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Simon Pietro è una figura fondamentale del Nuovo Testamento, presente in molte fasi della costituzione del canone. Anche se è molto probabile che egli non abbia scritto nulla durante la sua vita, molti altri cristiani hanno scritto su di lui. Come è giunto questo pescatore della Galilea a morire martire, al termine della sua vita, nella capitale dell’Impero romano? Proviamo a ripercorrere alcuni episodi chiave del suo cammino.
Simone galileo, pescatore «imprenditore»
È importante collocare Simone nel suo ambiente della Galilea. È qui che tutto ha inizio. Che immagine abbiamo di Cafarnao? Quanto a me, ero rimasto a una visione piuttosto romantica di questo paese, che consideravo come un piccolo villaggio in riva al mare. Questa visione era legata a ciò che è stato scritto sugli scavi francescani di Cafarnao. Dal porto era stata scavata la zona delle abitazioni: la casa di Pietro, la sinagoga a poca distanza. Ma gli scavi effettuati al porto di Magdala e a Sussita/Hippos, così come i recenti studi sul lago[1] indicano che il villaggio di Cafarnao doveva comprendere, verso est, un’area che si potrebbe qualificare, un po’ anacronisticamente, come industriale. Cafarnao era al centro di una zona ittica, che esportava il pesce in un’area estesa per diverse decine di chilometri e ne garantiva la conservazione secondo le due principali tecniche dell’epoca: la salatura e l’essiccazione. Inoltre, nel 1986 venne ritrovata una barca del I secolo perfettamente conservata, nella quale sono stati rinvenuti 10 diversi tipi di legno. Ciò di cui si ha sempre più consapevolezza, ed è confermato anche dalla battaglia navale di Vespasiano nel 69[2], è che questa zona era un’area di intensa attività commerciale, con una grande flotta, e che i pescatori «imprenditori» lavoravano ed esportavano il pesce. Insomma, Cafarnao non era una grande metropoli come Cesarea o Sefforis, ma nemmeno un villaggio piccolo e povero[3].
Pertanto, i primi apostoli sono persone che provengono dal mondo artigiano semi-industriale, non dalle categorie più modeste della popolazione dell’epoca. Gesù non sceglie gli apostoli tra i braccianti analfabeti. Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che vivono in questo contesto, sono artigiani, uomini che ovviamente non fanno parte della cerchia di Erode, ma che sono persone di responsabilità, piccoli imprenditori, artigiani. Questa loro condizione corrisponde a uno status sociale nel villaggio e a uno status religioso nella sinagoga. Sono persone relativamente istruite, che hanno una buona cultura religiosa.
Torniamo al lago. Su questo punto, è interessante il libro di Sandro Veronesi Non dirlo. Il Vangelo di Marco[4]. È il testo di una conferenza, una sorta di rilettura del Vangelo di Marco, che egli chiama un boat book. L’autore fa notare che Gesù viene da Nazaret, un paese da cui non si vede il lago: si può parlare allora di campagna, con colline e ulivi. E in effetti, le parabole di Gesù fanno riferimento per lo più al mondo contadino, non alla città o all’ambiente marittimo. Paolo, invece, è un uomo della grande città, e le sue metafore sono tratte prevalentemente dall’ambiente cittadino. Ma Veronesi ci mostra che Gesù ama il lago, ama i pescatori, e Cafarnao diventa il suo luogo prediletto. Gesù attraversa il lago, e preferisce usare la barca, anche quando potrebbe andare a piedi. Anche quando il tempo è brutto e il lago è agitato dai venti, egli dorme tranquillo nella barca.
Si discute poi sulle diverse cerchie di discepoli di Gesù. E, a eccezione dei primi quattro, degli altri discepoli non si sa quasi nulla, se non che uno di loro, un altro Simone, è soprannominato «lo zelota», ossia appartiene a quel partito incline all’azione violenta che Flavio Giuseppe chiama la «quarta filosofia». Sembra che tra i discepoli di Gesù si possano distinguere due gruppi: quello formato dai tre discepoli (Pietro, Giacomo e Giovanni) che avranno un ruolo importante nella vita pubblica di Gesù, e quello formato dagli altri nove[5]. Lo zoccolo duro dei discepoli di Gesù sono i pescatori. Essi sono uomini importanti, non persone che avrebbero ottenuto il loro status sociale grazie a Gesù.
Simone, un discepolo del Battista
Un altro elemento da segnalare è che Gesù si è procurato i suoi primi discepoli dalla cerchia di Giovanni Battista. Un giovane biblista francese ha scritto recentemente una tesi sul movimento inaugurato da Gesù sullo sfondo di altre scuole e gruppi dell’epoca. È uno studio sulla sociologia degli ebrei dei primi secoli e sul Vangelo di Matteo. L’autore parla dunque di «scuole» in senso ellenistico. Infatti, in quell’epoca ci si riferiva spesso a «sètte» (aireseis), senza che questo termine assumesse il significato peggiorativo che noi gli attribuiamo. A quel tempo, il mondo ebraico era ellenistico, e lo stesso mondo aramaico era fortemente ellenizzato. In questo ambiente ci sono «scuole», che sono luoghi di insegnamento, ma anche di apprendimento di un certo modo di vivere. Lo studioso afferma, in modo un po’ schematico ma suggestivo, che «la scuola di Gesù si radica nella scuola del Battista, è strutturata alla maniera della scuola farisea e ha un modo di vivere vicino a quello della scuola essena»[6]. Questa affermazione ci fa conoscere meglio il movimento inaugurato da Gesù.
Non si può capire Gesù senza Giovanni Battista: è un dato fondamentale. E Gesù condivide questo elemento con Simone, Giacomo e Giovanni. Il Battista aveva riunito i suoi discepoli in un movimento, che continuava a esistere nel I secolo (cfr At 18, a Efeso) e interessava molto Luca e Giovanni. Ma non sembra che egli esercitasse un insegnamento molto importante: infatti, il suo era un insegnamento soprattutto morale e pratico. Gesù, invece, parla e insegna a lungo, e talvolta risponde a domande sulla legge, secondo la prassi dei farisei.
Quali sono i luoghi in cui insegna Gesù? Principalmente tre: la sinagoga; l’ambiente aperto o la strada; la casa. Gesù frequenta la casa di Simone a Cafarnao; insegna ovunque, come pure prega ovunque; e va nella sinagoga per lo Shabbat. Costituisce il suo movimento alla maniera dei farisei e, al tempo stesso, gli conferisce elementi caratteristici anche degli esseni. Sappiamo dai documenti che la comunità essena di Qumran è formata da un gruppo ristretto di persone, che vivono in una sorta di «monastero» e hanno contatti con simpatizzanti dei villaggi vicini. Flavio Giuseppe riferisce che praticano l’ospitalità, condividono rigorosamente i beni e hanno pasti comunitari con una dimensione cultuale. Alcuni si impegnano anche a vivere il celibato. È un movimento che, su questi punti, è vicino a quello di Gesù. Il che però non vuol dire che Gesù abbia soggiornato a Qumran.
Gesù dunque è avviato alla sua attività pubblica dal Battista. Si guarda intorno, e si chiede: «Dove agisce Dio?». La risposta è: «Dio agisce qui e ora in Israele, attraverso il Battista». Nel Vangelo, dopo l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, c’è l’episodio in cui gli viene rivolta questa domanda: «Con quale autorità fai queste cose?». Gesù risponde con un’altra domanda: «Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Se mi rispondete, vi dirò con quale autorità faccio questo». Essi dicono: «Non lo sappiamo». Gesù allora conclude: «Neanche io vi dico con quale autorità faccio queste cose» (cfr Mc 11,28-29). La cosa certa è che Gesù, fino alla fine della sua vita, è rimasto fedele a Giovanni. Lo stesso si può dire di Simone che, prima di iniziare il suo cammino spirituale con Gesù, era già animato dal desiderio della venuta di Dio con potenza per salvare Israele. E questo era un elemento fondamentale del movimento del Battista per prepararsi all’avvento di Dio, qui e ora, in Israele. «La scuola» di Gesù deriva dunque da quella del Battista, dalla quale proviene anche Simone.
Nel Vangelo di Giovanni si dice anche che Gesù battezzava (cfr Gv 4,1). Per questo egli è rimasto in Giudea più di quanto siamo soliti pensare. È stata una scelta letteraria di Marco strutturare il suo Vangelo come una salita di Gesù a Gerusalemme, mentre, secondo il Vangelo di Giovanni, egli vi si è recato più volte per le festività. Oggi si ritiene che, storicamente, Giovanni abbia ragione. Ciò spiega perché Gesù abbia potuto avere discepoli gerosolimitani. Così si giustifica, per esempio, la presenza di Cleofa, che abita non lontano da Gerusalemme; oppure il ruolo di Maria, madre di Marco, la cui casa è a Gerusalemme (cfr At 12,12). Questo è importante anche per la questione di «Giovanni l’anziano», che sarebbe l’antenato della tradizione giovannea[7] e del quale tutto lascia intendere che è di Gerusalemme, conosce la famiglia del sommo sacerdote ecc. Quindi, oltre che in Galilea, Gesù ha potuto avere discepoli anche a Betania e a Gerusalemme, e questa corrente gerosolimitana diventerà importante dopo la sua morte e risurrezione.
Simone diventa Pietro-Cefa
Simone è un uomo che ha ricevuto un nome nuovo, che corrisponde a una missione. È un nome strano, che dovrebbe sorprenderci. «Cefa», infatti, non significa la pietra, ma la «roccia», che è un nome di Dio. La costituzione del nuovo Stato d’Israele da parte di Ben-Gurion nel 1948 fu proclamata nel nome della «roccia d’Israele», come frutto di un compromesso con gli ebrei ortodossi[8]: si tratta di un’espressione metaforica che, per la religione ebraica, designa chiaramente Dio.
Come si può dare a un uomo un nome che è riservato a Dio? Ciò è sorprendente in due sensi. Innanzitutto, in una religiosità monoteista, non si attribuisce un nome di Dio a un uomo. Questo non lo si fa neppure in una prospettiva cristiana, se si tiene presente chi è Gesù, l’autorità che possiede e la radicalità che esige nel seguirlo («un solo maestro, un solo insegnamento, una sola autorità»: cfr Mt 23,8-10). Mentre nelle scuole dei rabbini ci sono tanti maestri e diversità di idee, nella scuola di Gesù c’è un solo maestro autorevole. Pertanto egli è la «roccia». È quindi sorprendente dare a un’altra persona questo nome. C’è stato, e continua a esserci, un vivace dibattito sul significato di questo nome e sulla missione che implica. In primo luogo, per individuare la missione di Simone e stabilire se essa è pre-pasquale o post-pasquale. Con la grande maggioranza degli esegeti attuali, ritengo che la scelta dei Dodici, come pure la missione di Simone, non siano eventi post-pasquali retro-proiettati sul ministero pubblico, ma risalgano al ministero storico di Gesù[9].
Gesù ha dato un nome nuovo a Simone e, a quanto pare, ha fatto ciò solo per lui. È vero che a Giacomo e Giovanni è stato dato il soprannome di Boanèrghes, «i figli del tuono» (cfr Mc 3,17), ma questa espressione viene indicata una sola volta nei Vangeli e senza essere associata a una missione. Quel che è certo è che il passaggio dal nome Simone a quello di Cefa diventa una realtà e viene riconosciuto nella Chiesa, anche da Paolo. Pertanto Simone ha chiaramente una propria autorità. Riceve un nome nuovo aramaico, il che non esclude, tra l’altro, che Gesù, come la maggior parte degli ebrei colti di allora, abbia avuto una qualche conoscenza del greco.
Simone passerà alla storia con questo duplice nome: Simon Pietro. Perché Gesù l’ha chiamato così? Alla base di questo suo gesto c’è la convinzione che tutti gli uomini sono «figli di Dio», fin dalla creazione[10]. Spesso si vede in Gesù soprattutto un profeta escatologico, un uomo orientato alla fine dei tempi, alla venuta del Regno. Questo non è sbagliato, ma così si dimentica che buona parte delle parabole di Gesù, dei suoi princìpi etici e delle sue esigenze religiose deriva dal fatto che egli crede nella teologia della creazione. Gesù ha una visione antropologica «ottimista»: l’uomo è capace di imitare Dio, in quanto è stato creato da Lui. «Abba», «padre», lo possono dire tutti.
Gesù si presenta come «Figlio dell’uomo», e questo nome è sorprendente. In Mt 16 egli chiede ai discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Che cosa significa «Figlio dell’uomo»? Questa è una domanda che continua ad appassionare e a dividere gli studiosi. Si pone la questione di come Gesù abbia concepito la sua missione. L’ha concepita mettendo in relazione tra loro tre espressioni tratte dalla Scrittura: Figlio dell’uomo, servo sofferente e Messia[11]. Un legame, questo, che non era affatto evidente nella Scrittura.
Con quale operazione ermeneutica, teologico-spirituale, Gesù ha pensato ed elaborato questa idea del «Figlio dell’uomo»? Egli afferma in sostanza: «Si possono dare agli uomini nomi riservati a Dio, perché lo dice lui stesso: “Voi siete dèi” (cfr Gv 10,34)». L’espressione «Figlio dell’uomo» può designare chiunque – qualsiasi essere umano – o, come in Daniele, qualcuno a cui sarà dato il trono e cavalcherà sulle nubi del cielo (cfr Dn 7,13-14). Se uno cavalca sulle nubi del cielo, ha uno status quasi divino. Quindi, «Figlio dell’uomo» può essere, da una parte, una persona qualunque e, dall’altra, una persona che possiede uno status quasi divino.
A questa considerazione dobbiamo aggiungerne un’altra: lo stile di Gesù è uno «stile di discrezione». Egli parla per mezzo di parabole, il che richiede spiegazioni, e non si può essere mai sicuri di aver capito bene. Diversamente dalle affermazioni categoriche delle autorità giuridiche o politiche, quelle di Gesù non si impongono, ma lasciano spazio per il discernimento. I re e i sommi sacerdoti parlano in modo inequivocabile, e non con racconti parabolici. La parabola è una parola che viene indirizzata dal debole al forte, come nel caso di Natan che si rivolge a Davide dopo l’uccisione di Uria (cfr 2 Sam 12,1-15). Gesù chiede un’adesione spirituale, un riconoscimento libero. Invita ad aprire le orecchie, non a umiliare il proprio giudizio.
L’apologeta inglese Clive Staples Lewis ha detto, in sostanza, che il Messia non è un uomo che si fa passare per il Messia, perché in questo caso dovrebbe essere rinchiuso in un manicomio, ma è colui che lo è realmente. Nel Vangelo, Gesù afferma: «Riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono» (Mt 11,5). Di fronte a queste parole di Gesù, si deve prendere una decisione. A Cesarea di Filippo, Gesù pone la domanda: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Non è che egli non sappia chi sia, o abbia dei dubbi sulla propria identità. Ma un «vero Messia» è qualcuno che è riconosciuto tale anche dagli altri, non una persona che semplicemente afferma di esserlo. Gli apostoli «risposero: “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù gli disse: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato [quindi, non gliel’ha rivelato il suo padre terreno, che forse si chiamava Giovanni, perché non è questo padre che conta], ma il Padre mio che è nei cieli [gliel’ha rivelato tramite Giona, ossia la colomba, o lo Spirito Santo]. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”» (Mt 16,14-18). Questo episodio in cui Simone si fa portavoce dei Dodici per esprimere la sua fede nella messianicità di Gesù costituirà chiaramente, assieme alla sua visione personale del Risorto (cfr Lc 24,34), il fondamento del suo singolare ruolo apostolico.
Simone pescatore di uomini
«Vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1,17), dice Gesù ai primi chiamati. È un’espressione interessante, ma anche scandalosa, al punto che i Padri della Chiesa hanno evitato di citarla per tre secoli, perché il pescatore «inganna per uccidere»: «Fishing is, simply put, never good for the fish!»[12]. Il pescatore inganna con ami, esche, e poi uccide. Paragonare la missione evangelica, la missione che consiste nel dare la vita, al lavoro di un pescatore per molto tempo è stato inaccettabile per i cristiani. Matteo e Marco usano questa espressione, e gli analisti letterari di oggi potranno dire: è una mise en abyme. Nel momento in cui Gesù, in riva al lago, dice a Simone e Andrea: «Vi farò pescatori di uomini», enuncia esattamente quello che sta facendo: non inganna, ma dice la verità; non uccide, ma salva. Questo presuppone una doppia operazione di trasformazione del significato ovvio delle parole. Lo stesso poi avverrà con Giacomo e Giovanni, compagni di Simone (cfr Mc 1,19-20).
Luca si tirerà indietro di fronte all’espressione, e possiamo capire il perché. A Simone Gesù dice: «Non temere [espressione divina per eccellenza!]; d’ora in poi catturerai vivi degli uomini» (Lc 5,10). Luca usa qui il verbo zōgraō che, in 12 secoli di letteratura, è stato poco usato in greco. Questo verbo, utilizzato da Omero, si trova anche nella traduzione dei Settanta e significa, per un signore della guerra, catturare prigionieri e lasciarli vivere. Possiamo allora capire l’imbarazzo dell’evangelista. Quando una parola di Gesù è così sorprendente e scioccante, è molto probabile che sia stata detta proprio da lui.
Nella Bibbia, l’immagine di colui che cattura gli uomini nella rete è riferita a Satana, come appare sia in Giobbe sia nei profeti. Coloro che usano l’amo, lo fanno per i nemici di Israele, lo fanno per il Leviatano. Luca ha cambiato l’espressione – «pescatore di uomini» –, ma ha cercato di mantenerne il significato. È un’immagine scioccante, paradossale, ma dice qualcosa di Gesù, del suo stile. Egli è un uomo che attira a sé senza inganno, senza fare promesse, senza demagogia. Non dice forse a Natanaele che è un uomo senza inganno, un uomo come lui (cfr Gv 1,47)? Gesù pesca con il suo carisma, con la parola di Dio che annuncia, ma senza gettare le reti. Quel momento verrà, ma più tardi. Che cosa significa allora essere missionario? Come si pescano gli uomini? Cosa si deve fare? Fin dove si può arrivare?
Simone poi sarà presente in tutto il Nuovo Testamento, diventerà un apostolo con lo stile di Gesù, pur rimanendo in contatto con gli altri. Rifiuterà l’esclusivismo. Per esempio, si farà da parte a Gerusalemme, lasciando il posto di guida a Giacomo. Si metterà in secondo piano anche in At 15. Fondamentalmente, lo scopo principale degli Atti degli Apostoli è mostrare che Pietro e Paolo combattono la stessa battaglia, sono inseparabili. Quindi, verso il 95/100 d.C., Luca sa di non poter fare a meno di Cefa. Simon Pietro è un uomo aperto al compromesso: questa è la sua qualità fondamentale, ed è anche la ragione del suo conflitto con Paolo.
Cefa, l’uomo della comunione
La domanda fondamentale dei cristiani del I secolo è: chi può avere il titolo di apostolo? Chi ha la legittimità per essere considerato tale? È la questione istituzionale che divide i credenti, così come li dividono i rituali (regole alimentari, circoncisione ecc.). Non ci si divide sulla Trinità o sullo Spirito Santo: ci si divide sulla liturgia, sui riti, e ci si contrappone su questioni di primato e autorità.
Chiaramente qui sono presenti diverse logiche. Sembra abbastanza logico che un apostolo debba aver avuto un’apparizione di Gesù risorto. E in questo senso i Dodici possono rivendicare a sé il titolo di apostoli. Ma c’è il problema che essi sono diventati undici. È a questo punto che Luca introduce Mattia. In letteratura, questa viene chiamata «la legge dei primi effetti»: un personaggio introdotto con cura all’inizio di una storia deve, a priori, avere un ruolo in ciò che seguirà. Ma questo si verifica poi per Mattia? Chi lo conosce? Chi lo sceglie? E dopo questo episodio, egli non avrà alcun ruolo! La sua scelta è un modo per onorare i Dodici. Alla fine del suo Vangelo, Matteo è molto onesto (cfr Mt 28,16): parla degli «undici discepoli», mentre poco prima aveva scritto che i Dodici si sarebbero seduti su dodici troni (cfr Mt 19,28). Chi siederà quindi sul dodicesimo trono?
Secondo una schematizzazione alquanto sommaria, ma eloquente, nel I secolo ci sarebbero stati quattro gruppi principali di cristiani: i petriniani, ossia i galilei, coloro che hanno seguito Gesù fin dalla Galilea; i giacobiti, ossia il gruppo di Giacomo, «fratello del Signore», anch’essi galilei, giudeo-cristiani, che hanno una legittimità familiare; il gruppo di Cleofa, ossia il gruppo dei giudeo-cristiani di Giudea; e poi i paolini e i giovannei, che costituiscono le Chiese dell’Asia Minore fondate da Paolo e da Giovanni l’anziano. Nel Vangelo di Luca, questo ci fa capire che non ci sono soltanto i Dodici. Essi vengono messi in risalto nella Scrittura, ma a volte si ha l’impressione che ci siano anche altri apostoli. Si procede sul filo di tale ambiguità. In Gv 21, per esempio, sulla riva del lago, ci sono soltanto sette apostoli: Simon Pietro, Tommaso, Natanaele, Giacomo e Giovanni e altri due discepoli. Ma Natanaele era scomparso dopo l’incontro iniziale con Gesù (cfr Gv 1,45-51): ebbene, perché qui è presente lui, che non è uno dei Dodici? Lo stesso avviene, nell’episodio dei due discepoli di Emmaus in Lc 24, dove troviamo Cleofa, che non era mai comparso prima, né comparirà dopo. Questo, per Luca e Giovanni, è un modo di affermare, in definitiva: «Ci sono altre persone oltre ai Dodici che hanno visto Gesù. Non potete limitare la legittimità apostolica ai soli galilei, che tra l’altro sono undici».
Noi pensiamo che, in fondo, uno degli uomini che più ha contribuito a creare il legame tra queste correnti e gli apostoli sia stato proprio Simon Pietro. Egli è stato un polo di unità ecclesiale, come si può constatare nelle sue lettere, che sono tardive. Nella lettera ai Galati, Paolo si sente attaccato nella sua legittimità apostolica da missionari itineranti, che sostengono che è necessario essere circoncisi. I galati sono impressionati da loro, e Paolo rivendica la sua posizione di apostolo, affermando: «Il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1,11-12). Nella prima lettera ai Corinzi, due anni dopo, l’Apostolo dirà: «A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1 Cor 15,3), chiaramente non sulla via di Damasco, ma dalla Chiesa. Allora Paolo da chi ha ricevuto il Vangelo? Da una parte, egli insiste sul fatto di averlo ricevuto «senza mediazione», ossia sull’aspetto, potremmo dire oggi, «protestante» della sua chiamata, e afferma: «Quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti [la stessa espressione di Mt 16], subito, senza consultare la carne e il sangue, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco» (Gal 1,15-17). D’altra parte, egli dichiara: «In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni» (Gal 1,18). «Quindici giorni» vuol dire aver avuto tempo per parlare con lui. Ma «quindici giorni» non sono sufficienti per Paolo per essere «catechizzato» da Pietro. Egli poi continua: «Degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo» (Gal 1,19). Per Paolo, se Cefa e le autorità di Gerusalemme non gli danno la mano destra, vuol dire che non riconoscono la sua missione; se i cristiani galati di origine pagana vengono considerati cristiani di seconda classe e non vengono riconosciuti, allora la sua missione «sarà stata vana». Questa affermazione è molto forte: significa che Paolo è convinto che deve assolutamente rimanere in comunione con Cefa. Questo è l’aspetto, per così dire, «cattolico» di Paolo, dopo quello «protestante». È in fondo l’esperienza che facciamo tutti noi. Tutti abbiamo ricevuto o imparato il Vangelo da qualcun altro. Ma non è questo che conta: ciò che conta è il momento in cui ci siamo impegnati in prima persona. Il Vangelo lo si riceve sempre dagli uomini, ma in definitiva da Dio. Il Vangelo passa attraverso i volti concreti e la carne, ma in definitiva proviene dallo Spirito.
Così, conclude Paolo, «riconoscendo la grazia a me data, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la destra» (Gal 2,9). Questo è l’accordo fondamentale di Gerusalemme, raccontato in At 15: si tratta di un testo che è stato ispirato a Luca; un testo più teologico, scritto 50 anni dopo. Non c’è nessun motivo di dubitare della parola di Paolo. L’importante è che Cefa il galileo abbia riconosciuto la chiamata apostolica di Paolo, sapendo che egli non era a Gerusalemme al momento della risurrezione di Gesù, non era in Galilea, non aveva fatto esperienza di Gesù in carne e ossa. Cefa riconosce che Paolo ha ricevuto un carisma, sebbene altri cristiani glielo negheranno per molto tempo. A partire da qui, tutta l’opera di Luca intende giustificare lo status apostolico di Paolo.
C’era però una difficoltà per tale giustificazione: le apparizioni del Risorto. Esse erano chiaramente viste come limitate nel tempo, essendo avvenute pochi giorni dopo la crocifissione. Pertanto l’«evento di Damasco» poteva essere considerato un’apparizione del Risorto? Conoscendo gli scritti di Luca, si potrebbe pensare: «Ma non c’era stata già l’ascensione, quaranta giorni dopo la risurrezione?». Come può Luca, il discepolo di Paolo, sminuire così l’apparizione che il suo maestro dice chiaramente di aver avuto (cfr 1 Cor 9,1: «Non ho veduto Gesù, Signore nostro?»)? Quindi, per Luca c’è un’eccezione: il vero dodicesimo apostolo non è Mattia, ma Paolo. Ma dopo l’ultima apparizione di Gesù a Paolo, si verificheranno soltanto esperienze mistiche. Teresa d’Ávila, ad esempio, non ha avuto un’«apparizione» di Gesù risorto: la sua visione di Gesù è di altro genere. Quindi, di per sé, Paolo non dovrebbe essere qualificato come apostolo: non conosceva Gesù, e il suo incontro con Cristo è avvenuto tre anni dopo la risurrezione. A questo proposito, Joseph Ratzinger afferma, in sostanza: «È l’eccezione che conferma la regola!»[13]. E Christoph Theobald: «È un’eccezione che è voluta da Dio affinché non si dica: “Ah, se fossimo stati tra gli apostoli, se avessimo pescato in riva al lago con Gesù, mangiato e bevuto con lui, crederemmo più facilmente”». Gli apostoli, come noi, hanno dovuto fare un atto di fede, e Paolo è l’anello di congiunzione fra noi e il gruppo dei Dodici. Egli è come noi, in quanto non ha conosciuto Gesù, è arrivato dopo; ma, al tempo stesso, non è come noi, perché è uno degli apostoli, quale nessuno sarà dopo di lui. Paolo così ci fa capire che si può essere apostoli senza aver conosciuto Gesù in carne e ossa.
Ma anche l’accordo siglato a Gerusalemme troverà un ostacolo: il contrasto tra Paolo e Pietro ad Antiochia (cfr Gal 2,11-14). Paolo rimprovera apertamente Pietro: «Tu, Cefa, per amore di Gesù, a causa dell’evangelizzazione mangi con i pagani; ma, se quando arrivo io ti ritiri, lasci intendere che questo sarebbe peccato. Quindi Gesù farebbe di te un peccatore. È incredibile!». Il ragionamento è semplice: «Se vado a mangiare con i pagani e non pongo domande sul cibo in nome del Vangelo, non pecco, perché quello che faccio, lo faccio nel nome del Vangelo». L’argomento di Paolo è molto forte. Ora si può considerare il gesto di Cefa come espressione del suo desiderio di comunione, e quindi di compromesso, con i giacobiti.
La chiamata di Simone radicata nella preghiera di Gesù
Il primato di Cefa, basato sulla sua confessione di fede a Cesarea, si trova proprio nel centro del Vangelo di Marco, poco prima della trasfigurazione di Gesù. Anche Matteo fonda il ruolo e l’autorità di Cefa in Galilea nel momento della confessione di Cesarea, con le famose parole di Gesù: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Ma perché Gesù decide di porre la domanda sulla propria identità in questo luogo? Cesarea di Filippo somiglia a Delfi, ossia è una città essenzialmente pagana. Ci si chiede perché Gesù si sia recato lì. Cafarnao non è certo un posto in cui un ebreo si senta a suo agio. Ebbene, proprio questo è il luogo in cui Gesù potrà parlare tranquillamente ai Dodici, non dovendo subire la pressione della folla. Questo è uno dei momenti in cui egli cerca la tranquillità. Si reca lì per porre la sua domanda, e Pietro, come portavoce, formula la risposta del gruppo.
Sorprendentemente, Luca minimizza l’episodio di Cesarea, mentre rimanda il momento della parola speciale di Gesù a Simon Pietro alla fine, a Gerusalemme. Qui racconta che, al momento della passione, Simone ha abbandonato Gesù, la sua fede è venuta meno. Questo è preoccupante, perché Simone era stato scelto in quanto affidabile, coraggioso; ma in fondo egli non è migliore degli altri. Luca però riferisce, al capitolo 22, le parole di Gesù a Pietro: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32). Nel Nuovo Testamento, questa duplice chiamata da parte di Gesù, oltre che a Simone, viene rivolta a Paolo e a Marta. Rashi, commentando Gen 22, dice: «Quando è scritto: “Abramo, Abramo”, è un segno di amore e tenerezza». È straordinario il modo in cui il Gesù di Luca fonda il primato di Pietro: non nel momento trionfante e sereno di Cesarea, ma nella preghiera del Getsemani, nel momento della prova. Pietro inciampa, ma non cade del tutto (cfr Rm 11). Con un’intuizione geniale, Luca fonda il primato di Cefa in questa preghiera di Gesù al Getsemani[14].
Testimone del Risorto (Gv 21)
La scena in riva al lago in Gv 21 è straordinaria. C’è una pesca, è l’umanità; la rete non si strappa, perché Dio la mantiene unita, nonostante la grande quantità di pesci raccolta. I protagonisti sono Gesù e i sette discepoli. Tutto è luminoso, limpido, semplice. Ma ci sono dei dettagli sorprendenti. Perché si deve gettare la rete a destra della barca? Chi sono i due discepoli senza nome? Prima di buttarsi in acqua, Pietro si veste. Gesù chiede dei pesci ai «figlioli», ma poi ci si accorge che egli ne aveva già. L’evangelista usa due termini distinti per indicare il «pesce». Per quanto riguarda il numero di pesci, 153, il professore di ebraico anglicano John Emerton ha avanzato l’ipotesi che si tratti di una gematria, ossia di una trasposizione delle lettere in numeri. Oppure sarebbe la somma delle prime 17 cifre (1+2+3+4… =153). Questo disegna un triangolo, di cui ogni lato comporta 17 punti. Oppure nel numero 153 si può vedere un riferimento al passo di Ez 47, dove l’acqua scaturisce dal lato destro del Tempio e va a risanare il Mar Morto, dando origine a un’abbondanza di pesci (il termine ebraico hadagah, «il pesce», ha il valore numerico di 17). L’acqua poi va da Ein-Gedi (Engaddi), la sponda ebraica del Mar Morto (dove Geddi ha il valore numerico di 17, come «il pesce») a Ein-Eynaim (En-Eglaim), la sponda pagana del Mar Morto (dove Eynaim ha valore numerico di 153). In definitiva, si tratta di un numero in qualche modo «ecumenico», che significa che la Chiesa, sotto la guida di Pietro e degli apostoli, unisce tutti gli ebrei e i pagani in una sola rete, in un solo corpo[15]. Con questa velata allusione alla profezia di Ezechiele, Giovanni mostra che è attraverso Gesù che si compie la visione profetica secondo la quale ebrei e pagani si riuniranno.
Conclusione
Cos’è che costituisce l’unità del Nuovo Testamento? Senza dubbio Gesù[16]; ma poi è Pietro che rappresenta una figura centrale, sia nella tradizione giovannea, sia in quella paolina, sia in quella petrina. Quindi, questo testimone del Risorto, assieme a Maria Maddalena, Giovanna, Susanna e le altre donne, è un personaggio «ponte» tra Paolo e Giacomo, tra i giudei e i galilei, tra i giudei della terra d’Israele e i credenti del mondo ellenistico. Proviene dalla prima cerchia dei discepoli di Gesù, ma si apre alla seconda; annuncia il Vangelo in terra d’Israele, ma muore a Roma. Egli è rimasto al servizio della comunione, pur con i suoi errori, e questo è ciò che fa la sua grandezza. Si è impegnato per l’unità, e questo è ciò che lo rende un personaggio così avvincente e fondamentale.
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[1]. Cfr F. D. Troche, Il sistema della pesca nel lago di Galilea al tempo di Gesù. Indagine sulla base dei papiri documentari e dei dati archeologici e letterari (tesi discussa nel 2015 all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna); S. De Luca, «Scoperte archeologiche recenti attorno al Lago di Galilea: contributo allo studio dell’ambiente del Nuovo Testamento e del Gesù storico», in G. Paximadi – M. Fidanzio (edd.), Terra Sancta: archeologia ed esegesi. Atti dei convegni 2008-2010, Lugano, Eupress – FTL, 2013.
[2]. Cfr Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, III, X. 9.
[3]. Cfr Sh. L. Mattila, «Revisiting Jesus’ Capernaum: A Village of Only Subsistence Level Fishers and Farmers?», in D. A. Fiensy – R. K. Hawkins (edd.), The Galilean Economy in the Time of Jesus, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2013, 75-138.
[4]. S. Veronesi, Non dirlo. Il Vangelo di Marco, Milano, Bompiani, 2015.
[5]. Cfr J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. 3. Compagni e antagonisti, Brescia, Queriniana, 2018.
[6]. A. de Boudemange, L’ école de Jésus dans l’évangile de Matthieu (tesi discussa nel 2021 al Centre Sèvres di Parigi, in corso di pubblicazione).
[7]. Secondo la tradizione dello storico cristiano Papia, ripresa da Eusebio di Cesarea.
[8]. «Placing our trust in the Rock of Israel (Tzur Yisrael), we affix our signatures to this proclamation» (14 maggio 1948). Cfr 2 Sam 23,3.
[9] . Ciò che colpisce è che nel Vangelo Gesù continuerà a chiamare Simone con il suo nome di circoncisione, come a indicare che «Cefa» è un nome per il futuro, un nome per la missione.
[10]. Cfr M. Rastoin, «Jésus: Un “Fils de l’Homme” tourné vers les “Fils de Dieu”. Un nouveau regard sur Mt 11,27 et Lc 10,22», in New Testament Studies 63 (2017) 355-369.
[11]. Cfr Id., «La cristologia del Figlio dell’uomo», in Civ. Catt. 2021 IV 434-446.
[12]. Ch. M. Anderson, Wasted Evangelism. Social Action and the Church’s Task of Evangelism. A Journey in the Gospel of Mark, Eugene, OR, Wipf & Stock, 2013, 82.
[13]. Cfr J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. Seconda parte. Dall’ingresso a Gerusalemme alla Risurrezione, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2011.
[14]. Cfr M. Rastoin, «Simon-Pierre entre Jésus et Satan: la théologie lucanienne à l’œuvre en Lc 22,31-32», in Biblica 89 (2008) 153-172.
[15]. Cfr Id., «Encore une fois les 153 poissons (Jn 21,11)», in Biblica 90 (2009) 84-92.
[16]. Cfr J.-N. Aletti, Gesù Cristo: l’unità del Nuovo Testamento?, Roma, Borla, 1995.
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