La comprensione dell’incarnazione, cioè del concetto centrale della fede cristiana, è un elemento fondamentale per una corretta teologia della disabilità. Che cosa significa dire che Cristo è umano e che l’uomo è fatto a immagine di Dio? Se le nostre risposte a queste domande si basano sulle capacità fisiche e mentali, escluderemo automaticamente le persone disabili, in quanto aberrazioni bisognose di cura. Ma qual è l’alternativa?
Nancy Eiesland, autrice del celebre The Disabled God, fu la prima a prospettare l’idea (allora sconvolgente) che la disabilità fosse parte integrante dell’identità di Cristo: le mani e il costato feriti che, nella loro stessa menomazione, dichiaravano la divinità[1]. Altri hanno poi parlato dell’obbligo di accoglienza, da parte della Chiesa, delle persone disabili, e al riguardo il riferimento preferenziale è alla parabola del banchetto di Luca 13. Tuttavia, pur se la Chiesa negli ultimi anni si è allontanata da una concezione delle persone disabili come oggetto di carità e al suo interno si è parlato sempre più di aprire alle persone disabili la via che dall’«esilio interno» conduce alla partecipazione ecclesiale attiva, c’è stato poco dibattito teologico sulla natura della disabilità in quanto tale[2]. Persiste il tacito presupposto che una Chiesa
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