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«Domandiamoci innanzitutto: abbiamo mai fatto sinora l’esperienza di ciò che è spirituale nell’uomo?»[1]. In realtà spesso non sappiamo neanche di essere vivi, figurarsi se sappiamo di essere spirituali. Tante volte infatti, per usare un’immagine appropriata di Marcel Proust, la nostra vita diviene come ingombra di tante lastre fotografiche scattate momento per momento, attimo per attimo, ma rimaste nere e messe da parte. Sono lastre che rimangono scure perché lo spirito spesso non riesce a svilupparle, a elaborarle, come si fa in un laboratorio fotografico, perché svelino i loro contorni e le loro sfumature[2].
Tutti gli uomini hanno una vita spirituale
In realtà ognuno di noi ogni giorno fa esperienza «spirituale» in senso ampio: «Io penso, studio, prendo delle decisioni, agisco, stabilisco dei rapporti con gli altri, vivo in una comunità fondata su fattori non solo biologici ma anche spirituali, amo, gioisco, gusto la poesia, posseggo i beni della cultura, della scienza, dell’arte, ecc. So quindi cosa sia lo spirito». E tuttavia nelle azioni menzionate «lo “spirito” è, o può essere, solo, per così dire, l’ingrediente adoperato per rendere la vita terrena dell’uomo bella e ricca di significato. Perciò non necessariamente si esperimenta allora lo spirito nella sua autentica trascendenza»[3].
Occorre dunque definire meglio la domanda: abbiamo fatto l’esperienza dello spirito nella sua trascendenza? Per rispondere partiamo da una constatazione semplice, che deve però essere molto chiara: «Dio è già all’opera nella vita di tutti gli uomini e di tutte le donne»[4]. Lo è sempre. Proprio il fatto di essere uomini significa avere una vita spirituale. Non si intende qui per «vita spirituale» la vita esplicita di preghiera o l’adesione libera della fede, ma il fatto che ogni uomo, in quanto tale, vive sotto l’influsso della chiamata della grazia di Cristo e da essa è incalzato. Per il credente tutti gli uomini hanno una vita spirituale, non solamente chi la vive consapevolmente e ad essa aderisce. È anche vero che, a volte, essa prende forma in una maniera che sembra staccata da un’espressione esplicitamente religiosa o confessionale.
In ogni caso, la vita spirituale delle persone non è mai morta. Lo Spirito di Dio agisce di continuo in noi e in tutta la realtà umana: è presente ed è attivo negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali. La creatività dello Spirito sempre «muove e attira», scrive sant’Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi Spirituali[5].
L’uomo è sempre sotto l’azione dello Spirito di Dio, anche se non prega o addirittura non si professa credente. Tuttavia, senza una corrispondenza alla chiamata della grazia, la sua dimensione spirituale libera e cosciente rischia di rimanere inespressa, misconosciuta, inoperosa. Che cosa significa, quindi, vivere in maniera consapevole la propria spiritualità? La risposta a questa domanda comporterebbe la redazione di un trattato di spiritualità. Qui intendiamo soffermarci solamente su uno degli atteggiamenti fondamentali propri di un uomo spirituale.
Che cosa voglio da questa vita?
E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? Questa domanda intrigante e forse impertinente è contenuta nei versi che chiudono l’itinerario poetico di Raymond Carver[6]. L’interrogativo ci pone subito nella prospettiva giusta; essere uomini spirituali significa infatti porsi grandi interrogativi: di vita e di morte, di come stare al mondo, di ciò che si vuole veramente dalla vita. Se così non fosse la vita spirituale sarebbe disincarnata, cioè sostanzialmente inutile, un «di più» per pochi privilegiati.
Ora, l’essere umano fa sempre l’esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e alle domande: vive immerso nel concreto e nell’orizzonte delle cose che può manipolare e gestire. Ha cose da fare a sufficienza e di un certo interesse. Tutti noi ne abbiamo. Non ci poniamo la domanda su che cosa vogliamo da questa vita. Siamo quell’uomo di cui ha scritto in Non chiederci la parola il poeta Eugenio Montale: Ah l’uomo che se ne va sicuro, / agli altri e a se stesso amico, / e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro! Sebbene sia alquanto triste quanto falso vedere la vita come un’ombra che si stampa sopra un muro scalcinato, è vero che spesso l’uomo di oggi «se ne va sicuro», cioè distratto, senza accorgersi di ciò che rende la vita veramente vitale, viva. Oppure se ne va in giro alla ricerca di sicurezze, certezze, garanzie a breve scadenza. Tutto concentrato sulla gestione di ciò che ha sotto gli occhi, l’uomo fa fatica ad avere momenti di meditazione come quelli che ebbe, ad esempio, Ugo Foscolo quando ne Le ultime lettere di Jacopo Ortis con parole mutuate dai Pensieri di Blaise Pascal, scrisse: «Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo; né cosa io stesso mi sia»[7].
Questo atteggiamento può essere frutto di una scelta precisa: l’uomo prende su di sé l’esistenza quotidiana concreta e i suoi compiti, sapendo che tutto ciò è avvolto in una domanda più ampia. La domanda sulla vita e sul suo significato però resta tale, ed egli sa che è ineludibile, anche se la lascia inevasa. Altre volte l’uomo avverte il proprio dibattersi nell’esistenza e dice a se stesso che tutto questo agitarsi non ha senso, per cui è bene rigettare la domanda sul significato come irrisolvibile o destinata a ricevere una risposta negativa[8]. Nel monologo Il nostro bisogno di consolazione lo scrittore svedese Stig Dagerman appare di una lucidità assoluta: «Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa». E da qui una convinzione: «Il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto»[9].
Nelle pagine migliori di Dagerman il senso di privazione è però sempre il calco vuoto di uno struggente, e a volte impetuoso, desiderio di qualcosa di più grande, di una forma di consolazione, appunto: «Posso per esempio camminare sulla spiaggia e all’improvviso sentire la spaventosa sfida dell’eternità alla mia esistenza nell’incessante movimento del mare e nell’inarrestabile fuga del vento»[10]. Ecco, dunque, la descrizione di una esperienza spirituale di estrema semplicità e immediatezza, forse non pienamente consapevole, ma certamente intensa, vivace. Lo scrittore si trova sulla spiaggia e, camminando, improvvisamente viene colto dall’intuizione dell’eternità che gli si manifesta grazie al mare e al vento e al loro movimento incessante. La realtà sensibile rinvia all’intuizione di una dimensione ulteriore, tanto non immediatamente evidente quanto penetrante e fondamentale.
E viene in mente la domanda di Leopardi, che in «Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima» si chiede: Natura umana, or come, / se frale in tutto e vile, / se polve ed ombra sei, tant’alto senti? Nonostante la natura umana sia consapevole della propria fragilità, avverte tant’alto. Nelle domande impegnative c’è sempre il segno di una grandezza di ordine spirituale[11]. E la nostra riflessione è già potentemente sollecitata da domande forti: che cosa significa essere un uomo «consolato»? In che cosa consiste la «sfida dell’eternità» all’esistenza umana? Che cosa risponde a ciò che voglio da questa vita, e anzi che cosa c’è alla radice stessa del desiderio? Che cosa mi può far felice?
Lasciarsi guidare dalla consolazione
Nella ricerca di una risposta alle domande su che cosa renda la vita vivace, consolata, o addirittura felice, è possibile trovare compagni di cammino: maestri spirituali, artisti, uomini di acuta sensibilità ed esperienza. Bisogna sceglierli con cura, perché possono indicare strade senza uscita, vicoli ciechi. A volte invece si trovano buoni compagni. Uno di questi, a nostro avviso, è certamente il gesuita François Varillon, grande autore spirituale dei nostri tempi.
Quale è stato il suo fondamentale atteggiamento nei confronti della vita? Nel corso di una intervista ricorda così alcune esperienze vissute nei suoi anni giovanili: «L’ebbrezza dell’apertura alla vita. Avere tutta una vita davanti! Era semi-inconscia. Ma quel sentimento, quella botta di ebbrezza, quella gioia esultante! Salivo le scale a quattro a quattro!»[12]. Colpisce l’esultanza per l’ivresse de l’ouverture à la vie a partire da una esperienza semplice, come in questo caso: la fine della vita segnata dai ritmi del collegio. Questo flash d’ivresse, un lampo di ebbrezza, al di là di ogni vuoto vitalismo, è l’espressione radicale di un amore per la realtà e la vita in se stesse. Riflettendo su quel sentimento provato molti anni prima, Varillon è come se udisse in esso quasi un’eco della soddisfazione compiaciuta di Dio che «vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31).
L’uomo, che si è come «abituato» al mondo e alla vita, è chiamato invece a tendersi verso la freschezza del reale, è spinto a cercarla e trovarla. È chiamato a non indugiare disincantato su ciò che è stagnante e induce a disperare, oppure a credere che tutto finisca a mano a mano che il tempo passa. In fondo alle cose vive una freschezza sorgiva, éblouissante, cioè fiammeggiante, scrive Varillon. La sua parola preferita è incandescence. L’uomo spirituale intuisce questa incandescenza, spingendosi là dove solamente la fede e la grazia possono giungere. È la stessa esperienza che il gesuita Pierre Teilhard de Chardin ha tradotto in espressioni quali exubérance d’énergie, bouillonnement d’énergie, trop plein de la vie: esuberanza e ribollimento di energia, sovrabbondanza della vita[13].
L’incandescenza accomuna Varillon e Teilhard a un poeta come l’inglese Gerard Manley Hopkins, anch’egli gesuita, il quale comunica, nei suoi versi, visioni dinamiche, cangianti, fiammeggianti[14]. In Hopkins tutto sembra percorso da una scossa. Il mondo è carico (charged) della grandezza di Dio, scrive, e nel senso della carica elettrica non del peso schiacciante. Hopkins esalta Dio non in quanto stabile sicurezza dell’essere, ma in quanto autore delle differenze e delle energie polarizzanti, di ciò che è instabile nella durata e nella forma. Ecco dunque la certezza: vive in fondo alle cose la freschezza più cara[15]. La percezione di tale freschezza è un’intuizione spirituale potente, perché vede la realtà uscire dalla mano di Dio. È ciò che sant’Ignazio di Loyola chiama «consolazione» spirituale, che significa vedere e amare le cose create non chiuse in se stesse, come puri oggetti, ma en el Criador de todas ellas[16]. In tal modo è possibile gustarne la freschezza originaria. La vera consolazione spirituale non è affatto semplice ottimismo generico, «pensare positivo», ma esperienza dello svelamento della grazia: l’uomo è «consolato» perché avverte, in un modo o nell’altro, l’intima relazione di tutto con la sua origine in Dio. La vita spirituale è chiamata a modellarsi su questa esperienza, su questa «visione».
È meraviglioso / il giorno è ancora qui / come lampo su un campo aperto / saldo e fugace / traboccanza di variazioni / fresco come quando l’uomo per la prima volta eruppe / come il croco ovunque sulla terra: così il poeta Robert Lowell prorompe nel suo primo verso della poesia The Day. Nel mondo resta sempre immediatamente visibile un’eco del dolce essere della terra all’origine, afferma decisamente Hopkins, creando nel verso un legame persino sonoro tra le parole «essere» e «origine»: being in the beginning. E così si rivolge a Dio dicendo: come acqua di fonte, / sgorgo dalla tua mano. Per il poeta io «sgorgo» (flow) da Dio: non sono qualcosa di chiuso, di «già fatto», ma un flusso di creazione. Nel mondo Hopkins percepisce un eccesso, un’esuberanza, una bellezza sbocciante (beauty blooming), una freschezza fumante (freshness fuming), una brulicante giovinezza nel reale da cui viene attratto irresistibilmente. La poesia del gesuita Hopkins sa dire ciò che per Ignazio di Loyola è un’«esclamazione piena di meraviglia con crescente affetto nel riflettere su tutte le creature»[17]. E tutto questo fuoco è l’intuizione spirituale, l’eco che risuona della creazione, dell’inizio di tutto. Non è una conoscenza puramente concettuale o puramente affettiva, ma quella esperienza che Dante descrive nel Paradiso (XXX, 40) come luce intellettual, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore.
Come per Hopkins, così per Varillon l’eternità di Dio è in se stessa «sorgente che sgorga, cascata spumeggiante e freschezza dell’amore». Dio è autodébordant, «autotraboccante». La sua santità è la sua gloria che trascende ogni limite. Nelle parole di Varillon la gloria di Dio unisce paradossalmente «la leggerezza alla gravità, l’aquila al basalto, la danza alla colonna, tutto ciò che vi è di robusto e tutto ciò che vi è di aereo in quello che chiamiamo Bellezza». Il mondo non cessa di essere in genesi: «Dio lavora in seno alla Vita, la aiuta, la solleva, le dà l’impulso che la spinge, il bisogno che l’attrae, lo sviluppo che la trasforma»[18]. Un uomo che ha fatto l’abitudine al mondo, che si è «abituato» ad esso, che lo vede solamente come oggetto e non come energia, è un uomo che fa fatica a discernere nel mondo il dito di Dio. E invece quel dito è lì, pronto ad essere avvertito sensibilmente, come scrive Hopkins in un verso dal suono affilato: I feel thy finger and find theé, cioè: sento il tuo dito e ti trovo.
Incompiutezza e possibilità
L’uomo che i tre gesuiti Hopkins, Teilhard de Chardin e Varillon hanno in mente è radicato e fondato nella consolazione spirituale, capace di percepire che il suo destino è qualcosa di aperto, fluido, incandescente, che va persino al di là dell’immaginazione. È questo l’atteggiamento fondamentale che sentiamo importante valorizzare: avvertire la vita come magma, non come sasso solidificato. Il cristianesimo offre una visione dinamica della realtà: l’uomo è sempre in divenire, mai è compiuto, chiuso[19]. Scrive Varillon: «L’uomo non è qualcosa di “bell’e fatto”: il “bell’e fatto” è incompatibile con l’amore e con la libertà». E la storia è dunque un «cantiere» aperto, nel quale si gioca la grandezza della libertà umana. L’uomo è sempre in costruzione, incompiuto; meglio ancora «pieno di promessa (full of promise)», come afferma la scrittrice Flannery O’Connor[20].
Dire che l’uomo è incompiuto significa che egli è segnato da imperfezioni, dal male, dal dolore. L’incompiutezza richiama un compimento, la messa in moto di energie sopite, la necessità di una pazienza che comporta fatica. Patience, hard thing…, cosa dura, ardua, suggerisce il titolo di una poesia di Hopkins. «La condizione di incompiutezza per l’uomo spirituale non è motivo di angustia né occasione propizia per meditazioni dolenti — per quanto legittime — sulla debolezza e sulla fragilità dell’esistenza, ampiamente presenti, ad esempio, nel Novecento letterario e filosofico. Avverte Teilhard de Chardin: «Ciò che mina e avvelena in genere la nostra felicità è sentire così vicino il fondo e la fine di tutto quel che ci attira: sofferenza delle separazioni e del logoramento, – angoscia del tempo che scorre, – terrore di fronte alla fragilità dei beni posseduti, – delusione di giungere così presto al termine di quel che siamo e di quel che amiamo…»[21]. L’uomo spirituale non si lascia «avvelenare»: per lui la cifra del male non è la détresse, né l’angoscia, né la delusione, ma l’incompiutezza, che alimenta una potente tensione escatologica. Scrive Teilhard: «Noi ci trascineremo dietro, fino in fondo, incoerenze e incompiutezze: l’essenziale è d’aver trovato il centro di unificazione, Dio, e di avere lealmente tentato, in vita, di farlo regnare in noi, in questo piccolo frammento d’essere»[22].
Dovrebbe essere proprio questo il tratto caratteristico dell’uomo spirituale dei nostri giorni: la fiducia nella vita, la capacità di non farsi vincere dagli atteggiamenti negativi, rinunciatari, che conducono alla disperazione. E questo atteggiamento è fondato su un modo particolare di considerare e vedere il mondo, cioè in attesa di un compimento, in corso d’opera, pieno di promessa, sbilanciato in senso escatologico. L’aveva ben compreso Ignazio di Loyola che decisamente invita a non agire (cioè a non prendere decisioni e a non fare cambiamenti) quando si vivono momenti di desolazione, quando si è spinti a rinunciare, a essere diffidenti, a disperare o si è sfiduciati o depressi. L’uomo che agisce e opera dev’essere mosso dalla luce di un orizzonte aperto, non dal buio di un vicolo cieco. Questo significa che egli è chiamato a rapportarsi alla realtà non in modo pregiudizialmente segnato dal sospetto o dal risentimento, ma dalla fiducia: questo è il punto di partenza per una vita vissuta pienamente e in maniera autentica e fruttuosa.
Del resto, quando una vita prende forma in maniera autentica? Quando un uomo oltrepassa la soglia del mondo diventando attore, protagonista, e non solamente spettatore passivo? Quando davanti alla vita si aprono possibilità, si dispiegano opportunità e aperture: quando la vita è piena di promesse. Vivere è «abitare nella possibilità», come ha scritto la poetessa statunitense Emily Dickinson. I dwell in possibility[23]: l’uomo, da una parte, «esperimenta in mille modi i suoi limiti; dall’altra parte si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato a una vita superiore» (Gaudium et spes, n. 10). La sete d’infinito che l’uomo reca nel suo cuore, la tensione verso l’assoluto che lo anima (il suo cor inquietum o il suo desiderium visionis) non può essere saziata. L’uomo è in radice aperto alla possibilità. Agostino ha ben espresso questa situazione: «Ci hai creati per te, o Signore, e inquieto è il cuor nostro finché non riposa in te». Questo «riposo» però non è sopore, torpore o assopimento, tanto meno sogno, ma è tensione al compimento delle possibilità della propria esistenza; dunque non sonno ma risveglio, come canta lo splendido inno ambrosiano «Fulgentis Auctor aetheris»: Rinasce ancora la luce, / ritorna limpida e pronta la mente, / la gioia dell’agire si ridesta[24]. È questo «riposo» in Dio che ridesta allora ce goût, cette passion de vivre, […] cette allégresse d’agir, come scrive in una lettera Teilhard de Chardin. Essa «è come una sorgente che scaturisce in noi senza il nostro intervento, che possiamo utilizzare, incanalare, ma che non siamo noi ad alimentare»[25].
Per il credente la vita è apertura alla possibilità, la quale non dipende dalle sue sole forze. Essa infatti, come scrive san Paolo, è «criptata» in Dio (cfr Col 3,3). L’uomo spirituale non ritiene di conoscere il suo destino, ma sa che Dio — e solamente Lui — ne ha la chiave. Anche gli eventi più contraddittori o negativi hanno una loro comprensibilità in una password che è conosciuta solamente da Dio. Il credente sa che la sua vita è protetta da questa password. Sa inoltre che lo attende una «decifrazione» del suo destino.
La capacità di innovazione
L’apertura alla possibilità abilita all’innovazione personale e sociale. Oggi l’innovazione è un concetto cardine dello sviluppo, anche se sembra difficile darne una definizione stabile e fissa. Certamente essa implica la capacità di gestire la conoscenza al fine di generare qualcosa di nuovo. Una interessante definizione di innovazione è quella data da Piero Bassetti: «la realizzazione dell’improbabile»[25]. Nel processo innovativo un fatto improbabile viene reso reale grazie a un nuovo sapere che è capace di realizzarlo. L’innovazione è dunque allo stesso tempo rischio e opportunità, qualcosa che cambia il mondo che ci circonda, ma lo cambia in direzioni imprevedibili. In questo senso vale citare una celebre frase di Ted Levitt, guru del marketing alla Harvard Business School: «Il futuro appartiene alle persone che vedono le possibilità prima che diventino ovvie»[27]. Sembra di udire distintamente l’eco di Emily Dickinson che afferma: I dwell in possibility, cioè «abito nella possibilità».
Per un uomo spirituale l’innovazione è un concetto decisamente stimolante. Forse è il concetto che meglio descrive il suo modo di vivere nel mondo. Egli infatti tende alla realizzazione di ciò che appare improbabile agli occhi, che si limitano a ciò che vedono. Una visione acuta e prospettica è parte integrante della capacità di innovazione. L’uomo spirituale sa come ciò che vive sia provvisorio e in attesa di compimento: egli vede le possibilità di realizzarsi come uomo solamente in una visione che gli è data dalla fede, ed esse sono tutt’altro che ovvie. Ma egli sa che le conoscenze che gli permettono di fare cose nuove non gli basteranno mai fino in fondo. Sa che il processo di innovazione non si limita a questo mondo, e che il suo compimento giungerà come un dono, non come una conquista. Non sono io a costruire la vera novità, ma essa mi raggiunge sorprendendomi. È il suo futuro in Dio, per il credente, la fonte inesauribile della sua capacità di innovazione.
È qui in gioco la stessa dinamica della creatività, dell’ispirazione artistica, dell’intuizione spirituale e dell’invenzione. Essa è descritta da un punto di vista spirituale da Teilhard de Chardin nel suo L’ambiente divino: «Dio non distoglie anzi tempo il nostro sguardo dal lavoro che proprio Lui ci ha imposto, poiché Egli si presenta a noi raggiungibile mediante questo stesso lavoro. No, Egli non fa svanire nella sua luce intensa gli aspetti particolari delle nostre mete terrene, poiché l’intimità della nostra unione con Lui è precisamente in funzione dell’effettiva perfezione che daremo alla nostra più infima opera. Meditiamo questa verità fondamentale a sazietà, sino a che essa diventi per noi abituale quanto la percezione del rilievo o la lettura delle parole. In ciò che Egli ha di più vivo e di più incarnato, Dio non è lontano da noi, fuori della sfera tangibile; ma ci aspetta ad ogni istante nell’azione, nell’opera del momento. In qualche maniera, è sulla punta della mia penna, del mio piccone, del mio pennello, del mio ago, – del mio cuore, del mio pensiero. È portando sino all’ultima perfezione naturale il tratto, il colpo, il punto al quale mi sto dedicando, che coglierò la Meta ultima cui tende il mio volere profondo»[28]. E questo sapendo che l’ultima parola sulla riuscita della propria vita si avrà al momento del compimento finale.
Durante la prima guerra mondiale Teilhard, da poco ordinato sacerdote, viene arruolato e inviato al fronte come barelliere di seconda classe. Pur immerso nella tragedia, in una splendida lettera del 4 luglio 1915 alla cugina Marguerite Teilhard-Chambon, egli scrive: «Prima di tutto abbi fiducia nella lenta opera di Dio. Noi siamo naturalmente impazienti di arrivare subito, in ogni nostra impresa, alla conclusione. Vorremmo bruciare le tappe. Siamo insofferenti di essere in cammino verso qualcosa di sconosciuto, di nuovo… Tuttavia non c’è progresso che si raggiunga senza passare per momenti di instabilità e di precarietà, che possono assommare a lungo periodo. Lo stesso vale per te, credo. Capisco che, a poco a poco, le tue idee maturano, tu lasciale crescere, lascia che prendano forma. Non cercare di “forzarle”, quasi che tu potessi essere oggi quella che ti farà domani il tempo (la grazia, cioè, e le circostanze che agiscono sulla tua buona volontà). Dio solo sa come sarà questo spirito nuovo che, a poco a poco, si sta delineando in te. Fa credito a NS [Nostro Signore], pensa che la sua mano ti guida nell’oscurità e nel “divenire” e accetta per amor suo l’inquietudine di sentirti sospesa e come incompiuta (en suspens, et comme inachevée)»[29].
L’incompiutezza è la cifra per comprendere il nuovo e inserirsi nella sua dinamica positiva che è già sempre presente come seme, in una virtualità che va realizzandosi. Continua Teilhard: «Ma la tua vita è già piena di eternità, te l’assicuro. Nella nostra vita cosciente l’eternità entra il giorno stesso in cui “puntiamo” su Dio»[30]. E, proseguirebbe Emily Dickinson, l’Eternità rende possibile lo slancio[31]. Ecco, dunque, a che cosa può condurre quella «sfida dell’eternità» percepita da Dagerman lungo la riva del mare.
Ecco il caposaldo della vita spirituale: non sono io, in ultima analisi, a possedere gelosamente le chiavi della mia piena realizzazione in quanto essere umano. E questo mi conduce a vivere nella possibilità più aperta, persino davanti alla fatica, al dolore o alla malattia[32]. Ecco la condizione umana più autentica: né l’abisso dell’angoscia né la pienezza luminosa, ma l’essere sulla soglia, in attesa[33]. È ancora una volta un’immagine di Emily Dickinson che ci aiuta, anche visivamente, a comprendere che soltanto la fede sostiene questa visione: La fede è il ponte senza arcate / che immette ciò che noi vediamo / nella scena per noi ancora invisibile. Ciò che è al di là, scrive la poetessa, è invisibile, come la musica – / ma forte, come il suono[34].
* * *
La nostra vita è costellata di esperienze ordinarie che ci aiutano a vivere la nostra spiritualità. Ciascuno, facendo un attento «esame di coscienza» sulla propria vita, potrebbe testimoniarne molte. L’uomo che sa vedere la sua vita ordinaria fatta di piccole cose «alla luce dell’eternità, di cui porta in sé il germe, nota subito che anche le piccole inezie hanno profondità inesprimibili, sono messaggere dell’eternità e trascendono se stesse. Sono come gocce d’acqua, nelle quali si rispecchia tutto il firmamento», suggerisce Karl Rahner[35].
Quali sono, dunque, gli atteggiamenti fondamentali del cuore che permettono all’uomo di oggi di essere aperto alla vita spirituale? L’itinerario che qui si conclude ne ha suggerito almeno uno: per essere uomini spirituali occorre essere aperti alla vita nella sua freschezza originaria, mai essere assuefatti o «abituati» a ciò che invece è sorgivo per natura: la vita, la realtà di ogni giorno, la creazione. Questo genera un modo di vivere mosso dalla consolazione. L’innovazione per l’uomo spirituale non è dunque mai un obiettivo da raggiungere, ma una via, un modo di essere al mondo nella direzione del compimento, un modo per vedere il mondo e la vita non come problema chiuso in se stesso, ma come processo, sviluppo, attesa, tensione a un novum.
Per essere uomini spirituali non è dunque necessario uscire dal proprio mondo o evadere dalla propria vita urbana per ritirarsi definitivamente in spazi protetti e nella freschezza della natura. Ha ragione la poetessa inglese Elizabeth Jennings quando scrive: la mia mente / abbisogna di chiese dai grandi echi e del frastuono / delle strade fuori dal suo luogo di calma[36]. I grattacieli possono essere come foreste costruite dagli uomini, ma anche guglie di una città che punta verso l’alto. Sono un simbolo, l’immagine di una cattedrale immensa: la grande cattedrale che è il mondo. Proprio le grandi città sono i luoghi in cui la trasformazione della comunità umana si va realizzando in maniera più contraddittoria e febbrile, e dunque esse possono essere addirittura intese come simbolo dello sforzo di far avanzare la cultura verso il suo compimento ultimo[37].
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[1] K. Rahner, Cose di ogni giorno, Brescia, Queriniana, 1994, 51.
[2] Cfr M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. IV: Il tempo ritrovato, Milano, Mondadori, 1993, 577 s.
[3] K. Rahner, Cose di ogni giorno, cit., 51 s.
[4] XXXIV Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, Decr. VI, n. 20.
[5] Cfr Id., Decr. IV, nn. 21 e 25, nn. 105 e 109. La citazione di Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Gesù, è tratta dagli Esercizi Spirituali, n. 175.
[6] Sul poeta statunitense (1938-88) cfr A. Spadaro, Carver. Un’acuta sensazione d’attesa, Padova, Messaggero, 2001. La poesia è «Late fragment».
[7] Cfr la lettera del 20 marzo 1799 de Le ultime lettere di Jacopo Ortis.
[8] Cfr K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Roma, Ed. Paoline, 1978, 55 s.
[9] S. Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, Milano, Iperborea, 1991, 17. Sullo scrittore svedese (1923-54) cfr A. Spadaro, «“Il nostro bisogno di consolazione”. La narrativa di Stig Dagerman», in Civ. Catt. 2006 II 248-260.
[10] S. Dagerman, Il nostro bisogno…, cit.
[11] È importante, almeno qualche volta, porsi come sulla vetta di un monte e respirare a pieni polmoni: è questo il respiro delle domande «forti». Si potrebbe affermare che uno dei tratti caratteristici dell’uomo spirituale è quello di avere il coraggio di porsi domande radicali senza sentirle asfissianti o angoscianti, come invece molta cultura del Novecento ci ha fatto credere o almeno sospettare.
[12] Del grande autore spirituale francese (1905-78) raccomandiamo F. Varillon, Traversate di un credente, Milano, Jaca Book, 2008, 43. Le citazioni di Varillon sono tutte tratte da questo volume. Cfr Q. Dupont – A. Spadaro, «La “traversata” spirituale di François Varillon», in Civ. Catt. 2008 I 537-548.
[13] P. Teilhard de Chardin, «Comment comprendre et utiliser l’art dans la ligne de l’énergie humaine», in Les directions de l’avenir, Paris, Seuil, 1973, 95-97. Le intuizioni di Teilhard (1881-1955) appaiono oggi più che mai di grande attualità.
[14] Cfr G. M. Hopkins, La freschezza più cara. Poesie scelte, Milano, Rizzoli, 2008; A. Spadaro, «“Vive in fondo alle cose la freschezza più cara”. La poesia di Gerard M. Hopkins», in Civ. Catt. 2006 IV 234-247. Il poeta, sebbene sia vissuto in epoca vittoriana (1844-89), è di una straordinaria modernità.
[15] There lives the dearest freshness deep down things. Viene in mente come eco un verso di Ada Negri che della «giovinezza», che dà il titolo alla poesia della raccolta Fons Amoris, scrive: Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo / all’essere.
[16] Ignazio di Loyola s., Esercizi Spirituali, n. 316.
[17] Ivi, n. 60.
[18] P. Teilhard de Chardin, La vita cosmica. Scritti del tempo di guerra (1916-1919), Milano, il Saggiatore, 1970, 89. Citiamo il francese originale: Dieu travaille dans la Vie. Il l’aide, la soulève, lui donne l’impulsion qui la chasse, l’appétit qui l’attire, l’accroissement qui la transforme.
[19] La sua definizione – secondo la tradizione gesuitica del motto Ad maiorem Dei gloriam – è data dal grado comparativo (né positivo né superlativo, per indicare appunto la dinamicità) dell’aggettivo magnus, cioè maior, maggiore.
[20] F. O’Connor, «Introduction», in Id., A Memoir of Mary Ann, New York, Farrar, Straus and Cudahy, 1961, 18. Sulla vicenda legata a questa Introduzione della scrittrice americana (1925-64) cfr A. Spadaro, «Il mistero e il male. Flannery O’Connor e la storia della piccola Mary Ann», in Civ. Catt. 2005 II 323-335. La peculiare vicenda di Mary Ann è una viva esperienza di ciò che stiamo affermando.
[21] P. Teilhard de Chardin, Sulla felicità, Brescia, Queriniana, 1998, 37.
[22] Id., Genesi di un pensiero. Lettere dal fronte (1914-1919), Milano, Feltrinelli, 1966, 57.
[23] L’espressione è nella poesia 657. Sulla poetessa (1830-86), al cuore del canone letterario americano, cfr A. Spadaro, «“Nel cuore dell’enigma”. La poesia di Emily Dickinson», in Civ. Catt. 2002 IV 356-369.
[24] Mundi nitor renascitur, / Novusque jam mentis vigor / Dulces in actus erigit. La traduzione citata è quella in uso nella liturgia ambrosiana.
[25] P. Teilhard de Chardin, Genesi di un pensiero…, cit., 91.
[26] www.fondazionebassetti.org/06/porcellana/000431.htm. Piero Bassetti è, fra l’altro, presidente della Fondazione Giannino Bassetti, il cui scopo è proprio lo studio della responsabilità nell’innovazione. Consigliamo la lettura di C. Lowney, Leaders per vocazione. I principi della leadership secondo i gesuiti, Milano, Il Sole-24 Ore, 2005, soprattutto il capitolo «“Il mondo intero sarà la nostra casa”: innovazione, creatività e mentalità globale» (pp. 129-173).
[27] Cfr
[28] P. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino, Brescia, Queriniana, 2003, 39.
[29] Id., Genesi di un pensiero…, cit., 48.
[30] Ivi, 49.
[31] «Eternity enable the endeavoring». È la poesia n. 680.
[32] Cfr P. Teilhard de Chardin, Sulla sofferenza, Brescia, Queriniana, 2001.
[33] Sur le seuil, dans l’attente, per usare le parole del domenicano Jean-Pierre Jossua, che su questa visione dell’uomo ha formulato la sua teologia letteraria.
[34] I versi sono tratti rispettivamente dalle poesie n. 915 e 501.
[35] K. Rahner, Cose di ogni giorno, cit., 10 s.
[36] E. Jennings, La danza nel cuore delle cose, Milano, Àncora, 2007. I versi citati della poetessa inglese (1926-2001), ancora poco conosciuta nel nostro Paese, sono tratti dalla poesia «San Paolo fuori le Mura, Roma».
[37] Cfr XXXIV Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, Decr. IV, 26.