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Cultura e società

MI PIACE LAVORARE

Virgilio Fantuzzi

3 Aprile 2004

Quaderno 3691

a cura di V. FANTUZZI

Mi piace lavorare (Italia, 2004). Regista: FRANCESCA COMENCINI. Interpreti principali: N. Braschi, C. Dugay Comencini, M. Buoncristiani.

La parola chiave è mobbing, neologismo che deriva dall’inglese mob (folla). Pare che il verbo to mob, nel senso di «affollarsi attorno a qualcuno» e «accerchiare», sia stato usato per la prima volta dall’etologo Konrad Lorenz per parlare degli uccelli quando accerchiano la vittima designata di un’aggressione collettiva. Rende bene il senso della violenza. Nel linguaggio corrente il termine mobbing viene usato, in senso traslato, per indicare la soluzione crudele adottata nell’ambito di un’impresa per eliminare dipendenti indesiderati, e consiste in una sottile opera di persuasione che costringe i dipendenti ad abbandonare «spontaneamente» il posto di lavoro. È ciò che succede ad Anna, protagonista del film Mi piace lavorare di Francesca Comencini (interpretata da Nicoletta Braschi) una donna divorziata, con figlia minore a carico e padre anziano da accudire.

Segretaria di terzo livello in un’azienda assorbita da una multinazionale, Anna ama il suo lavoro anche se lo stipendio che percepisce non le consente nulla al di fuori dello stretto indispensabile. Da un giorno all’altro la sua vita subisce un radicale cambiamento. Come per effetto di un oscuro sortilegio, i colleghi le fanno il vuoto intorno, la sua scrivania è occupata da altri, le incombenze che le vengono assegnate diventano sempre più umilianti. Il film descrive una sorta di via crucis laica, priva di clamori e scene orripilanti, ma non per questo meno dolorosa. Anna percorre a ritroso la carriera, non particolarmente brillante, che aveva conquistato passo dopo passo, a costo di ingenti sacrifici.

Dalla scrivania, che comporta un lavoro di responsabilità, Anna è spostata alla fotocopiatrice, che richiede prestazioni ripetitive e meccaniche. Successivamente viene adibita a mansioni ancora più marginali. Incaricata di sorvegliare i ritmi di produzione, attira su di sé le ire degli operai. Nel frattempo, è costretta ad attese snervanti che le impediscono di occuparsi della sua bambina. La perdita progressiva dell’autostima provoca in lei una grave forma di depressione. Il mobbing, come dicono studi recenti promossi da istituti specializzati in medicina del lavoro, è sempre più diffuso in Europa, soprattutto in Gran Bretagna. In Italia è in crescita non soltanto nel settore privato, ma anche in quello pubblico. Spesso non se ne parla perché chi ne è colpito, oltre a sentirsi oggetto di angherie da parte dei superiori, si vede esposto a illazioni tutt’altro che benevole da parte dei colleghi.

Il mobbing è un male subdolo e insinuante. Soltanto se chi lo sta subendo impara a parlarne, forse riuscirà a sconfiggerlo. Il film della Comencini, che oltre ad essere proiettato nelle sale offre occasione a interventi sulle pagine dei giornali, può essere considerato come un incentivo in questo senso. Nel settore privato, la causa principale del mobbing è la competitività sempre più forte dettata dalla globalizzazione. Esso si manifesta con prolungate vessazioni sul dipendente, o aumenti del carico di lavoro, per indurlo a gettare la spugna. Si tratta di provocazioni, che fanno perdere alla vittima il controllo di sé, accompagnate da un forzato isolamento fisico e dalla progressiva esclusione da ogni attività sociale. Un trattamento di questo genere induce i colleghi a rifiutarsi di collaborare con chi è preso di mira.

Il mobbing in certi casi raggiunge un’intensità tale che chi lo subisce perde lucidità e finisce con il sentirsi accerchiato. Accade talvolta che la vittima si convinca che la colpa di ciò che le sta accadendo sia sua. Pensa di aver fatto qualcosa di sbagliato. Si tratta invece di un meccanismo perverso, contro il quale si deve reagire con prontezza rompendo il cerchio del proprio isolamento. Francesca Comencini dice di aver fatto questo film perché le storie di ordinaria prepotenza sono molto comuni, ma poco raccontate. Bisogna imparare a non considerarle normali. Per costruire la storia del film, la regista si è rivolta allo sportello anti-mobbing della CGIL. Da questa esperienza ha appreso che allo sportello denunciano soprusi uomini e donne che lavorano a livelli relativamente alti, non tanto perché il mobbing non esista a livello inferiore, ma perché in questi casi le persone sono più abituate a subire maltrattamenti.

Delle storie che ha sentito raccontare da coloro che le avevano vissute in prima persona, la regista ne ha scelte tre che sono confluite in un racconto unitario esposto nel film per filo e per segno senza che ci sia stato bisogno di inventare nulla rispetto ai dati forniti dalla realtà, salvo il finale, forzatamente consolatorio, che è la parte meno convincente della pellicola. «Il mobbing — dice la Comencini — non è una questione di buoni o cattivi, ma di cattiva organizzazione del lavoro. Deve esserci un codice etico all’interno del luogo di lavoro e nell’intera società, che va ripensato collettivamente. In Italia oggi è difficile servirsi del cinema per parlare della realtà, e di questa in particolare. Bisogna che ci sia la coscienza che il cinema è diverso da una merce. Si deve fare attenzione alle soglie che si stanno abbassando in maniera preoccupante. Tutti noi, senza rendercene conto, ci stiamo abituando ad assomigliare alla televisione. Il cinema dovrebbe essere una cosa totalmente diversa».

Non è disponibile la versione digitale di questo articolo, è possibile leggerlo solo nella versione cartacea o e-book


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MI PIACE LAVORARE

Virgilio Fantuzzi

Già scrittore de "La Civiltà Cattolica" (1937 - 2019).


3 Aprile 2004

Quaderno 3691

  • pag. 103
  • Anno 2004
  • Volume II

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Cinema

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