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Un testo rivolto a tutti
La parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37) può essere definita una vicenda dell’uomo comune che parla all’uomo comune. L’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti non a caso la riporta all’interno del tema della fraternità universale, considerandola alla portata di tutti. Essa quindi costituisce il centro della riflessione del Papa su questo tema (che occupa ben 20 numeri dell’enciclica), e anche il suo punto di riferimento ideale: «Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare»[1].
Colpisce anzitutto la concretezza con la quale nel testo di Luca viene posta la questione della fratellanza. Lo si capisce dalla risposta di Gesù alla domanda del dottore della legge («Chi è il mio prossimo?»): una risposta niente affatto teorica. Gesù non fa proclamazioni idilliache, ma presenta una scena di cruda violenza nella quale chiunque può riconoscersi; nello stesso tempo, proprio quella situazione di sofferenza e bisogno si rivela inaspettatamente un luogo in cui incontrare il prossimo, letteralmente «colui che è vicino a me», al di là di ogni differenza di lingua, ceto e fede religiosa[2].
Di fronte alla situazione concreta, la domanda viene rovesciata, interpellando personalmente l’ascoltatore nella sua situazione di possibile precarietà: «Quando tu sei nei guai, chi è stato vicino a te?». Si tratta di una risposta esistenziale, che nasce dal bisogno disperato di trovare aiuto. E quando si ripensa a quelle situazioni, si scopre talvolta con stupore che spesso il soccorritore non è il più vicino fisicamente, il parente, il conoscente, ma il perfetto sconosciuto, il lontano, il passante casuale. Che è appunto lo scenario delineato dalla parabola: una parabola, si potrebbe dire, realista[3].
Gli aspetti rilevanti della parabola
Il brano presenta anzitutto un dottore della legge, cioè un personaggio ritenuto giusto nell’immaginario del tempo, che pone a Gesù l’unica domanda veramente importante: «Che fare per vivere?». Luca utilizza un termine preciso, «ereditare» (klēronomeō): si tratta di un bene che non si merita, ma, come l’eredità appunto, si può soltanto ricevere.
Gesù, come spesso accade in occasione di grandi questioni teologiche, non risponde, ma invita l’interlocutore stesso a trovare la risposta. E difatti il dottore della legge è perfettamente in grado di farlo, unendo due testi della Torah: la vita si riceve amando Dio e il prossimo (cfr Dt 6,5; Lv 19,18). Il commento di Gesù sposta il centro di interesse: egli approva la risposta del dottore della legge, ma il punto è attuarla («Fa’ questo e vivrai»). Il banco di prova è la vita, più che la correttezza delle definizioni. Ma è proprio questo che sembra interessare al dottore della legge, e difatti egli pone un’ulteriore domanda: «E chi è il mio prossimo?». Stabilire il possibile confine tra chi sia da amare e chi invece da odiare era infatti una questione molto sentita e dibattuta nel mondo giudaico.
Secondo alcuni, si dovevano amare solamente gli appartenenti alla propria stirpe. Un passo del Talmud (Abodah Zara, 26) presenta il caso contrario a quello mostrato dalla parabola: se un ebreo dovesse trovare un samaritano e un pagano feriti, non è obbligato a soccorrerli, anzi rischierebbe di contrarre impurità.
La risposta di Gesù presenta una scena di vita ben nota. La strada tra Gerusalemme e Gerico era un luogo molto pericoloso per chi si avventurava da solo, e non di rado cadeva in agguati e imboscate, a rischio della propria vita. Il primo personaggio della vicenda non ha caratteristiche particolari; è «un uomo», un termine che esclude nuovamente l’approccio speculativo: nessuna precisazione circa la stirpe, l’appartenenza religiosa o la moralità. L’unico tratto su cui Gesù indugia è che quest’uomo è stato oggetto di violenza e che morirà se non troverà soccorso. Una situazione che può riguardare chiunque: essere assalito dai malfattori. Gesù non si sofferma neppure su di loro, ma fa seguire due personaggi che per caso si imbattono nel malcapitato. E qui, a differenza di quanto presentato prima, il testo precisa la loro appartenenza; sono persone rispettabili, religiose, un sacerdote e un levita, che il brano non caratterizza positivamente: entrambi hanno la medesima reazione, passano dall’altra parte. C’è una nota polemica, che può suonare offensiva per il dottore della legge: appartenenza religiosa e capacità di vivere la fratellanza non coincidono.
Infine, entra in scena un personaggio connotato positivamente, l’eroe della parabola. Se si fosse trattato di un pio giudeo, Gesù avrebbe riscosso la piena approvazione degli ascoltatori. E invece, di nuovo, egli delude le attese: il personaggio non ha nulla di attraente, è un samaritano – non un buon samaritano! –, appartenente a un popolo disprezzato dagli ebrei, perché si era corrotto unendosi ad altri popoli e alle loro tradizioni, rinnegando la fede dei padri (cfr 2 Re 17). Il Siracide lo chiama «il popolo stolto che abita in Sichem e che non merita nemmeno di essere considerato un popolo» (Sir 50,25-26).
Si tratta di una rivalità menzionata dallo stesso evangelista. Egli poco prima (cfr Lc 9,51-56) aveva riportato il rifiuto da parte dei samaritani di accogliere Gesù, perché era diretto a Gerusalemme. Ciononostante Gesù sceglie proprio un samaritano: pur trovandosi a passare per una strada pericolosa, quando vede il malcapitato, si ferma, non mostra alcuna fretta. Il testo sembra ora rallentare, indugia a descrivere con lentezza ciascuno dei suoi gesti: sono particolarmente degni di nota i numerosi termini impiegati, sette dei quali – nella Bibbia il numero 7 indica la totalità – presenti soltanto qui, come a dire dell’importanza di questa scena, che costituisce il punto focale del racconto.
Il samaritano si fa vicino, non ha timore di possibili contagi o di essere a sua volta assalito, presta opera di pronto soccorso, mettendoci del suo: fascia le ferite, versa olio e vino, lo porta alla locanda, ne paga il ricovero e promette di ritornare, disposto a pagare le ulteriori spese. Anche il dettaglio della locanda ha una finalità polemica. Al tempo di Gesù c’erano infatti due tipi di locande: la prima ospitava gratuitamente, in linea con la sacralità riservata all’ospite; nella seconda invece (chiamata pandocheion, il termine impiegato da Luca) si doveva pagare, violando il sacro precetto del mondo orientale. Il significato di questa scelta è evidente: «Non solo il samaritano gode di cattiva fama presso l’interlocutore di Gesù, ma anche colui al quale ha chiesto di proseguire le cure: l’esempio viene da due persone malfamate!»[4].
Un insegnamento sconcertante
Il messaggio della parabola è inequivocabile: il bene viene dalle persone e situazioni più impensate; la fratellanza non conosce limiti, etichette, cerchie, appartenenze. E si capisce davvero chi è il prossimo quando ci si trova nei guai e si cerca disperatamente aiuto. È una lettura sconcertante delle situazioni tragiche, nelle quali, come la storia ha più volte mostrato, insieme a orrori e prevaricazioni, emergono atti di bontà e di coraggio ammirevoli, compiuti proprio dalle persone più inaspettate.
Una versione attuale della parabola proposta da un esegeta, Vittorio Fusco, può rendere l’idea della sua radicale impertinenza nei confronti del sentire comune: «Immagina tu, bianco razzista e magari affiliato al Ku Klux Klan, tu che fai chiasso se in un locale entra un negro e non perdi l’occasione per manifestare il tuo disprezzo e la tua avversione, immagina di trovarti coinvolto in un incidente stradale su una via poco frequentata e di star lì a morire dissanguato, mentre qualche rara auto con un bianco alla guida passa e non si ferma; immagina che, a un certo punto, si trovi a passare un medico di colore… Il punto non è: aiutare i negri, gli ebrei, o altri discriminati ma piuttosto quello di trovarsi in una situazione in cui si può essere aiutati solo da un negro, da un ebreo, un comunista, un fascista, insomma uno che è dall’altra parte della barricata»[5].
L’impertinenza della parabola è mostrata anche dalla risposta del dottore della legge alla domanda finale di Gesù su chi sia il prossimo. Egli rimane sul vago, coglie certamente un aspetto centrale della parabola («chi ha avuto compassione»), ma non il dettaglio (il samaritano), a dimostrazione della dimensione scandalosa di quanto ascoltato.
Insieme all’ordinarietà, l’altra caratteristica del protagonista della scena presentata da Gesù è l’universalità: il prossimo è chiunque si trovi nel bisogno, così come chiunque può usare nei suoi confronti il proprio potere di bene.
La riflessione psicologica
La capacità della parabola di mostrare le sorprese racchiuse nella vita ordinaria trova ulteriori conferme dal contributo delle scienze umane. Nel corso di un interessante esperimento, una équipe di psicologi ha utilizzato questo testo per verificare quanto la proclamazione di valori e di scelte legate all’aiuto, presenti in particolare nella vita religiosa, possano favorire una maggiore propensione a prestare soccorso in situazioni di emergenza. La parabola, come si è visto, esclude nettamente tale ipotesi: il sacerdote e il levita sono proprio i due personaggi che non soccorrono il malcapitato, anzi passano decisamente dall’altra parte. Una conclusione paradossale che i ricercatori hanno voluto verificare, conducendo un esperimento su un campione di 67 studenti del Princeton Theological Seminary[6].
Essi sono stati inizialmente divisi in due gruppi: il primo doveva preparare un sermone sulla parabola, il secondo un discorso sulle opportunità di lavoro dopo gli studi. Agli studenti era stato detto che si trattava di un concorso per valutare la capacità di persuasione in ordine al tema assegnato. In realtà, ai ricercatori non interessava sapere chi potesse tenere il discorso più efficace. Assegnare un differente compito era una sorta di confronto tra un campione studiato e un gruppo di controllo. In altre parole, essi volevano verificare quanto la condivisione di una visione religiosa e il fatto di impegnare la mente in una precisa tematica – nel caso del gruppo 1, la necessità di aiutare il prossimo – facesse qualche differenza rispetto al gruppo 2.
La preparazione del discorso doveva essere tenuta in un edificio scelto dai ricercatori, e la sua esposizione veniva registrata in un altro luogo. I componenti dei due gruppi sono stati mischiati tra loro, e ulteriormente divisi in tre sottogruppi a seconda del tempo a disposizione: il primo sottogruppo aveva tutto il tempo per la preparazione; il secondo aveva un tempo fissato, ma ragionevole; il terzo aveva pochissimo tempo (i ricercatori continuavano a ripetere di essere molto in ritardo e che ci si doveva affrettare).
Dopo la registrazione, venne sottoposto ai soggetti un questionario sull’aiuto: «(a) “Quando è stata l’ultima volta che hai visto una persona che sembrava bisognosa di aiuto?”. (b) “Quando è stata l’ultima volta che non hai aiutato un bisognoso?”. (c) “Hai avuto esperienza di aiutare persone bisognose? Se è così, descrivila brevemente”»[7].
Sulla strada tra i due edifici venne fatto trovare ai vari gruppi un uomo a terra. La persona era stesa in evidente stato di malessere, tossiva e si lamentava; ciò poteva essere dovuto ai motivi più diversi: aggressione, malanno, alcolismo, assunzione di droghe ecc. Il suo abbigliamento e la fisionomia erano volutamente ambigui. L’atteggiamento degli studenti che non si fermarono venne messo a confronto con le risposte date al questionario, per verificare se la situazione fosse stata percepita da loro in termini di necessità di aiuto. In un colloquio successivo, furono illustrate agli studenti le reali finalità dello studio, le loro reazioni e le motivazioni del comportamento tenuto.
I risultati
Una prima evidente conclusione dell’esperimento è stata che non si mostrava alcuna differenza tra chi doveva tenere una conferenza sui lavori post gradum e chi invece doveva commentare la parabola del buon samaritano. La predisposizione di base non ha influito sul loro comportamento. Dichiararsi religiosi in modo convinto non accresce le probabilità di fermarsi ad aiutare. Analogamente, lo studio di un testo religioso, anche se parte della propria visione della vita, non ha reso i soggetti più propensi di altri a offrire aiuto. Più specificamente, entrare nell’ordine di idee di tenere un discorso sulla necessità di aiutare qualcuno in difficoltà non ha avuto alcun impatto sul risultato. Il dato è in linea con la parabola ed evidenzia una situazione paradossale, dal momento che si trattava di studenti di teologia, molti dei quali animati dal desiderio di diventare sacerdoti. Invece, alcuni fattori situazionali, apparentemente banali, giocarono un ruolo preponderante nel determinare cosa avrebbero fatto le persone.
Le successive interviste con gli studenti hanno mostrato che, mentre ricordavano la vittima, la loro attenzione su ciò che dovevano fare era così alta, a causa della fretta, che in qualchemodo avevano censurato la situazione di quella persona e avevano proseguito per portare a termine il loro compito.
Ciò che ha fatto la differenza era il grado di fretta. A seconda del tempo a disposizione, le differenze sono state molto significative: nel primo sottogruppo (bassa fretta), si è fermato il 63% del campione; nel secondo (fretta moderata), si è fermato il 45%; nel terzo, (alta fretta) il 10%. Alcuni si sentivano così pressati che hanno letteralmente scavalcato la persona in difficoltà, salvo poi avvertire un senso di colpa durante il colloquio successivo. La media complessiva di chi ha prestato aiuto è stata del 39%. L’indicatore statistico della parabola è del 33% (2/3 non si fermano e 1/3 presta soccorso).
I ricercatori hanno poi esaminato coloro che si sono fermati, rilevando modalità differenti di aiuto: 1) c’è chi si è offerto di aiutare e, alla risposta negativa dell’uomo sofferente («È tutto ok, ho preso la medicina, passerà presto»), ha proseguito il cammino; 2) c’è chi lo ha fatto sedere e ha voluto offrire qualcosa per poi andarsene;
3) c’è infine chi è rimasto con la persona bisognosa finché non sono arrivati i soccorsi.
Gli appartenenti al terzo gruppo si sono basati sulla situazione di bisogno piuttosto che sulle dichiarazioni dell’uomo sofferente; hanno deciso di prestare aiuto perché lo hanno considerato qualcosa di importante in sé stesso, ciò che i ricercatori hanno chiamato «religiosità alla maniera samaritana»:«Questi ultimi soggetti, concepiscono la religione come ricerca di significato nel loro mondo personale e sociale, e sembrano perciò più reattivi a riconoscere i bisogni della vittima»[8].
L’importanza di rallentare
Nel resoconto successivo, coloro che non si sono fermati avevano notato tutti che l’uomo era in evidente difficoltà, ma non lo hanno elaborato quando si trovavano in quella situazione: quell’immagine è rimasta come congelata, salvo emergere dopo, una volta arrivati a destinazione. Ritornando con la mente alla scena, i sentimenti prevalenti erano la colpa e il rammarico. Più che di una decisione, si trattava di un automatismo. Essi erano pressati dal ricercatore e, di fronte alla possibile scelta, si sentivano spinti a proseguire per assolvere al compito loro richiesto: «Il conflitto, piuttosto che l’insensibilità, può spiegare la loro incapacità di fermarsi»[9]. In questa situazione, la distrazione cognitiva è così alta da rendere estremamente ardua la relazione con le altre persone e la capacità di notare ciò di cui hanno bisogno.
Il rapporto con il tempo si traduce in differenti modi di agire. Coloro che andavano di fretta erano orientati verso il futuro. La loro mente era concentrata sul fatto che sarebbero arrivati in ritardo, e quindi non si sono fermati per prestare soccorso. Al contrario, quelli che si sono fermati erano più orientati verso il presente, erano più consapevoli e attenti alla situazione.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Per chi ha avuto tutto il tempo a disposizione è più probabile che abbia volutamente scelto di non pensarci, e in tal caso la situazione è più grave. Nel confronto successivo essi si sono mostrati ansiosi ed eccitati.
Se la consapevolezza e la compassione sono di grande aiuto alla fratellanza, l’ostacolo principale non sembra essere la cattiveria, ma la fretta e la superficialità, un aspetto riconosciuto con chiarezza dall’enciclica Fratelli tutti: «Il mettersi seduti ad ascoltare l’altro, caratteristico di un incontro umano, è un paradigma di atteggiamento accogliente, di chi supera il narcisismo e accoglie l’altro, gli presta attenzione, gli fa spazio nella propria cerchia. […]. “A volte la velocità del mondo moderno, la frenesia ci impedisce di ascoltare bene quello che dice l’altra persona. E quando è a metà del suo discorso, già la interrompiamo e vogliamo risponderle mentre ancora non ha finito di parlare. Non bisogna perdere la capacità di ascolto”» (FT 48).
Quando si è di fretta, la propria mappa mentale si restringe e si diventa succubi di un sentimento: l’ansia, letteralmente ciò che toglie il respiro. È come mettere tra parentesi la consapevolezza e le potenzialità di vita, dato che il respiro è vita.
Ma i fattori situazionali non sono comunque sufficienti a spiegare quanto accaduto. Rimane il fatto che il 10% di chi si trovava in grande fretta si è comunque fermato, e che quasi il 40% di chi ha avuto tutto il tempo a disposizione ha continuato il proprio cammino. Cosa ha fatto la differenza?
Cosa fa di un uomo un fratello?
La ricerca purtroppo non si è soffermata a esaminare la personalità di coloro che hanno prestato aiuto. La parabola lascia intendere che si tratti di una persona del tutto ordinaria, priva di doti eccezionali, come a dire che quello che ha fatto lui potrebbe farlo chiunque.
Di fronte a un gruppo posto in situazione critica, non è possibile individuare in anticipo chi sarà colui che presterà aiuto e chi invece diventerà un violento o più semplicemente un pavido. Da qui, come nella parabola, la sorpresa che puntualmente suscita il comportamento eroico: esso nasce spesso da persone semplici e nascoste, del tutto irrilevanti, che con piccoli gesti concreti hanno lasciato un segno e cambiato una situazione. Tuttavia, è proprio questa semplicità a racchiudere un insegnamento prezioso, rivolto a ogni essere umano. Un dato anch’esso in linea con le ricerche compiute su coloro che hanno prestato aiuto in circostanze tragiche, e che può trovare molteplici conferme nella storia anche recente. Le vicende della reclusione e dei lager nel corso della Seconda guerra mondiale mostrano, in una maniera tutta particolare, tra le sue pieghe nascoste, la presenza di figure eroiche, discrete, capaci di portare luce e bontà nelle situazioni più terribili, dove il male sembrava regnare incontrastato.
Si può ad esempio ricordare la figura di Milena Jesenská, una giornalista di origine ceca, che fu anche amica di Franz Kafka. La reclusione nel lager non spezza la sua dignità, ma le offre piuttosto delle opportunità di compiere gesti eroici, esponendosi a gravi rischi: «In infermeria si occupa delle pratiche che riguardano le malattie veneree. Per salvare le sifilitiche dalle “selezioni” mortali, falsifica le loro analisi, rischiando ogni volta la vita. Sono malate che la interessano personalmente, benché appartengano a un ambiente molto diverso dal suo (si tratta di “asociali”, di prostitute). Ma in esse sa scoprire la “scintilla di umanità”»[10].
Milena stringe amicizia in particolare con Margaret Buber-Neumann, che dopo la guerra le dedicherà una toccante biografia. In questa amicizia si può ritrovare la verità del detto evangelico, secondo cui vi è più gioia nel dare che nel ricevere: «Una volta Milena porta all’amica del caffelatte zuccherato – ma è un alimento eccezionale, ottenuto dopo lunghe trattative. Senza contare che è vietato andare da una parte all’altra del lager e che Milena rischia perciò una dura punizione. Un’altra volta la situazione è molto più seria: la Buber-Neumann è agli arresti e Milena si presenta al capo della Gestapo del lager, riuscendo a imporsi quel tanto che basta per farsi ascoltare e addirittura per ottenere il permesso d’incontrare l’amica in prigione – favore inaudito. Quando ormai sta per morire, Milena si ritrova circondata da innumerevoli amiche»[11].
L’incontro con persone di questo tipo viene vissuto da chi ne ha beneficiato come un bene più grande di ogni possibile sofferenza e male subìto. Quando muore il suo angelo custode, la Buber-Neumann arriva persino a considerare l’esperienza del lager come un’occasione propizia, che le ha consentito di ricevere il dono più bello della sua vita: «Ringrazio la sorte di avermi mandata a Ravensbrück e di avermi quindi permesso d’incontrare Milena»[12].
I racconti di coloro che sono passati attraverso la persecuzione riscontrano puntualmente, insieme alla banalità del male, la presenza di queste persone, gli «eroi qualunque». Il gesuita Giacomo Gardin, ripercorrendo i 10 anni trascorsi ai lavori forzati in Albania, termina il suo racconto esplicitando alcuni punti preziosi, che hanno portato una luce differente sul mistero dell’esistenza umana, soprattutto circa il versante del bene e del male. Egli nota come quell’esperienza gli abbia insegnato molte cose sulla natura umana: anzitutto a conoscere sé stesso, scoprendo in più di un’occasione di possedere energie e motivazioni che in tempi tranquilli e distaccati avrebbe ritenuto impossibili. Ma riconosce soprattutto quanto risulti difficile leggere nel cuore di chi gli sta accanto, scoprendo gesti imprevedibili in persone che pensava di conoscere fin troppo bene: gente che aveva stimato e rispettato in sommo grado si era venduta al primo venuto pur di avere qualche piccola gratificazione. E invece, gente per la quale non avrebbe dato un soldo bucato, è andata alla fucilazione proclamando la propria fede con dignità e coraggio…[13].
Questo carattere di sorpresa e ordinarietà pacifica, priva di appariscenza, è ciò che soprattutto differenzia gli eroi della vita reale dagli eroi della letteratura e dei film, i quali, oltre a possedere doti e qualità fuori del comune, sono solitamente associati a imprese legate alla violenza e alla distruzione[14].
L’eroe della vita vissuta assomiglia invece in modo impressionante ai personaggi che la Bibbia chiama gli anawim, «i poveri del Signore», che diventeranno i santi della tradizione cristiana: persone per lo più semplici e umili, ma in grado di riconoscere e compiere la volontà di Dio nella loro particolare situazione. E nella Bibbia sono proprio gli anawim, non i potenti o i grandi della Terra, a cambiare la storia. Tra essi, si possono ad esempio ricordare i personaggi del Natale: i pastori, Maria e Giuseppe, gli anziani Elisabetta e Zaccaria, Simeone e Anna, i magi…
Anche nel momento della prova, la figura dell’eroe si manifesta nelle persone più insospettate: il ladrone sulla croce, gli operai dell’ultima ora, la peccatrice della casa di Simone, la Maddalena, Zaccheo, il centurione, la donna cananea… personaggi apparentemente senza valore, ma che si dimostrano capaci di scelte inattese, non catalogabili in quegli schemi in cui la società, il pensiero comune, il sentire della folla li avevano relegati. Essi si rivelano a partire da accadimenti apparentemente fortuiti e casuali della vita ordinaria, ma sanno riconoscere che in quella situazione è in gioco qualcosa che ha un valore inestimabile.
Le caratteristiche dell’eroe comune
Gli studi condotti in proposito, per quanto scarsi, sono comunque in grado di riconoscere alcune caratteristiche comuni alla fenomenologia dell’eroe, che lo hanno reso capace, di fronte a una situazione critica, di procedere controcorrente. Se ne possono evidenziare almeno sei: 1) la percezione di ciò che sta accadendo in termini di gravità etica; 2) il riconoscimento di un potere a disposizione; 3) l’urgenza di un intervento da mettere in atto; 4) il coraggio di attuare l’esigenza di giustizia; 5) l’autotrascendenza, che consente di porsi idealmente al di sopra della situazione e comprendere l’avvenimento nella sua globalità, favorendo la consapevolezza; 6) la capacità di essere «presenti al presente», la traduzione psicologica della vigilanza evangelica.
Le ultime tre caratteristiche sembrano essere gli elementi davvero decisivi, anche se il loro esercizio può essere reso possibile dall’apporto delle altre componenti: «Il coraggio, la giustizia e la trascendenza sono le caratteristiche più importanti dell’eroismo. La trascendenza può consentire a un individuo coinvolto in un atto eroico di rimanere distaccato dalle sue conseguenze negative, previste o rivelate, che sono associate al suo comportamento»[15]. La consapevolezza è altrettanto fondamentale. Parafrasando Ernest Hemingway, si potrebbe dire che «quando suona quella campana, sa che suona per lui. È l’appello a esprimere il lato migliore della natura umana, una vigorosa affermazione della dignità dell’essere umano contro il male»[16].
Rispetto alla parabola, la riflessione psicologica precisa il fattore tempo e la consapevolezza; anche il testo di Luca menziona l’importanza di uno sguardo attento, ma ciò che sembra fare la differenza è soprattutto una precisa attitudine relazionale, divenuta anch’essa di recente oggetto di interesse in sede psicologica: la compassione[17].
Un altro aspetto importante, anche se non evidenziato, della personalità del samaritano come eroe comune è la sua disponibilità a correre rischi: la strada sulla quale stava camminando era pericolosa e lui poteva diventare facilmente vittima di aggressione. Il samaritano, di fronte al malcapitato, si sarà posto delle domande che probabilmente erano passate anche per la mente del sacerdote, del levita e di coloro che nell’esperimento hanno preferito passare oltre: «E se quell’uomo non fosse realmente ferito, ma fingesse, preparando una trappola a chi decide di soccorrerlo?». O poteva incappare negli stessi briganti nel momento in cui avesse deciso di aiutare il malcapitato.
Non esiste risposta capace di fugare questi dubbi. Soltanto la compassione può consentire di superare paure e incertezze e dare espressione alla parte migliore di sé: «La compassione rende l’altro prossimo, a differenza della paura che lo allontana. La voce della paura domanda: “Cosa succederà se mi fermo?”. La voce della compassione capovolge la prospettiva: “Cosa succederà a lui se non mi fermo?”» (F. Armellini).
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[1]. Francesco, Enciclica Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale (FT), 3 ottobre 2020, n. 56.
[2]. «È interessante come le differenze tra i personaggi del racconto risultino completamente trasformate nel confronto con la dolorosa manifestazione dell’uomo caduto, umiliato. Non c’è più distinzione tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c’è sacerdote né commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri? Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura» (FT 70).
[3]. Per un inquadramento generale della parabola e un commento, si veda B. Maggioni, Le parabole evangeliche, Milano, Vita e Pensiero, 1992; D. Attinger, Evangelo secondo Luca. Il cammino della benedizione, Magnano (Bi), Qiqajon, 2015.
[4]. D. Attinger, Evangelo secondo Luca…, cit., 306.
[5]. V. Fusco, Oltre la parabola, Roma, Borla, 1983, 135.
[6]. Cfr J. M. Darley – C. D. Batson,«“From Jerusalem to Jericho”: A study of situational and dispositional variables in helping behaviour», in Journal of Personality and Social Psychology 27 (1973/1) 100-108. Cfr A. G. Greenwald, «Does the Good Samaritan parable increase helping? A comment on Darley and Batson’s no-effect conclusion», ivi 32 (1975/4) 578–583.
[7]. Ivi, 104.
[8]. Ivi, 107.
[9]. Ivi, 108.
[10]. T. Todorov, Di fronte all’estremo. Quale etica per il secolo dei gulag e dei campi di sterminio?,Milano, Garzanti, 1992, 75.
[11]. Ivi, 75 s.
[12]. M. Buber-Neumann, Déportée à Ravensbrück, Paris, Seuil, 1988, 73.
[13]. Cfr G. Gardin, Dieci anni di prigionia in Albania (1945-1955), Roma, La Civiltà Cattolica, 1986, 93.
[14]. «Storicamente, l’eroe è un maschio guerriero, come Achille, Agamennone o Ulisse. Essi eliminano donne e ragazzi. Mai donne, mai ragazzi. Essenzialmente maschi adulti assassini […]. L’idea epica dell’eroe, in cui la persona comune non può riconoscersi, è tra le cause della passività dei più» (G. Sabato, «Studiare da eroi», in Mente e cervello 9 [2011] 38 s).
[15]. Ph. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?,Milano, Raffaello Cortina, 2008, 628; 632 s. Cfr M. E. P. Seligman – T. A. Steen – N. Park – C. Peterson, «Positive psychology progress», in American Psychologist 60 (2005) 410-421; S. Becker – A. Eagly, «The heroism of women and men», ivi 59 (2004) 163-178.
[16]. Ph. Zimbardo, L’effetto Lucifero…, cit., XXX.
[17]. Cfr G. Cucci, «La psicologia della compassione», in Civ. Catt. 2021 III 471-480.