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Il quadro storico
La Repubblica turca, fondata da Mustafa Kemal, detto Atatürk, il «padre della patria», compie quest’anno 100 anni di vita istituzionale. Essa nacque sulla base di Trattati internazionali – e non soltanto –, dopo la sconfitta dei cosiddetti «Imperi centrali» (di cui faceva parte anche quello ottomano) da parte delle nazioni dell’Intesa, alla fine della Prima guerra mondiale, che aveva sconvolto i vecchi assetti delle grandi potenze imperiali multinazionali e multietniche. Essi erano il lascito di un passato storico glorioso, ma ormai da tempo al tramonto, con la nascita dagli Stati nazionali in Europa e con lo sviluppo della moderna tecnologia.
L’Impero ottomano, uno dei più estesi fino a quel momento, era considerato, già dalle cancellerie del XIX secolo, il «vecchio malato d’Europa» e viveva un momento di crisi sia sociale sia economica, nonostante le riforme istituzionali presentate da sultani illuminati del secolo precedente (le cosiddette Tanzimat). Esso era tenuto in vita più dalla rivalità tra le grandi potenze coloniali – che non riuscivano ad accordarsi sulla divisione dei suoi territori ancora ingenti (gran parte del Medio Oriente e le terre della Mezzaluna fertile) – che dal dinamismo politico-economico che animava queste importanti parti dell’Impero.
Di fatto, la Turchia moderna nacque «dall’implosione» dell’Impero ottomano, per sua natura multietnico e multireligioso, dai Trattati e dagli impegni assunti dall’Intesa durante la Grande guerra, ma anche, e soprattutto, dal coraggio e dall’audacia del popolo turco – e in particolare di chi in quel tempo ne organizzò la riscossa nazionale –, che si ribellò con le armi alle decisioni inique assunte in sede diplomatica dagli europei, come nel Trattato di Sèvres del 1920. Questo di fatto aveva parcellizzato il territorio dell’Impero tra i vincitori, lasciando alla nuova Turchia soltanto gli altipiani orientali dell’Anatolia.
Per comprendere la nascita della Turchia moderna è necessario – sul piano storico – leggerla alla luce del progetto, messo a punto dalle maggiori cancellerie europee, di «risistemazione», secondo geometrie variabili e piuttosto mobili, del Medio Oriente ottomano, che da tempo aveva attirato gli appetiti delle grandi potenze, in particolare dell’Inghilterra e della Francia, ma anche della Grecia e dell’Italia, interessate ai cosiddetti «Stretti» e alle coste mediterranee dei territori anatolici.
Insomma, la Turchia come Stato nazionale nacque insieme e in concorrenza allo sviluppo statuale del Medio Oriente moderno, di cui in qualche modo – se non altro dal punto di vista cronologico – fa parte. Gli Stati europei che posero in essere i Trattati di Sèvres e i due di Losanna consideravano, in modo superficiale, questo territorio come una semplice parte della regione mediorientale. Anche se va ricordato che i turchi non sono di etnia e di lingua araba: infatti, pur essendo islamici sunniti, essi si considerano soprattutto «turchi» e si vantano di essere discendenti non dei popoli nomadi del deserto arabico, ma dei formidabili guerrieri selgiuchidi, provenienti dalle steppe dell’Asia centrale e discendenti di gloriosi soldati e di grandi condottieri.
L’Impero ottomano e la Prima guerra mondiale
Lo scoppio della Prima guerra mondiale vide l’Impero ottomano molto indebolito sul piano sia miliare sia economico, ed estremamente riluttante a entrare in una guerra che reputava europea e in ogni caso non propria. Alla fine dovette a fortiori schierarsi con gli Imperi centrali, in particolare con la Germania, con la quale aveva rapporti consolidati da tempo. Una scelta che risultò sbagliata e condannò l’Impero alla sua completa distruzione. Nel 1918 il sultano-califfo fu costretto a firmare l’armistizio di Mudros, con il quale la Turchia si arrendeva, e i suoi territori furono immediatamente invasi dalle potenze dell’Intesa.
Va ricordato che già dal 1916 la Francia e la Gran Bretagna avevano stipulato un accordo segreto (l’Accordo Sykes-Picot) sulla spartizione dei territori della cosiddetta «Mezzaluna fertile» che appartenevano all’Impero. La Palestina, l’Iraq e la Giordania, in caso di vittoria dell’Intesa, sarebbero andate agli inglesi, mentre la Siria e il Libano alla Francia. Tale accordo fu poi divulgato nel 1917 dai bolscevichi, una volta arrivati al potere in Russia, e ciò creò non poco scompiglio nei territori arabi, anche perché il governo di Londra, per combattere l’Impero ottomano, aveva stretto alleanza con lo sceriffo della Mecca, Hussein al-Hashimi, promettendo alla sua dinastia il dominio di gran parte del mondo arabo, in particolare della Siria, che a quel tempo era il Paese più ricco e meglio organizzato del Medio Oriente.
I Trattati che fecero seguito al crollo del debole Impero ottomano[1] ricalcarono quasi alla lettera le decisioni dell’Accordo Sykes-Picot. Così, nel 1920 la Francia invase la Siria (nel frattempo occupata da Faysal, figlio maggiore di Hussein) e sconfisse il giovane pretendente hascemita, senza che Londra muovesse un dito per difenderlo. Ricordiamo che, mentre la Francia applicò la forma repubblicana di Stato nei territori di cui assunse il mandato, la Gran Bretagna preferì applicare la forma monarchica nei territori che le erano stati assegnati, ad eccezione della Palestina[2].
Dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano il Medio Oriente era diventato un «lago europeo». Solo sei Stati poterono alla fine del 1923 dichiararsi non coloniali e indipendenti: la Turchia, l’Iran, Israele, l’Arabia Saudita, lo Yemen del Nord e l’Afghanistan. Due popoli vissero in questo periodo vicende alterne: gli armeni e i curdi. Il Trattato di Sèvres aveva previsto la creazione di uno Stato armeno, incentrato sulla città di Erzurum, e di uno Stato curdo. La comunità armena nel 1915 aveva subìto il primo genocidio del XX secolo, e il suo riconoscimento stava molto a cuore a diversi Paesi europei. Purtroppo, nell’autunno del 1922 il territorio fu invaso sia dai russi sia dai turchi, che lo inglobarono nelle nuove realtà statuali. Quanto al previsto Stato curdo (il Kurdistan), esso, per le vicissitudini seguite alla formazione dello Stato turco, non vide mai la luce. In realtà, «in Medio Oriente si sono avuti pochi Stati (dipendenti dalle potenze europee) e troppi popoli con aspirazioni all’autodeterminazione»[3].
Nonostante le promesse fatte a Sèvres, le comunità curde da allora si dispersero in diversi Paesi: Turchia, Iraq, Siria e Iran. Le conseguenze di tale dispersione sono ancora oggi causa di contrasti e di guerre molto violente in Siria e in Turchia. I curdi, alleati degli Usa, nella guerra siriana hanno avuto il merito di aver combattuto e fermato l’Isis a Kobane, indebolendone l’avanzata e contribuendo alla sua sconfitta. L’Occidente deve molto a loro, nonostante Erdoğan consideri i suoi guerriglieri dei terroristi.
Per comprendere le caratteristiche dello sviluppo politico del Medio Oriente, e quindi della Turchia moderna, occorre considerare le peculiarità delle forme di Stato che sono nate dagli assetti istituzionali e di potere successivi alla Grande guerra. Esse presentano sostanzialmente tre caratteristiche: 1) l’origine prettamente occidentale della forma di Stato adottata. Gli Stati sono stati istituiti secondo il modello di Stato prevalente in Europa già a metà dell’Ottocento. Ciò ha prodotto «l’identificazione dello Stato come istituzione estranea alla cultura locale, non ha creato cioè quell’identificazione tra Stato e nazione che è stata il presupposto della nascita degli Stati moderni»[4]. 2) Va ricordato che in molti Stati mediorientali non esistevano nemmeno le nazioni nel senso europeo del termine: ogni Stato accoglieva in sé un mosaico di comunità etnico-confessionali, la cui pacifica convivenza era assicurata dal cosiddetto «antico sistema del millet»,che imponeva alla comunità pesi economici in cambio di protezione da parte dell’autorità. 3) In Medio Oriente la forma di Stato si è progressivamente rafforzata soprattutto nel senso di «esercizio del potere», a discapito della sua funzione di rappresentanza dei bisogni e delle aspirazioni della collettività. Così lo Stato «è diventato il signore della politica, l’unico vero centro del potere, incontrastato: bastava soltanto impadronirsene con la forza»[5]. L’islam, che dominava in quei Paesi, per la sua natura quietista è stato quasi sempre dalla parte degli autocrati, salvo i casi in cui questi hanno imposto forme occidentali di vita incompatibili con la tradizione religiosa, come è avvenuto nell’epoca kemalista in Turchia[6].
La questione armena e i cristiani nel nuovo Stato nazionale turco
A partire dalla dissoluzione dell’Impero ottomano si profilò, per le comunità cristiane residenti nell’area, una situazione del tutto nuova, meno vantaggiosa di quella precedente, improntata all’antico sistema dei millet. In Turchia il processo di formazione dello Stato nazionale, basato sull’identità turca, condusse all’esclusione dei cristiani dal nuovo Stato. In questo caso, l’identificazione del concetto di nazione con l’appartenenza confessionale, secondo il sistema dei millet, fece collegare l’identità turca con quella musulmana, discriminando le altre appartenenze religiose. L’ideologia dei Giovani Turchi[7], al potere dal 1908, si fondava su un nazionalismo imperialista che, pur ispirandosi a modelli occidentali di impronta liberale, col passare del tempo aveva assunto tratti apertamente autoritari. All’inizio, essi erano più ottomanisti che nazionalisti, «dal momento che la loro politica era orientata prevalentemente alla salvaguardia dello stato imperiale, considerato lo strumento principale per la modernizzazione della società ottomana»[8]. Il nuovo governo ben presto entrò in conflitto con alcuni settori del mondo politico armeno, in particolare con quello più sensibile alle idee socialiste, che chiedeva l’indipendenza o l’autonomia della regione abitata dalla maggioranza armena, così come era accaduto per le altre nazioni.
Ora, mentre il distacco dell’area araba e balcanica dell’Impero poteva essere tollerato, perché queste non erano strettamente legate al nuovo assetto politico-istituzionale che si stava creando, l’autonomia di una parte dell’area anatolica, a maggioranza armena, avrebbe significato un’amputazione insostenibile del territorio nazionale, già fortemente ridotto, tanto più che le rivendicazioni armene venivano appoggiate dalla Russia, che mirava a espandere il proprio territorio a scapito della Turchia. Così la comunità armena, tradizionalmente considerata il millet più fedele alla Sublime Porta, fu percepita come un pericolo per la creazione di uno Stato turco unitario, una sorta di quinta colonna al servizio del nemico russo, secolare antagonista degli ottomani.
L’occasione per risolvere una volta per tutte il problema della «minaccia armena» fu offerta al governo nazionalista dallo stato di guerra in cui versava l’Europa a partire dal 1915[9]. Il genocidio degli armeni fu attuato sia con truppe regolari, sia incitando contro di essi le tribù curde e circasse, tradizionali nemiche delle comunità cristiane, facendo appello alla «guerra santa», jihad, contro gli infedeli cristiani. Il ricorso al jihad e alla motivazione religiosa da parte di un governo – quello dei Giovani Turchi – che si presentava come laico e indifferente a problematiche di natura religiosa fu puramente strumentale e finalizzato a fomentare le rappresaglie delle popolazioni musulmane contro i cristiani, percepiti ormai come nemici irriducibili del nuovo ordine «panturco». Gli storici calcolano che la sollevazione contro gli armeni costò la vita a circa un milione e mezzo di persone[10].
Il decennio 1912-22 vide consumarsi in modo drammatico, durante la Prima guerra mondiale, la crisi della convivenza e dello sperimentato pluralismo ottomano. In questi anni le componenti ritenute incompatibili, per motivi etnico-religiosi, con l’unità dell’Impero vennero forzatamente escluse o eliminate attraverso massacri o genocidi. Durante la Grande guerra e nella successiva guerra patriottica condotta dai Giovani Turchi «si realizzò la cancellazione pressoché totale delle comunità cristiane anatoliche – armeni, assiri, caldei – e si attuò anche la forzata assimilazione di quelle comunità musulmane, come i curdi, ritenute poco leali nei confronti dello Stato»[11].
Nella quasi indifferenza delle cancellerie europee, preoccupate per gli sviluppi della guerra in corso e troppo indaffarate a tessere il sistema delle alleanze, si consumò uno dei più tragici massacri del XX secolo, che purtroppo per lungo tempo è stato disconosciuto o sminuito. Assieme agli armeni, anche i cristiani di confessione greco-ortodossa furono espulsi – sebbene con modalità diverse – dalla nuova Turchia, che si professava laica e interessata a mantenere buoni rapporti con le potenze occidentali. Nel 1922, alla fine della guerra greco-turca, il governo turco, avendo vinto il conflitto, stabilì – nelle trattative di pace, con l’accordo delle potenze occidentali – che fosse attuato uno scambio di popolazioni. In tal modo moltissimi greco-ortodossi furono obbligati a lasciare la Turchia, che consideravano la loro terra, e a installarsi nel territorio greco, di cui non conoscevano neppure la lingua. Si calcola che 356.000 musulmani greci furono trasferiti in Turchia e che 1,25 milioni di cristiani greco-ortodossi turchi furono deportati in territorio greco. Va tenuto presente che in questo caso, come pure per i turchi greci, si trattava di popolazioni interamente turchizzate, e che la loro espulsione dal nuovo corpo statale fu decisa soltanto per motivi di ordine culturale-religioso: l’antico sistema dei millet continuava ancora a dettare legge.
L’esodo dei greci dall’Asia Minore fu il preludio della tragedia di Smirne. La città, occupata dai turchi nel settembre del 1922, fu saccheggiata, devastata e poi data alle fiamme. «La città per alcuni giorni rimase in preda a un’irrefrenabile catena di violenze che non risparmiò nulla, finché le fiamme di un vasto incendio avvolsero per quattro giorni quanto restava dei quartieri martoriati»[12].
Pertanto in Turchia il processo di costituzione dello Stato nazionale fu attuato disgregando il vecchio sistema della coabitazione tra le diverse confessioni religiose ed etniche che aveva caratterizzato il lungo periodo della dominazione ottomana. Questo modello dalle nuove élite politiche fu considerato inconciliabile con le idee liberali e con le ideologie nazionaliste che esse avevano appreso nelle università e nei salotti delle capitali europee. Ciò distrusse anche il sogno della Megali Idea, ma a tramontare fu soprattutto una lunga storia di coabitazioni tra popoli e civiltà.
I nuovi confini della Turchia moderna, nonostante le dichiarazioni di principio dei suoi fondatori, furono tracciati secondo criteri etnico-religiosi e non sulla base delle identità nazionali e delle culture che si erano insediate da secoli in quei territori. Il nuovo Stato nasceva così ripulito dell’elemento non turco e non musulmano: i massacri e le deportazioni degli armeni, anche se giustificati dagli ottomani come mezzo per stroncare le pretese indipendentistiche armene, erano frutto delle idee nazionalistiche degli ottomani all’interno dell’antico Impero, che un tempo aveva sperimentato la tolleranza e il rispetto del pluralismo culturale e religioso[13].
Nascita della Repubblica turca, il 29 ottobre 1923
L’atto di nascita della Turchia può essere fatto risalire alla primavera del 1920, quando Mustafa Kemal e un gruppo di alti ufficiali ottomani, che in gioventù avevano militato nel partito progressista dei Giovani Turchi, decisero di non accettare l’umiliante armistizio di Mudros, con cui il sultano si era arreso alle potenze dell’Intesa nel 1918, sperando di ottenere per sé protezione e alcuni benefici[14].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
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Alla fine del conflitto, le potenze dell’Intesa occuparono Istanbul e misero sotto custodia il sultano-califfo. Il governo nel 1920 firmò il Trattato di Sèvres, che «smembrava» l’Impero ottomano, separando le regioni cosiddette «turche» dalle altre. Le regioni dell’Anatolia occidentale furono divise in zone di influenza greca (la regione di Smirne e di Edirne), italiana (la città di Antalya) e francese (la Cilicia). Gli stretti, invece, furono sottoposti a un regime di controllo internazionale. Tutte queste nazioni, in diversa misura, inviarono forze di occupazione. Ma la Grecia avanzò richieste considerate anche dagli altri alleati decisamente eccessive, ispirate alla Megali Idea, che mirava a riunire in una sola patria tutti i greci, dalle isole del Mediterraneo al Mar Nero, «rinverdendo in questo modo i fasti dell’impero bizantino»[15]. Avanzò perfino l’idea di occupare Istanbul.
Queste ambizioni apparvero inaccettabili a molti turchi, ma non al sultano, il quale sperava di riavere dagli inglesi il controllo di Istanbul e di una parte dell’Anatolia. In questo territorio, non soggetto alla dominazione straniera, si crearono i cosiddetti «Comitati per la difesa dei diritti», che si proponevano di organizzare la resistenza contro gli stranieri. Per ristabilire l’ordine fu inviato in missione dal governo di Istanbul il generale Mustafa Kemal, che si era già conquistato la fama di comandante invincibile dopo la celebre battaglia di Gallipoli nel 1915. Secondo le potenze dell’Intesa, all’inizio del conflitto questo scontro per il controllo degli stretti avrebbe dovuto infliggere agli ottomani una clamorosa sconfitta, in seguito alla quale esse si sarebbero impadronite di Istanbul, mettendo fuori gioco la Sublime Porta. Ma le cose andarono diversamente. La battaglia che doveva essere un blitz si trasformò in una guerra di trincea tra le più cruente della Prima guerra mondiale. In quello specchio di mare cadde tra il 40 e il 50% delle forze britanniche, francesi, neozelandesi e ottomane impegnate nell’azione (morirono circa 75.000 soldati)[16]. Alla fine gli ottomani ebbero la meglio e il generale Kemal divenne un eroe nazionale. Ma nel giro di poco tempo furono le forze dell’Intesa a sconfiggere l’esercito del sultano e a occupare la capitale.
Ritornando alle vicende del 1920, Kemal, invece di abolire i Comitati, come gli era stato richiesto, si pose alla testa della ribellione. Con una guerra sanguinosa, durata due anni, scacciò le truppe straniere dall’Anatolia occidentale, occupando così l’intero spazio tradizionalmente turco, e guidò, da condottiero e da uomo di Stato, il processo della creazione della Repubblica turca. A partire dall’aprile 1921 le truppe di Kemal cominciarono ad avere la meglio sui greci. La battaglia decisiva fu combattuta a Sakarya il 24 agosto, quando l’esercito turco mise in fuga quello ellenico; subito dopo, la città di Smirne, non senza spargimento di sangue, fu ripresa (9 settembre 1922). Il risorgere della potenza turca indusse gli italiani ad abbandonare la regione di Antalya; lo stesso fecero anche i francesi in Cilicia[17].
Dopo questi fatti, nel novembre 1922 una grande Assemblea nazionale proclamò la decadenza del sultanato, affermando che da quel momento in poi la sovranità sarebbe appartenuta soltanto alla nazione, ma lasciò in vita il califfato, tuttavia inteso in senso soltanto spirituale. L’ultimo sultano ottomano, Mehemed VI «Vahdeddin», rifugiatosi a bordo di una nave inglese da guerra, fu considerato deposto, e venne proclamato nuovo califfo suo cugino ‘Adb ul-Megid.
Il Trattato di Losanna del 24 luglio 1923 riconobbe sul piano internazionale la nuova Repubblica di Turchia. Essa poi fu ufficialmente proclamata il 29 ottobre 1923 – un anno dopo l’abolizione del sultanato e in ottemperanza alla legge del gennaio 1922 – dalla grande Assemblea nazionale, che dichiarava Ankara sua nuova capitale[18]. Ora, una Repubblica laica e sovrana difficilmente poteva accogliere nel proprio seno un califfo, per quanto le sue funzioni fossero soltanto religiose e rituali. Così il 3 marzo 1924 l’Assemblea approvò la risoluzione che aboliva il califfato e bandiva dal suo territorio nazionale tutti i membri della dinastia sultaniale. Era la fine della più antica e veneranda istituzione politica dell’islam[19]. Questo fatto ebbe conseguenze importanti nel mondo islamico. In alcuni Paesi, come l’Egitto, si pensò anche di ricostituire l’antica istituzione che garantiva l’unità politica dei credenti. Certamente le correnti islamiste che si affermarono a partire da quel periodo avevano tale progetto.
Infine, il Trattato di Losanna (1923) pose fine sia alla guerra scoppiata nel 1914 in Medio Oriente (nell’ambito della Prima guerra mondiale) sia a quella successiva greco-turca del 1919-22. Ciò era richiesto dall’accordo firmato tra le parti (Inghilterra, Francia e Italia, da un lato, e la nuova Turchia, dall’altro). Tuttavia, per diversi aspetti, questo Trattato lasciò un’eredità negativa, che da quel momento in poi avrebbe segnato il mondo delle relazioni internazionali, «imprimendo il sigillo della legalità alla cancellazione dalle carte geografiche dello Stato armeno, stabilito dal Trattato di Sèvres»[20]. Le grandi potenze, per motivi politici, dimenticarono l’impegno assunto durante il conflitto a venire incontro ai sopravvissuti del genocidio armeno, aiutandoli a tornare nella loro terra e a costituire un loro Stato. Le potenze europee presenti a Losanna si rifiutarono di accogliere una delegazione armena al tavolo delle trattative, «dopo che i rappresentanti turchi avevano messo bene in chiaro che, se si fosse insistito sulla questione, se ne sarebbero andati»[21]. Nel Trattato i termini «armeni» e «Armenia» non compaiono affatto: una scelta, questa, che legittimò la tacita cancellazione del popolo armeno dall’intera Anatolia.
Inoltre, il Trattato di Losanna si rivelò negativo anche per il prestigio della Società delle Nazioni. Lo scambio forzato di popolazioni, deciso il 30 gennaio 1923, evidenziò le grandi debolezze della nuova istituzione internazionale in ordine alla difesa delle minoranze. La decisione fu presa con un accordo tra le due parti coinvolte nel trasferimento forzato, cioè la Turchia (che non faceva parte della Società delle Nazioni) e la Grecia (che invece ne faceva parte). L’Organizzazione internazionale non ebbe né la forza né la volontà di opporsi a tale decisione, che violava apertamente il suo statuto fondativo. Secondo i difensori del progetto, questo era il prezzo che in quel momento si dovesse pagare per salvare vite umane, sebbene ciò comportasse la violazione di diritti umani, in particolare di coloro – sia in Grecia sia in Turchia – che non volevano abbandonare le loro case, e a cui non fu concesso di esprimersi in merito.
La Repubblica kemalista
Kemal non fu soltanto un generale valoroso, ma anche un abile uomo di Stato. In realtà fu lui a creare la Repubblica turca, che ebbe fin dall’origine l’impronta del suo pensiero politico e del suo disegno strategico. Egli, come i Giovani Turchi (di cui faceva parte), era un convinto occidentalista. A differenza dei modernisti islamisti – ad esempio, egiziani –, che cercavano un compromesso tra islam e modernità, lui e i suoi seguaci cercarono di imporre un modello di Stato direttamente mutuato dall’esperienza occidentale, soprattutto francese. Kemal trasferì la capitale del nuovo Stato, che voleva repubblicano e laico, da Istanbul, troppo legata al passato ottomano, alla moderna Ankara[22].
La Costituzione turca è l’unica, nel Medio Oriente, a non fare riferimento ad alcuna religione di Stato. Ad eccezione delle monarchie della penisola arabica e dell’Iran, tutte le Costituzioni degli Stati arabi moderni fanno riferimento all’islam come fonte del diritto e come religione della maggioranza della popolazione. Da qui il potere dello Stato di sovrintendere a tutte le opere (moschee, madrase e organizzazioni caritative) concernenti l’esercizio del culto. Non così in Turchia, dove Kemal soppresse tutta una serie di ordini religiosi sufi (tranne i dervisci rotanti di Konya), i tribunali islamici e i beni, e i numerosi lasciti religiosi. La religione, secondo il suo pensiero, doveva essere relegata in uno spazio privato e scomparire (secondo il modello francese) da quello pubblico. Egli adottò un calendario occidentale e l’alfabeto latino, rendendo più semplice la lettura dei testi in lingua turca e araba. Inoltre, sul piano politico-istituzionale, introdusse il voto femminile nelle elezioni comunali nel 1930 e in quelle politiche nel 1934 (in Italia esso fu introdotto soltanto nel 1946). Proibì il velo alle donne in pubblico, e agli uomini l’uso del fez, che in passato era stato segno di modernità. In quel periodo molti governanti cosiddetti «occidentalizzatori», per lo più provenienti dalle fila dell’esercito, adottarono provvedimenti innovativi riguardanti l’abbigliamento femminile. L’intento era quello di eliminare capi di vestiario, come il velo, che richiamassero identità etniche o religiose, «rischiando di indebolire la lealtà dei cittadini nei confronti dello Stato centrale»[23].
Il nazionalismo che immaginava Atatürk – l’appellativo di «padre dei turchi» fu conferito ufficialmente a Kemal dal Parlamento nel 1935 – era monolitico e invariabile nel tempo. Egli non concepiva che, all’interno della nazione, esistessero minoranze etniche (che erano già state eliminate dai Giovani Turchi durante la Grande guerra). Arrivò perfino a negare l’esistenza delle comunità curde dell’Anatolia orientale, che cominciarono a ribellarsi e a chiedere l’indipendenza politica a partire dal 1925. Atatürk le definiva «turchi di montagna»… strano modo di assimilare le minoranze! Questo concetto di nazione unitaria e indivisa «fu quello che poi giustificò la negazione a livello istituzionale del multipartitismo: i partiti, nell’opera del fondatore della patria, erano espressione di interessi di classi divergenti all’interno della nazione che egli voleva «monolitica». L’unico partito ammesso era quello da lui fondato: il Partito repubblicano del popolo.
In economia, pur non essendo un marxista, soprattutto dopo la grande depressione del 1929 Atatürk adottò il sistema della pianificazione di Stato. Bisognava innanzitutto ridurre il volume delle importazioni e costruire un’industria nazionale con capitale statale, che alla lunga però si rivelò fallimentare. Questa decisione andò a discapito dello sviluppo agricolo, che interessava la maggioranza della popolazione turca, che era ancora povera e, in molte regioni, arretrata e poco incline allo sviluppo. Il «padre della patria» e l’«occidentalizzatore» della Turchia morì il 10 novembre del 1938.
Va però ricordato che, negli ultimi anni di governo, egli incontrò ostinati oppositori: sia i curdi, ai quali non riconobbe nessuno statuto di autonomia politica o culturale, sia gli islamici più osservanti, che non gli perdonarono mai l’abolizione del califfato e le leggi di stampo occidentale, contrarie all’islam. Successivamente, durante il regime dei militari che subentrarono al «padre della patria», nel 1950 il Partito democratico, che aveva preso le distanze dal laicismo ufficiale e faceva riferimento all’islam come ispirazione politica, riportò la vittoria nelle elezioni politiche. Questo era un segnale dell’atteggiamento adottato dalla maggioranza del popolo della Turchia. Nel novembre del 2002 il Partito della giustizia e dello sviluppo, vicino alle istanze dei Fratelli Musulmani (allora alla ribalta in molti Paesi islamici), ottenne quasi i due terzi dei seggi parlamentari. Ma a questo punto inizia un’altra fase della storia politica della Turchia, che è ancora in corso, in un quadro internazionale del tutto diverso.
Conclusione
La Repubblica turca, che si appresta a festeggiare i primi 100 anni della sua storia, è stata profondamente trasformata dall’arrivo al potere, all’inizio di questo secolo, di Recep Tayyip Erdoğan (leader del partito filoislamico «Giustizia e sviluppo»), recentemente confermato per la terza volta alla presidenza della Repubblica (dopo il ballottaggio, con solo il 52% dei voti). In questi anni egli ha progressivamente scardinato i pilastri dello Stato laico kemalista trasformando, con una legge costituzionale, anche l’assetto istituzionale. La grave crisi economica degli ultimi anni, la stretta sull’opposizione e la critica gestione del dopo scisma hanno, per la prima volta dopo 20 anni, fatto vacillare il suo potere. Questo sta a indicare che dopo le elezioni del 14 maggio 2023 Erdoğan non può più ignorare che quasi la metà degli elettori turchi non condivide più il suo progetto politico e che egli non sarà più, come in passato, «l’uomo solo al potere»: «ora dovrà fare i conti con forze politiche più organizzate e motivate e con un’opinione pubblica filooccidentale più combattiva»[24].
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[1]. Cioè il Trattato di Sèvres del 1920 e quello di Losanna del 1923. Cfr anche G. Sale, «I Trattati che fecero il Medio Oriente», in Civ. Catt. 2020 II 141-151.
[2]. La forma del mandato venne ratificata nel 1922 dalla Società delle Nazioni (l’antenata dell’Onu). L’organizzazione internazionale doveva mantenere il controllo sui territori affidati in mandati e vigilare che Francia e Gran Bretagna portassero avanti il loro compito, avviando i territori interessati verso l’indipendenza. Gli Stati mandatari avevano una funzione «civilizzatrice» ed esercitarono i loro poteri, fino all’indomani della Seconda guerra mondiale, in modo dispotico, governando quei territori come fossero delle colonie.
[3]. M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Roma – Bari, Laterza, 2012, 22.
[4]. Ivi, 23.
[5]. Ivi.
[6]. Cfr M. Campanini, Ideologia e politica nell’islam,Bologna, il Mulino, 2008.
[7]. Cfr B. Lewis, The Emergence of Modern Turkey, London, Oxford University Press, 1968, 175-230; L. Chabry – A. Chabry, Politique et minorités au Proche-Orient, Paris, Maisonneuve et Larose, 1984, 229 s.
[8]. G. Del Zanna, La fine dell’impero ottomano, Bologna, il Mulino, 2012, 11.
[9]. Cfr D. Bloxham, Il «grande gioco» del genocidio, Torino, Utet, 207; M. Flores, Il genocidio degli armeni, Milano, Rizzoli, 2017; G. Ruyssens, La questione armena 1908-1935, Roma, Valore Italiano, 2015; B. Bruneteau, Il secolo dei genocidi,Bologna, il Mulino, 2004, 65 s.
[10]. Cfr Y. Ternon, Les Arméniens. Histoire d’un génocide, Paris, Seuil, 1977; G. Chaliand – Y. Ternon, Le génocide des Arméniens: 1915-1917, Bruxelles, éditions Complexe, 1980; Y. Courbage – P. Pargues, Chrétiens et Juifs dans l’islam arabe et turc, Paris, Fayard, 1992.
[11]. G. Del Zanna, La fine dell’impero ottomano,cit., 13. Il Trattato di Losanna del 1923 non solo pose fine alla catena delle violenze etnico-religiose con operazioni di «ingegneria demografica» su larga scala (come lo scambio di popolazioni tra turchi e greci), ma sancì il successo del movimento patriottico turco nel difendere lo Stato nei confronti di quelle potenze europee che ne desideravano lo smembramento. I Giovani Turchi alla fine riuscirono, in sede negoziale, a far sì che il loro territorio storico rimanesse unito e non venisse sottoposto al sistema dei mandati.
[12]. M. H. Dobkin, Smyrna 1922: The Destruction of a City, New York, Newmark, 1988, 43.
[13]. Cfr A. Riccardi, Mediterraneo. Cristianesimo e islam tra coabitazione e conflitto, Milano, Guerini e Associati, 1997; A. Pacini (ed.), Comunità cristiane nell’islam arabo. La sfida del futuro, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1996, 6. Nello stesso volume si vedano i saggi di J. Maïla, «Gli arabi cristiani: dalla questione d’Oriente alla recente geopolitica delle minoranze», e di S. K. Samir, «Le comunità cristiane, soggetti attivi della società araba nel corso della storia».
[14]. La Turchia, secondo lo storico Del Zanna, dopo le cruente guerre che dovette combattere, divenne un Paese spopolato: morirono 2,5 milioni di musulmani, più di un milione di armeni e circa 3.000 greci, riducendo la popolazione anatolica del 20%. A ciò si aggiunga, con la fondazione dello Stato, la massiccia emigrazione dei turchi verso i Paesi occidentali. In pochi anni la Turchia perse un terzo della sua popolazione, che era ormai divenuta quasi totalmente musulmana (98%). Cfr G. Del Zanna, La fine dell’impero ottomano,cit., 160.
[15]. J. L. Gelvin, Storia del Medio Oriente moderno, Torino, Einaudi, 2009, 245.
[16]. Cfr M. Guida, «La sindrome di Sèvres segna ancora la geopolitica turca», in Limes, n. 5, 2014, 134.
[17]. Cfr C. L. Mowat (ed.), «I grandi conflitti mondiali (1898-1945)», in Storia del mondo moderno, vol. XII, Milano, Garzanti, 1968, 347.
[18]. Cfr ivi, 348.
[19]. Cfr ivi, 349.
[20]. J. Winter, Il giorno in cui finì la Grande Guerra. Losanna, 24 luglio 1923: i civili ostaggio della pace, Bologna, il Mulino, 2023, 241.
[21]. Ivi, 242. Il 23 ottobre il presidente francese Poincaré scrisse ad Avetis Aharonian, firmatario del Trattato di Sèvres, che aveva dato vita alla Repubblica di Armenia, affermando che il passaggio del suo Paese in mano sovietica avrebbe impedito ai vincitori del conflitto di invitare una delegazione armena a Losanna. Questo fu il «pretesto legale per disattendere l’impegno preso dagli Alleati a creare una patria armena al termine della guerra» (ivi, 205).
[22]. La laicità turca aveva caratteristiche del tutto particolari. Nel mondo musulmano era considerata come un esempio di separazione tra politica e religione. In realtà, essa era qualcosa di molto diverso dalla laicità alla francese (alla quale intendeva ispirarsi): si presentava piuttosto come una forma di «statalizzazione» della religione dominante, secondo modalità in parte ereditate dal sistema ottomano. «Paradossalmente la fine del pluralismo confessionale ottomano ha fatto venir meno una certa neutralità dello Stato nelle questioni religiose» (G. Del Zanna, La fine dell’impero ottomano, cit., 15). Ciò avvenne obbligando il regime repubblicano a intromettersi in diverse situazioni e problematiche di carattere confessionale.
[23]. J. L. Gelvin, Storia del Medio Oriente moderno,cit., 237. Atatürk, il «civilizzatore», viene spesso rappresentato, nei monumenti celebrativi, non come un grande generale a cavallo, ma come un maestro che insegna ai bambini a leggere e scrivere, e alle donne come votare.
[24]. G. Sale, «La Turchia e le elezioni di maggio 2023», in Civ. Catt. 2023 II 578.