stessa opera Rutilio compiva con gli «Adoratori del Santissimo», una confraternita maschile molto numerosa, che accompagnava sempre nelle Ore sante, e che nello stesso tempo incoraggiava a unire quella profonda fede contadina con la vita e con le responsabilità civili. Uomini molto anziani e devoti divennero evangelizzatori nonostante l’età. Di fronte ad altri sacerdoti, che in quel gruppo vedevano una religiosità troppo tradizionale, Rutilio li difendeva e li accompagnava fedelmente tutti i mesi. Sapeva fare buon uso della ricchezza della sua gente, evangelizzarla, senza infrangere tradizioni, consuetudini e forme autentiche di pietà, alle quali si doveva soltanto aggiungere un maggiore contenuto evangelizzatore e missionario.
Del periodo trascorso a Lumen Vitae, in Belgio, gli rimase impressa la preoccupazione per la catechesi. Il suo sentimento popolare e il suo apprezzamento per la famiglia, della quale aveva molto avvertito la mancanza, facevano sì che egli desse molto valore a qualsiasi simbolo di esemplarità per i bambini. Nelle missioni contadine che organizzava nei villaggi, chiedeva che i genitori venissero insieme con i loro figli. L’idea era che questi ultimi vedessero che i loro genitori si riunivano a parlare del Vangelo per studiarlo e per viverlo nella realtà. E così, prima di dare inizio alle riunioni, intratteneva i piccoli con canti, domande e preparazione ai sacramenti, specialmente all’Eucaristia.
Rutilio poneva un’enorme cura nella preparazione dei catechisti, e cercava di coinvolgere in questo compito ciascuno, secondo la propria condizione. In alcuni suoi appunti manoscritti risalta, tra le altre cose, l’importanza delle madri nella catechesi iniziale dei bambini. Gli pareva essenziale preparare le donne affinché in casa fossero le prime a inculcare nei figli la fede in Gesù Cristo, i valori del Vangelo e la conoscenza delle prime preghiere e delle basi della fede cristiana.
Conoscitore della Dottrina sociale della Chiesa, Rutilio portava sempre con sé, oltre al Vangelo, la Costituzione del suo Paese. Custodiva con particolare cura l’esemplare della Costituzione che gli era stato regalato dal presidente Fidel Sánchez, dopo la sua omelia del 6 agosto di cui abbiamo già parlato. I princìpi e i diritti che vi si articolavano lo portavano a insistere sulla dignità umana, sulla giustizia sociale, sui diritti fondamentali dei cittadini. Questo era il suo modo concreto di svolgere la pastorale sociale: unire Vangelo, Dottrina sociale e Costituzione nazionale.
Rutilio rilanciava, partendo dalla fede, l’esercizio della cittadinanza e il recupero della dignità propria dei figli di Dio. Basandosi su quella combinazione del Vangelo vivo, impersonato in Gesù, e della realtà considerata a partire dall’ideale costituzionale e dalla Dottrina sociale, preparava l’omelia, a cui dava grande importanza. Dedicava tempo alla sua elaborazione in modo molto ordinato, e spesso tracciava schemi, che poi seguiva quando parlava. Faceva lo stesso quando preparava accuratamente le sue lezioni ai catechisti.
I suoi compagni di comunità ricordano uno stile omiletico simile a quello di monsignor Romero, sia nel tono sia nell’ispirazione e nella parresia. Ma Rutilio era più popolare nei modi di dire e usava un ricco vocabolario contadino, dal con qué (il companatico, che accompagnava la consueta tortilla di mais) alla cuma (un coltello curvo allora indispensabile nei lavori contadini).
Il suo senso della festa come anticipo del Regno e del suo banchetto è stato un altro dei grandi strumenti dell’evangelizzazione. La festa come luogo di fraternità, di partecipazione, dove a nessuno manca il con qué, con una mensa assortita e abbondante sulla tovaglia bianca, è luogo di riposo nella lotta e punto di partenza per la missione.
Accanto alle feste patronali, al Corpus Domini, al Sacro Cuore, a San Giuseppe, alle prime Comunioni e così via, Rutilio rilanciò la festa del mais come festa della fraternità. Nella tradizione Maya, dominante in buona parte dell’America centrale, gli indigeni si consideravano fatti di mais. Ed era abituale, all’epoca del raccolto, verso il mese di agosto, organizzare feste in cui si condivideva il mais preparato in vari modi. Rutilio riprese questa tradizione e la trasformò in un’espressione identitaria di fraternità, di autoaffermazione e di recupero della dignità contadina.
La festa del mais si celebrava prima della festa dell’Assunzione, proponendo Maria e il suo canto del Magnificat come espressione fondamentale della condivisione e dell’amore di Dio per gli umili, per i poveri e per i semplici. E partendo da quelle stesse idee, nelle comunità veniva eletta la regina del mais come serva, come persona solidale, che condivideva il proprio lavoro e la propria bravura nel fare gli atoles, i tamales, le tortillas, le riguas e altri piatti derivati dal mais, preparati per la festa. Donne servizievoli, come Maria, per una festa del mais che simboleggiava la vita e quel sostegno basilare della vita che ci affratella e di cui tutti siamo fatti. Trenta anni prima che i Documenti di Aparecida invitassero tutti i latinoamericani a «utilizzare, ancor più, il ricco potenziale di santità e di giustizia sociale implicito nella mistica popolare»[6], Rutilio era già un pastoralista affermato in questo campo.
Rutilio martire
La rapida crescita della coscienza contadina, l’impegno politico a favore della giustizia, l’ingiustizia sociale permanente, la tensione ingenerata da un Governo militare sempre più repressivo e fraudolento, il sorgere di una guerriglia strisciante, il sequestro e il successivo assassinio di due membri di famiglie salvadoregne benestanti rabbuiavano sempre più il clima della convivenza sociale. Rutilio si preoccupava della situazione. I suoi compagni gesuiti dicono che in quegli ultimi anni ripeteva con frequenza la frase: «Bisogna prepararsi a quel che verrà». Si dispiaceva per la rapida politicizzazione, e per il fatto che, tralasciando il loro compito, alcuni dei leader ecclesiali più appassionati si buttassero in politica. Di nuovo uno dei suoi compagni[7] informa che, di fronte alla fuga di alcuni dei capi verso le organizzazioni popolari, egli era solito lamentarsi dicendo: «Sono stati eletti dalla comunità e per la comunità».
Sebbene non fosse avverso alla responsabilità politica, gli dispiaceva ciò che in fondo gli pareva un approfittarsi del lavoro ecclesiale strumentalizzando a beneficio di altre istituzioni. Lo inquietava il fatto che alcuni gesuiti giovani, che collaboravano nella pastorale e poi abbandonarono la Compagnia associandosi alla guerriglia, prendessero parte ad aizzare i contadini verso il salto all’opzione politica. Il Paese era in tumulto e le difficoltà si moltiplicavano.
In questo contesto venne assassinato un possidente della zona, e non mancò chi ne addossasse la colpa alla pastorale di Aguilares. Si pensa che da allora la sentenza di morte fosse già stata decisa. Se paragoniamo l’omelia del 6 agosto 1970 nella festa del Divino Salvatore, patrono di El Salvador, con l’omelia del 13 febbraio 1977, che denunciava l’espulsione dal Paese di p. Bernal, parroco della città di Apopa, vicino Aguilares, notiamo il percorso compiuto da un Rutilio più retorico, preoccupato per le ingiustizie e i mancati progressi, a un Rutilio che esprime profeticamente solidarietà con il suo popolo in una situazione molto tesa. Ma in entrambe le omelie è presente la forza di chi ama, di chi vuole donarsi al bene del suo popolo, di chi prima prevede la persecuzione e poi vi si consegna consapevolmente, difendendo i più poveri. Quest’ultima omelia è già un presagio della sua morte, quando egli dice che, se Gesù entrasse dalla frontiera di Chalatenango, non arriverebbe ad Apopa: «Molte Giunte supreme se lo porterebbero via come incostituzionale e sovversivo»[8].
In questo ambiente di tensione e di rischio, Rutilio decide di sostituire uno dei suoi compagni nelle sue visite pastorali del 12 marzo. Parte con la sua auto per la strada verso El Paisnal e porta con sé quattro adolescenti e un catechista sessantaduenne. Il mezzo su cui viaggiano viene mitragliato poco dopo l’uscita da Aguilares. Si salvano tre dei ragazzi e muoiono lui, il catechista e il tredicenne Nelson Rutilio. I ragazzi sopravvissuti identificheranno alcuni degli assassini. Ma il sistema giudiziario, che successivamente monsignor Romero definirà «corrotto», lascia impunito il triplice crimine.
E, come nell’antica Roma, comincia lo sforzo di alcuni per ricordare e di altri per eliminare qualsiasi traccia di memoria. La lettera delle Chiese di Lione e Vienne, che racconta come gli ufficiali dell’Impero romano distruggevano perfino i corpi dei martiri per impedirne la memoria, fa pensare alla distruzione delle croci che indicavano il luogo della morte di Rutilio e di coloro che lo accompagnavano. Esse venivano sradicate dal suolo con trattori e rialzate sul bordo della strada da quanti volevano, grazie alla forza di una fede viva, conservarne la memoria. I tre martiri sono sepolti nella chiesa di El Paisnal, mentre le tre croci alla fine sono rimaste al loro posto dopo essere state abbattute varie volte.
Questa contesa attorno ai simboli del ricordo e della memoria è emblematica dell’incomprensione, anche da parte di alcuni cattolici, di un nuovo modello di santità, intimamente unito alla sequela di Gesù di Nazaret. I modelli classici di santità poggiavano generalmente o sull’odio diretto per la fede, o sull’eroicità di virtù come la carità, lo spirito di preghiera, il sacrificio penitente, l’umiltà o il servizio dei poveri e degli afflitti. Nell’America Latina in generale, e in Rutilio o in monsignor Romero in particolare, sono emerse nuove forme e modelli di santità, a partire dal concilio Vaticano II e dalle sue riletture compiute dalla Conferenza episcopale latinoamericana (Celam) a Medellín e a Puebla. Si tratta di persone che hanno vissuto eroicamente il messaggio evangelico di solidarietà con i poveri e gli afflitti. Che hanno confidato più nella forza della Parola e nella fede dei semplici che in qualsiasi altra forza. Che si sono impegnati a chiamare alla conversione e contemporaneamente alla trasformazione delle strutture. Che hanno saputo unire la voce profetica di chi è voce dei senza voce ad un’apertura generosa all’ascolto e al dialogo con chiunque fosse desideroso di parlare a partire dal cuore dell’uomo.
Essi non hanno tralasciato la relazione con Dio, ma hanno moltiplicato l’amore per il prossimo nell’impegno a trasformare atteggiamenti, abitudini e strutture che emarginano, opprimono o avviliscono la dignità umana. Persone devote a una causa evangelica che ci rammenta la nota frase di sant’Agostino: «A fare i veri martiri non è la pena che si soffre, ma la causa per cui si soffre»[9].
Se crediamo con Giovanni Paolo II che «la guerra dei potenti contro i deboli ha, oggi più che ieri, aperto profonde divisioni tra ricchi e poveri»[10] e vogliamo costruire la pace; o se pronunciamo con Papa Francesco un secco «no a un’economia dell’esclusione e della inequità», perché «questa economia uccide»[11], operando di conseguenza, l’esito martiriale può verificarsi in qualsiasi momento. Ma è appunto questa testimonianza della fede e dell’amore, della causa evangelizzatrice fino alla fine, che offre possibilità di redenzione ai nostri popoli. Soltanto la profusione di generosità dei martiri, unita alla sovrabbondanza della grazia (cfr Rm 5,20), può trionfare sul peccato radicato in molte delle nostre strutture e degli atteggiamenti sociali.
Rutilio e i suoi due compagni, monsignor Romero e tanti altri che hanno offerto la loro vita in difesa dei più umili, mostrano ciò che c’è di più intimo e profondo nel cammino cristiano. La beatificazione di monsignor Romero e l’apertura del processo nel caso di Rutilio ci mostrano l’autorevole conferma di un percorso e di una speranza.
La sopravvivenza del martire
Anche nei tempi più duri della repressione e della guerra, Rutilio è rimasto presente nel ricordo delle persone. Era difficile raggiungere El Paisnal, che era zona attiva di conflitto, ma molti facevano lo sforzo di andare a visitare le tombe dei tre cristiani che sono poste davanti all’altare. Nel decimo anniversario della loro morte, cinquanta gesuiti che andavano in pellegrinaggio alla chiesa dove i tre sono sepolti furono sottoposti a fermo, perquisizione e identificazione mentre scendevano dai pullman.
Quando ritornò la pace, il clero diocesano riprese a promuovere il ricordo di Rutilio e cominciò a organizzare, negli anniversari, pellegrinaggi a piedi, di circa 4 chilometri, da Aguilares a El Paisnal, con una pausa di riflessione, spesso ecumenica, davanti alle tre croci che indicano il luogo dell’assassinio. Lo stesso vicariato foraneo, che riunisce quasi dieci parrocchie rurali della zona, si chiama «vicariato Rutilio Grande». Qualche mese dopo la morte di p. Rutilio, monsignor Romero non esitava a dire: «Proprio quando hanno voluto spegnere la voce di p. Grande perché i preti avessero paura e non continuassero a parlare, hanno risvegliato il sentimento profetico della nostra Chiesa»[12]. Come i martiri antichi, che erano «impavidi dinanzi alla morte»[13], Rutilio continua a sostenere la parresia e prosegue il lavoro di semina che la tradizione ha sempre attribuito a coloro che danno la vita per la fede e per il prossimo.
Oggi che la Chiesa universale riconosce come martire monsignor Romero, e la Chiesa diocesana avvia il processo di beatificazione di Rutilio Grande e dei suoi due compagni, possiamo ripetere ciò che san Giovanni Crisostomo diceva dei martiri: «In effetti, la prova davvero più forte della risurrezione di Cristo è che, avendo subìto una morte violenta, dopo questa egli mostri tanto potere da persuadere gli uomini vivi a […] preferire ai piaceri presenti le frustate, i pericoli e la morte stessa. Questa non può essere impresa di un morto che giace disteso nel sepolcro, ma è opera di chi è risuscitato e vive»[14].
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[1]. Giovanni Paolo II, s., Esortazione apostolica Pastores gregis, n. 67.
[2]. Citato in R. Cardenal, Historia de una esperanza: vida de Rutilio Grande, San Salvador, UCA, 2002, 177. Questo libro è una biografia eccellente e completa di Rutilio Grande.
[3]. R. Cardenal, Historia de una esperanza, cit., 397. L’applauso alle tortillas si riferisce al modo di prepararle tra i palmi delle mani. Rutilio utilizza questo gioco di parole per dire che la collaborazione nel preparare i pasti per le attività parrocchiali è un applauso alle opere della parrocchia.
[4]. Le rezadoras erano donne che conoscevano un gran numero di preghiere in suffragio dei morti ed erano invitate dai parenti dei defunti a pregare sia nella veglia del defunto sia nei nove giorni dopo il funerale. Queste preghiere erano di solito accompagnate dal banchetto, che nell’ultimo giorno aveva un certo aspetto di festa.
[5]. La parola viene da cohetes, cioè fuochi di artificio come quelli che esplodono in alto, diffondendosi in stelle.
[6]. Documento conclusivo della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, 262.
[7]. Questa frase è stata riferita da p. Salvador Carranza, che è stato compagno di Rutilio ad Aguilares per cinque anni.
[8]. S. Carranza – M. Cavada Díez – J. Sobrino, XXV Aniversario de Rutilio Grande. Sus homilías, San Salvador, Centro Monseñor Romero, UCA, 2007, 82.
[9] . Agostino, s., Lettera 89, 2.
[10]. Giovanni Paolo II, s., Esortazione apostolica Pastores gregis, n. 67.
[11]. Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 53.
[12]. O. A. Romero, Omelia del 9 ottobre 1977.
[13]. Giustino, s., Apologia II, 12, 1.
[14]. Giovanni Crisostomo, s., Panegirico in onore di sant’Ignazio di Antiochia.