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Pontificato

Condonare il debito dei paesi insolvibili: scandalo o buonsenso?

Gaël Giraud, Kako Nubukpo, Hubert Rodarie

6 Febbraio 2025

Quaderno 4190

Kakuma Refugee Camp, Kenya. (Christian Fuchs - Jesuit Refugee Service)

Il 9 maggio 2024 papa Francesco ha pubblicato la bolla Spes non confundit (SnC), in cui annuncia l’avvio del Giubileo 2025 e ne definisce i principali orientamenti spirituali e pastorali. Il 2025 è anche l’ottocentesimo anniversario della stesura del Cantico delle Creature da parte di san Francesco d’Assisi. Il canto del poverello, che chiama il sole «fratello» e la luna «sorella», suona come un appello a una fratellanza universale di cui la Chiesa intende tracciare il cammino con l’Anno giubilare.

Per Francesco, questa coincidenza nel calendario è il richiamo a un’urgenza: raccogliere, finalmente, le enormi sfide poste dalla necessità di ridurre drasticamente gli effetti nocivi dell’attività umana sull’ambiente. Bisogna infatti riconoscere che le forti raccomandazioni dell’enciclica del 2015 Laudato si’ (LS) sono state finora poco seguite, così come l’Accordo di Parigi, siglato lo stesso anno, o i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, pubblicati dalle Nazioni Unite sempre nel 2015. È in questo contesto che il Papa ha invitato le «Nazioni più benestanti» a «condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli» (SnC 16). Questo invito, sebbene echeggi certamente la più antica tradizione biblica (cfr Es 23,10-11) e le azioni di successo di san Giovanni Paolo II negli anni Novanta del secolo scorso[1], non manca di sollevare interrogativi nel mondo degli affari: è ragionevole cancellare i debiti contratti dagli Stati? Chi lavora duro per ripagare i propri debiti o prestare i propri risparmi non sarebbe vittima di un’ingiustizia intollerabile? È solo un pio desiderio che confonde la carità individuale del cuore con le sane logiche finanziarie internazionali?

Cercheremo di mostrare che, se ben concepita, si tratta al contrario di una soluzione ragionevole per rispondere alle gigantesche sfide ambientali, economiche, finanziarie e sociali che ci riguardano. Sforziamoci di capire questo paradosso, che si scontra in pieno con l’apparente buonsenso di una gestione da «padre di famiglia», a noi così consueta.

Il contesto ambientale ed ecclesiale

Le emissioni globali di carbonio provenienti da combustibili fossili hanno raggiunto livelli record nel 2024[2]. Ormai da diversi anni le proiezioni stimano che la soglia di +1,5oC di aumento della temperatura media sulla superficie terrestre sarà raggiunta, quasi di sicuro, nel decennio 2030-2040, e che sarà difficilissimo non varcare la soglia di +2oC al più tardi entro la metà del secolo. Il costo dell’inazione promette di essere devastante, come mostra il rapporto del Gruppo svizzero Swiss Re, uno dei principali fornitori mondiali di riassicurazione[3]. Secondo le stime, nel più ottimistico degli scenari, dal 2050 l’economia mondiale perderà ogni anno almeno l’11% del Pil rispetto alla ricchezza che produrrebbe in assenza di riscaldamento globale. Nel peggiore dei casi, la perdita di produzione di valore economico scenderebbe al -18,1%. Per la cronaca, secondo la Banca mondiale, il Covid-19 ha provocato una caduta del Pil globale del -5,2% nel 2020[4], che ha rappresentato, di fatto, la più forte recessione planetaria dalla Seconda guerra mondiale. L’inazione climatica costerebbe dunque verosimilmente, ogni anno, il doppio, se non il triplo, della pandemia.

È dunque a ragione che, dal 2015, papa Francesco torna a più riprese sull’imperativo ecologico: nel febbraio 2020, l’esortazione apostolica Querida Amazonia ricordava l’importanza del biotopo amazzonico e delle popolazioni autoctone che ci vivono per il nostro apprendimento globale di un rapporto rispettoso con il creato. Il 3 ottobre dello stesso anno, il capitolo V dell’enciclica Fratelli tutti (FT) metteva in discussione un corpus di idee definito «dogma di fede neoliberale», evidenziando in particolare la cosiddetta tesi del «gocciolamento», il quale correggerebbe in automatico l’inequità che dispositivi e organizzazioni che derivano da questo corpus infliggono ai corpi sociali e al Pianeta (FT 168). Tuttavia, la tesi del «gocciolamento» – la quale sostiene che i profitti realizzati dai più benestanti (proprietari del capitale e beneficiari dei dividendi che esso produce) vanno a profitto di tutti – è stata più volte decostruita[5]. Infine, nell’ottobre 2023, l’esortazione Laudate Deum (LD) sottolineava che la dimensione politica e internazionale della lotta contro il riscaldamento climatico è essenziale.

È in questo contesto che possiamo abbordare il paragrafo 16 della bolla Spes non confundit, in cui Francesco invoca il condono dei debiti di quei «Paesi che mai potrebbero ripagarli». Il passaggio è stato nuovamente citato dal Segretario di Stato della Santa Sede, Pietro Parolin, nel corso del suo intervento, a nome di papa Francesco, alla Cop29 di Baku, il 13 novembre 2024. Infine, lo stesso Papa lo ha ripreso con fermezza nel suo messaggio per la LVIII Giornata Mondiale della Pace, il 1° gennaio 2025, in diversi interventi in occasione dell’inizio dell’Anno giubilare e nel discorso del 9 gennaio 2025 al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.

Cancellare i debiti di Stato: qual è la posta in gioco?

Quando si indebita, uno Stato sovrano emette Buoni del Tesoro che, il più delle volte – questo vale soprattutto per i Paesi del Sud del mondo –, vengono sottoscritti da istituti bancari. Ciò significa che una banca accorda un prestito a uno Stato in cambio di un riconoscimento di debito pubblico. È fondamentale capire che, accordando il prestito, la banca crea moneta ex nihilo. Infatti, è solo attraverso il meccanismo del credito bancario che si crea moneta nelle nostre economie. Questo non vale soltanto per i prestiti concessi dalle banche agli Stati: quando una banca vi accorda un prestito, la maggior parte del denaro prestato non esisteva prima che firmaste il contratto di prestito, come confermato dal Fmi, dalla Banca centrale d’Inghilterra, dalla Federal Reserve di New York, dalla Banca centrale europea e dalla Banca dei regolamenti internazionali (la Banca centrale delle banche centrali)[6].

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La concessione di un prestito si effettua tramite una semplice operazione di scrittura (digitale)[7]. Anche il rimborso si effettua tramite un’operazione di scrittura e implica la scomparsa della moneta creata al momento del prestito. Cancellare un debito significa dunque lasciare che continui a circolare sotto forma monetaria, anziché scomparire nel bilancio della banca erogatrice del prestito iniziale[8]. Chi è penalizzato in tal caso? Il settore bancario ci rimette, perché non incasserà i profitti che contava di accumulare (tramite il pagamento degli interessi). Questo non è un fatto trascurabile, tutt’altro, ma non è paragonabile alla spoliazione di una famiglia i cui risparmi vengano «rubati» da uno Stato senza denaro. Per di più, papa Francesco si è dato cura di precisare che la cancellazione dei debiti dovrebbe riguardare quei Paesi «che mai potrebbero ripagarli» (SnC 16). Per quei Paesi, una gestione oculata da parte della banca creditrice dovrebbe constatare che, in ogni caso, la banca non recupererà il capitale prestato, ma solo una parte degli interessi.

In concreto, la situazione si complica per diverse ragioni. In primo luogo, il debito di molti Paesi del Sud è denominato in valuta estera (spesso il dollaro americano). La cancellazione può quindi avere ripercussioni difficili da anticipare sui tassi di cambio della valuta del Paese prestatario e di quella in cui il debito è denominato. Tuttavia, tali ripercussioni possono anche rivelarsi benefiche se la ristrutturazione del debito permette di ricostruire la fiducia nella capacità di un Paese di far fronte alle proprie obbligazioni future.

In secondo luogo, anche gli investitori istituzionali (fondi pensione, compagnie assicurative, fondi comuni d’investimento…) si fanno talvolta prestatori. Quelli che non hanno una licenza bancaria non creano moneta, ma prestano denaro altrui.

La situazione viene complicata ulteriormente dal fatto che i Buoni del Tesoro fungono spesso da collaterale per diverse operazioni finanziarie, come i pronti contro termine (repurchase agreements o Repo), i derivati di ogni tipo e i prestiti interbancari. Talora, uno stesso Buono del Tesoro è riutilizzato più volte come collaterale (cioè come garanzia, a mo’ di ipoteca) per diverse transazioni. I Buoni del Tesoro costituiscono dunque la spina dorsale del sistema finanziario globale e garantiscono la fiducia in un gran numero di mercati. La cancellazione del debito pubblico può quindi talvolta rappresentare un pericolo per la stabilità dei mercati finanziari stessi. Tuttavia, questa difficoltà non riguarda nessuno dei Paesi fragili considerati dal Papa.

Infine, la situazione è resa ancor più complessa dal fatto che alcuni investitori finanziari detengono derivati su titoli di debito pubblico: per esempio, un comune strumento di copertura sono i Credit default swaps (Cds). Essi rischiano di perdere molto, se parte del debito viene cancellata. Alcuni Paesi hanno visto le proprie obbligazioni di Stato associate a Cds e a manovre di re-ipoteca. Comunque, la soluzione consiste nel regolamentare il mercato dei derivati sul debito pubblico (swaptions, cross-currency swaps, Cds, Irs ecc.) o nel proibire la re-ipoteca, piuttosto che nel vietare la rinegoziazione del debito dei Paesi insolvibili.

Chi può ripagare?

Ricordiamo innanzitutto che, da oltre 30 anni, episodi di default sul debito pubblico si verificano in media ogni due anni. Il mancato rimborso del debito pubblico non è affatto un fenomeno eccezionale: fa quasi parte della routine finanziaria internazionale.

Oggi, secondo il Fmi, il debito pubblico mondiale ammonta a circa 100.000 miliardi di dollari – ovvero l’equivalente del Pil mondiale –, di cui un buon terzo riguarda i Paesi un tempo chiamati «in via di sviluppo». L’importo complessivo del debito pubblico estero dei Paesi a basso e medio reddito è raddoppiato tra il 2010 e il 2021, raggiungendo i 3.000 miliardi di dollari[9]. Secondo la Banca mondiale, nel 2022 i Paesi cosiddetti «in via di sviluppo» hanno destinato la cifra record di 443,5 miliardi di dollari al servizio del loro debito pubblico estero e dei debiti garantiti dallo Stato[10]. Nello stesso anno, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), le sovvenzioni pubbliche per lo sviluppo globale hanno raggiunto circa 204 miliardi di dollari. Il flusso monetario netto è quindi, al giorno d’oggi, quello di un Sud che finanzia il Nord del mondo[11].

Nella realtà dei fatti, quasi nessuno Stato sovrano ripaga davvero il proprio debito: lo rifinanzia, ovvero ripaga un debito arrivato a scadenza negoziando un nuovo prestito dello stesso importo. In linea di principio, uno Stato può continuare a rifinanziare il proprio debito all’infinito[12], finché riesce a ottenere prestiti a tassi d’interesse favorevoli. Di fatto, ciò a cui non può sottrarsi è il pagamento degli interessi. D’altronde, è dal solo pagamento degli interessi che i creditori traggono profitto (e non dal rimborso del capitale). Il rifinanziamento del debito è quindi un «buon affare» per i prestatori: consente di prolungare il pagamento degli interessi. Gli Stati non sono i soli a ricorrervi: anche molte imprese lo fanno, nonché alcuni privati. Ma tale pratica comporta pure un ricatto sul rimborso del debito che, potenzialmente, può non avere mai fine, giustificando tagli di bilancio e lo smantellamento del servizio pubblico. Per contro, la Romania di Ceauşescu è, assieme alla Norvegia dei primi anni Duemila, uno dei pochissimi Paesi moderni ad aver ripagato interamente il proprio debito estero: a prezzo del collasso economico nel caso di Bucarest, grazie alla manna petrolifera in quello di Oslo.

Ciò che conta davvero è la capacità di uno Stato di soddisfare il servizio del proprio debito. Oltre al ruolo svolto dalla valuta in cui è denominato un debito pubblico, un buon indicatore della solvibilità è dato perciò dal rapporto tra il servizio del debito e le entrate annuali del bilancio (due flussi). Il rapporto è inferiore al 10% per quasi tutti i Paesi occidentali e superiore al 15% per tutti i Paesi del Sud attualmente in difficoltà, con una media del 38%, cifra che sale al 54% in Africa[13], dove si spende di più, in media, per gli interessi sul debito del proprio Paese che per l’istruzione o la sanità.

Esiste dunque una richiesta crescente di un nuovo approccio alla sostenibilità del debito che dia la priorità ai bisogni dei Paesi del Sud. Le organizzazioni della società civile invocano la cancellazione incondizionata dei debiti insostenibili, per consentire a quei Paesi di investire in settori essenziali quali la sanità, l’istruzione e la resilienza climatica. Certo, negli anni Novanta, tramite san Giovanni Paolo II, la Chiesa cattolica ha assunto una posizione ferma a favore della cancellazione del debito pubblico dei Paesi del Sud. Sebbene non sia da escludere, questa soluzione rimane eminentemente politica e soggetta all’agenda delle grandi potenze.

Obiezioni morali

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Resta il fatto che la cancellazione del debito potrebbe incoraggiare i governi a contrarre prestiti in modo irresponsabile, o a mal gestire le proprie finanze, nella speranza di futuri salvataggi. Tale rischio, detto «azzardo morale» (il quale non ha molto a che vedere con la morale, essendo una traduzione letterale dell’espressione inglese moral hazard, che designa, in campo assicurativo, l’incertezza su una condotta conforme agli impegni), non ha tuttavia un peso considerevole: come detto, infatti, default sovrani si verificano in media ogni due anni e sappiamo che si moltiplicheranno negli anni a venire. Opporsi alla negoziazione delle cancellazioni con la motivazione che ciò indurrebbe altri Paesi ad attuare una gestione lassista delle proprie finanze pubbliche non ha molto più valore morale di opporsi all’ablazione delle metastasi del cancro ai polmoni di un tabagista con la motivazione che ciò indurrebbe altre persone a continuare a fumare. Inoltre, il rischio di azzardo morale può essere attenuato legando la cancellazione del debito a impegni chiari e verificabili in materia di riforme economiche. Tutti i piani di aggiustamento strutturale del Fmi si fondano sull’idea della condizionalità. Ci ritorneremo più avanti.

Tuttavia, i Paesi che hanno subìto riforme severe per ripagare i propri debiti potrebbero ritenere la cancellazione ingiusta: non comporterebbe infatti una disparità di trattamento dei Paesi debitori? È proprio così. Ma pensiamoci bene: il più delle volte, i sacrifici che sono stati richiesti a certi Paesi debitori affinché ripagassero i propri debiti sono stati tali perché i creditori hanno preteso riforme strutturali che, come oggi sappiamo, erano peggiori del male. Si pensi, ad esempio, al salasso subìto inutilmente dalla società greca nel decennio 2010-2020: il rapporto debito/Pil (che fungeva da bussola alla Troika) era del 206,3% nel 2020, dopo un decennio di sacrifici e la scomparsa di oltre un quarto del Pil greco… contro il 146,2% del 2010. Vietare di rinegoziare un debito con la motivazione che altri hanno sofferto per non averlo potuto fare equivale a sostenere che coloro che sono morti per aver ricevuto cure inadeguate per il cancro ai polmoni troverebbero ingiusto che altri tabagisti possano beneficiare di terapie migliori.

Rimane poi l’argomento «morale» di base: dopotutto, contraendo un prestito, i prestatari si sono impegnati. In nome di cosa potrebbero esimersi dall’onorare l’impegno? Se appare evidente che un certo numero di Paesi ha stipulato prestiti irragionevoli, bisogna però sottolineare come, spesso, la loro insolvibilità non derivi da errori propri, ma da eventi che sfuggono al loro controllo: una guerra, una catastrofe climatica, l’aumento dei tassi ufficiali di sconto della Federal Reserve americana[14]. Inoltre, come detto, non si può escludere a priori che, prestando in maniera eccessiva o irresponsabile senza valutare correttamente i rischi, anche i creditori siano responsabili di un indebitamento insostenibile.

Comunque, il principale argomento avanzato, a ragione, da papa Francesco per giustificare il mancato rimborso di una parte dei debiti sovrani dei Paesi poveri è quello del debito ecologico (cfr LS 51, citato in SnC 16).

Il debito ecologico è un buon criterio?

Un modo per stimare il debito ecologico dei Paesi «ricchi» nei confronti degli altri consiste nel calcolare il costo attuale del riscaldamento globale sui Paesi interessati e attribuirne la responsabilità ai Paesi industrializzati, in proporzione al loro contributo alle emissioni. Quanto ai «creditori» del «debito ecologico», logicamente dovrebbero essere i Paesi più colpiti dalla dipendenza dai combustibili fossili dei Paesi industrializzati e dagli enormi profitti realizzati da una piccolissima élite nella maggior parte dei Paesi produttori di petrolio.

Combinando Pil e perdite di capitale, si può stimare che i Paesi a basso e medio reddito abbiano subìto una perdita complessiva di 21.000 miliardi di dollari dall’adozione della Convenzione sul clima di Rio nel 1992. Tutti i gruppi di parti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ad eccezione dell’Unione europea, hanno subìto perdite totali nette – la più grande delle quali è quella del G77 (Paesi del Sud + Cina) – per circa 29.000 miliardi di dollari[15]. Questo ci dà un ordine di grandezza del debito ecologico complessivo che i Paesi da tempo industrializzati devono a quasi tutti gli altri. La cancellazione di 500 miliardi di dollari di debito pubblico estero di una manciata di Paesi in grande difficoltà rappresenta dunque una frazione minima del debito ecologico (1,7%). Le obiezioni alla cancellazione che provano a basarsi su argomenti morali devono arrendersi all’evidenza: la giustizia climatica richiederebbe, al contrario, molto più della semplice cancellazione di questi debiti pubblici.

Certo, non tutti i contribuenti dei Paesi ricchi sono ugualmente responsabili delle emissioni del proprio Paese. Sarebbe una vera ingiustizia, in tal caso, pretendere che i meno abbienti tra loro (che sono pure coloro che, nel proprio Paese, producono meno emissioni) saldino il debito ecologico contratto dai concittadini più benestanti. Secondo la Ong Oxfam, il 10% più ricco della popolazione mondiale è stato responsabile del 52% delle emissioni complessive di CO2 tra il 1990 e il 2015. In Europa, il 10% (i più benestanti) è responsabile del 27% delle emissioni totali, mentre il 50% (i più modesti) ne genera soltanto il 29%. Non è quindi assurdo ritenere che il 10% (i più benestanti dei Paesi del Nord) debba sostenere almeno la metà del costo provocato dalla cancellazione del debito pubblico dei Paesi del Sud.

Soprattutto, il concetto stesso di «debito ecologico» e i calcoli a cui si presta (come quelli sopracitati) sono ambivalenti: si basano su una monetizzazione della responsabilità dei produttori di emissioni, la quale, certo, ben si accorda allo Zeitgeist contemporaneo, ma può rivelarsi pericolosa se coltiva l’illusione per cui tutto è monetizzabile. In ultima analisi, la dignità dei viventi non è monetizzabile, e nemmeno la responsabilità morale di chi emette gas serra di riparare i danni che ha causato.

Una possibile soluzione: gli «swap» debito-clima

Gli scambi debito-clima paiono essere una soluzione meno ambiziosa ma più realistica delle semplici cancellazioni e meno distruttivi delle «riforme strutturali» del Fmi. Si tratta di transazioni finanziarie in cui una parte del debito di un Paese è cancellata o rifinanziata in cambio di investimenti in azioni climatiche e priorità di conservazione. Questi scambi mirano a risolvere sia il fardello del debito sia i problemi legati al cambiamento climatico, in particolare nei Paesi in via di sviluppo a basso reddito e nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo. La Banca mondiale ha attuato centinaia di questi scambi nei primi anni Duemila, ma soltanto a livello regionale.

A livello nazionale, nel 2012 l’Agenzia francese per lo sviluppo (Afd) ha siglato un «Contratto di riduzione dell’indebitamento e sviluppo» (Cdd) con la Costa d’Avorio, al fine di convertire (in parte) il suo debito sovrano in sovvenzioni per progetti di sviluppo. Si tratta di un modo innovativo di estendere la logica dello swap debito-clima su scala nazionale. Più di recente, a partire dalla Cop27, il Sudafrica si è dichiarato favorevole a uno swap del debito nazionale, su cui ha lavorato il Georgetown Environmental Justice Program. Ancor più di recente, la Germania ha proposto ai Paesi partner swap debito-clima fino a 150 milioni di euro l’anno, con esempi concreti in Kenya, Egitto e Tunisia[16]. Ultimamente l’Ecuador ha concluso uno swap debito-natura su larga scala[17]. Inoltre, 58 tra i Paesi in via di sviluppo più vulnerabili al cambiamento climatico devono pagare quasi 500 miliardi di dollari di debito nei prossimi quattro anni[18]. Un altro gruppo di 20 Paesi ha annunciato che intende sospendere il rimborso di 685 miliardi di dollari di debito, nella speranza di scambiarlo con investimenti in progetti climatici[19]. Più in generale, il mercato potenziale degli swap debito-natura ha superato gli 800 miliardi di dollari nel 2023 e continua a crescere[20].

Il potenziale degli swap debito-clima è quindi ancora più grande degli importi finora realizzati. Inoltre, l’attuale volume degli scambi è spesso ritenuto «simbolico» rispetto al fabbisogno complessivo di investimenti per la transizione climatica[21]. In effetti, una stima ottimistica di questi ultimi sarebbe, a livello mondiale, di circa 90.000 miliardi di dollari nei prossimi vent’anni[22]. Al giorno d’oggi, non sarebbe forse una questione di giustizia e buonsenso cancellare una (modesta) parte del debito dei Paesi in ginocchio, per contribuire a finanziare il salvataggio della nostra casa comune?

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[1].       Dall’enciclica Centesimus Annus (1991) e fino all’Anno giubilare 2000, Giovanni Paolo II ha invocato la cancellazione di alcuni debiti pubblici del Sud del mondo, specialmente in Africa. Al suo appello è stato riconosciuto di aver influenzato le ristrutturazioni debitorie concesse all’inizio degli anni Duemila.

[2].       Cfr «Global Carbon Emissions from Fossil Fuels Have Reached a Record High in 2024», University of Exeter, in https://shorturl.at/jna3o

[3].       Cfr G. Giraud, «“Unsafe”. Le assicurazioni di un Pianeta che brucia», in Civ. Catt. 2024 III 381-393.

[4].       Cfr Groupe de la Banque mondiale, «Le Groupe de la Banque mondiale et la pandémie de coronavirus», in https://tinyurl.com/mwd9c8xa

[5].       Cfr G. Giraud, «Le mythe du ruissellement économique», in La Croix (https://shorturl.at/pKS93 https://bit.ly/3OV4uqM), 1° agosto 2017.

[6].       Tale questione, sconosciuta al grande pubblico, talvolta è oggetto di dibattito. Cfr Z. Jakab – M. Kumhof, «Banks Are Not Intermediaries of Loanable Funds – and Why This Matters», Bank of England, Working Paper No. 529, 2015; R. A. Werner, «Can banks individually create money out of nothing? The theories and the empirical evidence», in International Review of Financial Analysis 36 (2014) 1-19; Id., «How do banks create money, and why can other firms not do the same? An explanation for the coexistence of lending and deposit-taking», in International Review of Financial Analysis 36 (2014) 71-77; G. Giraud, Illusion financière, Paris, Éditions de l’Atelier, 2014, e la ventina di riferimenti che contiene.

[7].       Tuttavia le banche non possono creare quantità arbitrarie di moneta. Esse sono principalmente soggette a regole di prudenza. Le banche private, in particolare, non possono creare moneta per riassorbire i propri debiti, ragion per cui possono fallire.

[8].       Alcuni economisti sostengono che questo sovrappiù di moneta in circolazione potrebbe essere inflazionistico, ma si basano su un’interpretazione errata della teoria quantitativa della moneta: se la creazione di moneta fosse de facto inflazionistica, bisognerebbe vietare qualsiasi forma di prestito bancario. Cfr G. Giraud, Illusion financière, cit.

[9]  .    Cfr E. Dabla Norris et Al., «Global Public Debt Is Probably Worse Than it Looks», in Imf Blog (https://tinyurl.com/5eendump), 15 ottobre 2024.

[10].      Cfr Groupe de la Banque mondiale, «Remboursement de la dette publique: les pays en développement ont dépensé un montant record de 443,5 milliards de dollars en 2022», in https://tinyurl.com/msaeuzr3

[11].      Cfr OCDE, «Perspectives économiques de l’OCDE 2024», in https://tinyurl.com/2v237hv7

[12].      Cfr A. B. Abel – S. Panageas, «Running Primary Deficits Forever in a Dynamically Efficient Economy: Feasibility and Optimality», NBER Working Paper 30554, 2024.

[13].      Cfr «New data show Global South is in worst debt crisis ever, with another lost decade looming», in Bretton Woods Project (https://tinyurl.com/5n83nsw9), 13 dicembre 2023.

[14].      Il rialzo dei tassi della Fed attira gli investitori verso gli asset in dollari, provocando una fuga di capitali dalle economie emergenti e la svalutazione della loro valuta locale. Ciò rovina l’economia di questi Paesi e ne accresce il debito pubblico.

[15].      Cfr J. Rising, «Loss and Damage Today: How Climate Change Is Impacting Output and Capital», Newark, University of Delaware, novembre 2023 (https://tinyurl.com/yua9stzs).

[16].      Cfr OXFAM, «Inégalités climatiques: les 1% les plus riches émettent autant de CO2 que deux tiers de l’humanité», in https://tinyurl.com/ut3d2u8m

[17].      Cfr Federal Ministry for Economic Cooperation and Development, «Debt-for-climate swaps», in https://tinyurl.com/432s747f

[18].      Cfr S. Glendon, «Ecuador’s $650 million debt-for-nature swap targets Galápagos protection», in Columbia Threadneedle Investments (https://tinyurl.com/dwvy5adp), 15 giugno 2023.

[19].      Cfr United Nations Development Programme, «A new wave of debt swaps for climate or nature», in https://tinyurl.com/3p5b67ec

[20].      Cfr International Institute for Environment and Development, «Debt swaps could release $100 billion for climate action», in https://tinyurl.com/552w3j8m

[21].      Cfr Ch. Nedopil – M. Yue – A. C. Hughes, «Are Debt-for-Nature Swaps Scalable: Which Nature, How Much Debt, and Who Pays?», in Ambio 53 (2023/1) 63-78. Si veda anche https://ecdpm.org/work/scale-debt-climate-swaps-infographic-three-ways

[22].      Cfr R. Al-Mashat, «Climate Financing That Puts People First», in International Monetary Fund, 2023, 14 s.




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Condonare il debito dei paesi insolvibili: scandalo o buonsenso?

Gaël Giraud

Direttore di ricerca del CNRS (Centre national de la recherche scientifique) di Parigi e collaboratore del Centre Avec (Forum Saint-Michel) di Bruxelles.


Condonare il debito dei paesi insolvibili: scandalo o buonsenso?

Kako Nubukpo

Commissario per l’agricoltura, risorse idriche e ambiente dell’Unione economica e monetaria dell’Africa Occidentale.


Condonare il debito dei paesi insolvibili: scandalo o buonsenso?

Hubert Rodarie

Presidente dell’Association française des investisseurs institutionnels (Af2i).


6 Febbraio 2025

Quaderno 4190

  • pag. 147 - 158
  • Anno 2025
  • Volume I

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Il 15 dicembre 2024, papa Francesco si è recato in Corsica per la conclusione del Congresso La Religiosité Populaire en...

6 Febbraio 2025 Leggi
Particolare della copertina del romanzo Bambino di Marco Balzano.

La narrativa di Balzano e il suo ultimo romanzo, «Bambino»

« – Bambino. Mi giro di scatto. Lascio il caffè sul bancone e cerco l’uscita. Troppo tardi: la canna della...

6 Febbraio 2025 Leggi
Piazza Maidan, Kiev (havoc/stock.adobe.com)

«Aux portes de l’Europe» e «Où tout ensemble ne ferait qu’un»

AUX PORTES DE L’EUROPE1 Les gens du cirque ne vieilliront jamais, ils changent les tigres en agneaux quand les sirènes...

6 Febbraio 2025 Leggi

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Beatus Populus Cuius Dominus Deus Eius

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