a cura di V. FANTUZZI
Persepolis (Francia, 2007). Registi: MARJANE SATRAPI e VINCENT PARONNAUD. Cartoni animati.
Agile e incisivo, il cartone animato Persepolis, realizzato da Marjane Satrapi in collaborazione con Vincent Paronnaud, deriva dall’autobiografia a fumetti pubblicata in Francia dalla stessa Satrapi (ed. italiana Sperling & Kupfer). Nata in Iran (a Rachi) nel 1969, l’autrice narra le peripezie della propria vita, dall’infanzia fino al suo arrivo a Parigi nel 1994. Alla descrizione dei sogni che accompagnano le fasi delicate della sua crescita si alternano evocazioni degli eventi tempestosi che si sono abbattuti sul suo Paese nel passaggio dal regno dello Scià alla rivoluzione islamista del 1979, alla lunga guerra con l’Iraq e oltre. Nel tracciare il proprio autoritratto la Satrapi non esita a calcare la mano su alcuni difetti che riconosce di avere. Ben più sferzante è l’ironia con la quale viene stigmatizzato il comportamento delle autorità e nell’Iran di ieri e di oggi.
Lo stretto legame che unisce la storia corale di un popolo e le dolorose esperienze di una ragazzina, la quale fin da piccola deve fare i conti con pesanti limitazioni imposte alla pro-pria libertà personale e a quella dei suoi familiari (nonno e zio uccisi in carcere, il primo dallo Scià, il secondo dagli ayatollah), è sostanzialmente rispettato nel passaggio dalla carta stampata allo schermo, anche se nel film i tratti dei volti e dei corpi risultano addolciti e pertanto più «normali» di quanto non appaiono nel fumetto. Allo stesso tempo, il ritmo serrato che assumono le immagini in movimento costringe ad alleggerire la tela di fondo che conferiva al «diario disegnato» della Satrapi l’andatura solenne di un’autentica epopea. Il film aggiunge inoltre alle immagini in bianco e nero del fumetto (che comunicano un senso di oppressione) alcune immagini a colori quando la protagonista lascia Teheran per trasferirsi in Europa.
La denuncia dello stato di atavica schiavitù imposto dai maschi alle donne iraniane e dei tabù medievali che regolano ancora il loro comportamento è esposta nel film in maniera esplicita. Scontato in partenza il risentimento delle autorità iraniane manifestato quando il film fu presentato al festival di Cannes 2007. È noto d’altra parte che copie clandestine del film circolano sottobanco in Iran nell’ambito di un’attività fuorilegge a proposito della quale la pellicola rivela dettagli che la stampa occidentale non aveva finora indicato con altrettanta precisione: uva pigiata nella vasca da bagno per fare un po’ di vino in casa, Cd dei Pink Floyd acquistati di nascosto all’angolo della strada eludendo la vigilanza dei «guardiani della rivoluzione», occhi e labbra delle ragazze truccati senza farsene accorgere.
Mentre gli oppositori del regime sono torturati (con metodi scientifici appresi dalla Cia) e uccisi, ragazzi e ragazze rischiano la prigione se vengono sorpresi mano nella mano. Per le ragazze c’è inoltre il problema del chador (velo islamico) che deve essere indossato in maniera regolamentare e non «alla sportiva» come piace a Marjane, la quale, quando viene mandata a Vienna per proseguire gli studi, incappa in un integralismo di segno diverso, ma non meno fastidioso: quello delle suore cattoliche che la ospitano in un istituto dove vige un clima di intimidazione e formalismo. Fuggendo dall’istituto, Marjane si rifugia presso una comunità di punk e passa di delusione in delusione finché, in preda a una forte depressione, decide di rientrare a Teheran dove si iscrive all’accademia di Belle Arti. Nei libri di scuola la Venere di Botticelli appare vestita dalla testa ai piedi. Gli scontri verbali con insegnanti sessuofobi mettono Marjane in cattiva luce. Confortata dalle attenzioni dei genitori e soprattutto da una nonna prodiga di consigli, la giovane si rimette in salute e decide di partire definitivamente per Parigi.
Lo stile del film utilizza con tratti netti tutte le risorse del bianco e nero: sfondi, ombre, silhouettes, contrasto di superfici… Alle campiture nere, che indicano il prevaricare del potere oscurantista, si oppone il candore del volto della protagonista, la sua innocenza di bambina che cresce, osserva, impara. Quando due donne velate si avvicinano alla piccola Marjane per rimproverarla, le loro figure si ingrandiscono rapidamente sullo schermo come due macchie nere che sembrano voler inghiottire la bambina e, con essa, far sparire l’immagine per intero. Al bianco e al nero si contrappone nel film una gamma di grigi, sospesi tra luce e ombra. Talvolta, quando fa capolino la storia con la S maiuscola, si apre il sipario di un teatro nel quale i simboli del potere si trasformano in ombre cinesi dove i personaggi assomigliano a burattini mossi con fili. Come nei film di Jafar Panahi, Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf e in quelli di altri cineasti iraniani non allineati, anche in quello della Satrapi circola un desiderio insopprimibile di entrare in dialogo con altre culture, che non allontana ma avvicina reciprocamente i popoli dell’Oriente e quelli dell’Occidente.