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Per secoli, e dal tempo della stesura dei Vangeli, i cristiani hanno cercato di esprimere come il mistero di Dio si manifestava nella persona di Gesù, che essi riconoscevano come Cristo, e come Gesù, volto perfettamente somigliante al Padre, rivelava la natura intima di Dio, il Dio unico d’Israele. Questo non era un compito facile, in quanto mancavano parole e concetti. Come mantenere la sostanza della fede monoteista, pur riconoscendo una forma di complessità all’interno stesso della divinità? Come mantenere l’affermazione della perfetta umanità di Gesù – «egli ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana», dice la Preghiera eucaristica IV –, senza per questo indebolire la confessione della sua divinità?
Questo delicato lavoro teologico era – e continua a essere – indispensabile e fondamentale. Pur restando fedele ai Concili e alla tradizione della Chiesa, ciascuna generazione cristiana ha il compito di esprimere con parole proprie, nel proprio contesto culturale, la sostanza della fede cristiana: Dio ha rivelato l’essenza del suo essere, si è comunicato perfettamente e totalmente nella persona di Gesù di Nazaret. Per non ripetere, senza troppo comprenderle, formule sempre più antiche, dobbiamo ribadire in continuazione la meraviglia che proviamo di fronte al mistero – in fondo inesprimibile, ma che dobbiamo cercare di tradurre in parole il meno goffamente possibile – di Gesù Cristo.
Molti sono gli approcci e i procedimenti possibili. A noi sembra che, per affrontare tale compito, occorra sempre ripartire dall’uomo Gesù, dall’evento Cristo. E non solo da quello che egli era, ma anche da come egli stesso si comprendeva con le sue parole e i suoi riferimenti. Dobbiamo ripartire dalla cristologia di Gesù.
Gesù, un ebreo praticante
Gesù ha pensato la propria identità a partire dalle risorse che erano a sua disposizione nell’ambito della sua fede e del suo contesto culturale, il pio giudaismo galileo di lingua aramaica. Un giudaismo ricco di tradizioni e pratiche rituali, che disponeva […]