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Scienza, arte, disegno, poesia, politica, disimpegno, teatro, amore, fuga: Johann Wolfgang von Goethe ha rappresentato una delle rare incarnazioni del sogno rinascimentale dell’uomo totale, il che significa fare i conti con quei limiti umani che assumono talvolta, per il genio, le sembianze di sbarre di una prigione, la cui costruzione è attribuita da alcuni alla divinità, da altri ai limiti stessi dell’umano: in quest’ultimo caso, un umano da superare attraverso il passaggio all’Oltreuomo preconizzato da Nietzsche. Pensatore che è infatti presente nelle considerazioni a margine della Vita di Goethe del compianto Italo Alighiero Chiusano, grande germanista.
Questo libro è ancor oggi fondamentale per comprendere la complessità disarmante e, per alcuni versi, l’assoluta e spoglia semplicità (le due dimensioni non sono in contraddizione tra loro) del genio. Egli si aspettava la gloria da uno studio sull’origine dei colori più che da opere come il Faust e il Werther, che invece sono testimonianza di abissali ricognizioni nei regni interdetti all’umano e di cui restano a noi sconvolgenti tracce, sopravvissute a quel passaggio. D’altronde, lo aveva ricordato George Eliot nel Canto d’amore di J. Alfred Prufrock, nel suo immedesimarsi in colui che torna dal «dopo» e che ha conosciuto ogni cosa e riesce a comunicarla: «Io sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti, / torno per dirvi tutto, vi dirò tutto». Senza contare che uno dei centri gravitazionali del cosmo quantistico de Il lupo della steppa, di Hermann Hesse, è proprio Goethe.
Il dono è però anche quello di Tiresia, o la punizione di Prometeo, o semplicemente quello della creatura, che in realtà era assai più antica di Goethe stesso; quel Faust che cerca il momento perfetto, quello che venderebbe l’anima per poter dire all’attimo: «Sei così bello, fermati!», perché altrimenti la vita del cercatore geniale rischia di diventare una fuga costante dal tedio attraverso una trasgressione fine a sé stessa, la conoscenza di ciò che è precluso.
Il merito di questa opera di Chiusano è soprattutto quello di non aver ceduto alle sirene della semplificazione binaria: egoista, no; benefattore, amatore incessante, no; invece, misantropo e incapace di qualsiasi forma di affetto e tante altre semplificazioni. Il germanista ci fa entrare nel mondo dell’autore delle Affinità elettive e dentro i meandri del genio stesso, rivelandone l’assoluta, disarmante complessità, le debolezze e la grande forza creativa, la ricerca del grande amore e, insieme, l’abbandono alla sensualità; l’egoismo di un grande che per comporre rinuncia ai contatti umani e si isola nella sua torre d’avorio che il granduca Carl August di Sassonia gli ha concesso a Weimar.
Difficilmente un solo libro è riuscito, come questo, a guidare, con una scrittura snella, profonda ma mai compiaciuta e fine a sé stessa, nelle vie segrete di uno di coloro che hanno rappresentato contemporaneamente lo spirito del proprio tempo e la capacità di attraversare i millenni grazie a un’incessante ricerca di senso. E Chiusano fa bene a mettere in evidenza in Goethe le tappe di un viaggio interiore – e reale, come quello in Italia, che ha cambiato la sua vita – in cui non vi è stata solo negazione del cristianesimo – che, in realtà, era soprattutto avversione a riti e usanze esteriori –, ma anche distinguo e ammissioni, come nel caso di san Filippo Neri, di cui lo scrittore confessa di essersi invaghito letteralmente, celebrandolo come «uomo valente, pio, energico, fattivo» (p. 228).
In realtà Goethe – come tutti i grandi –, da Dante a Shakespeare, nella ricerca del senso delle cose, soprattutto della loro origine, attraversa molti continenti, non solo quelli «ortodossi», ma si spinge oltre. Non è un caso che per tanti anni lo scrittore si sia speso nella ricerca della «pianta originaria» da cui provenisse ogni altra. Per questo Chiusano mette in riga i tentativi di ingabbiamento della complessità goethiana all’interno di un termine onnivoro, come «panteista», «pagano», «anti-cristiano», «ateo», «politeista». La realtà è molto più complessa. Goethe aveva una concezione divina della natura: la vita nasce da essa e torna a essa. Ma questo non basta per farlo diventare uno spinoziano senza ripensamenti. Non significa la fine di ogni ricerca, perché la vita stessa è ricerca inesausta e sorprendente. E allora ci sembra valida la conclusione di Chiusano, che si chiede non retoricamente: «In fondo che cos’è il Faust, se non il dramma di un’anima da salvare e che si salva?» (p. 453).