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L’opera di Paolo Marino Cattorini, professore ordinario di bioetica presso l’Università degli Studi dell’Insubria e già componente del Comitato nazionale per la bioetica, è estremamente interessante e attuale in questo tempo in cui sono molto dibattute le questioni riguardanti il fine vita.
Leggendo il testo, composto da 14 capitoli, si può desumere il notevole impegno che l’autore ha profuso nel considerare i diversi modi in cui il problema è affrontato dal punto di vista filosofico-teologico, ma anche a partire dalle storie di vita presentate dal cinema e dai testi di narrativa. Egli ha potuto così concludere che la più diffusa definizione di «suicidio» è stata diversamente interpretata.
Innanzitutto l’autore fa riferimento all’impostazione tomista, secondo cui il suicidio è ritenuto atto contro natura, perché si contrappone all’esigenza dell’autoconservazione, priva la società di un membro e si arroga il diritto di giudicare il valore della vita, che è dono di Dio. Osserva però che nel corso della storia uomini e donne si sono dati la morte non per contrapposizione a Dio o per il disconoscimento del dono della vita, ma come segno di protesta contro ingiustizie politiche, economico-sociali, o per affermare valori morali e religiosi.
Cattorini osserva che questi episodi potrebbero essere ritenuti un grave disordine morale sul piano oggettivo, ma dal punto di vista soggettivo assumono un diverso significato. Riporta a conferma di ciò alcuni documenti ecclesiali, tra cui la «Dichiarazione sull’eutanasia», redatta nel 1980 dalla Congregazione per la dottrina della fede, che sostiene che «si dovrà tenere ben distinto dal suicidio quel sacrificio con il quale per una causa superiore – quali la gloria di Dio, la salvezza delle anime, o il servizio dei fratelli – si offre o si pone in pericolo la propria vita».
Secondo Cattorini, il modo tradizionale di impostare la questione è almeno in parte controverso e non sufficientemente chiarificatore. Incerto gli sembra essere il «principio del duplice effetto» che, a debite condizioni, ritiene normalmente legittimo compiere un atto con una finalità buona, anche se si è consapevoli che può provocare un effetto cattivo. Secondo alcuni teologi, quando ci si trova comunque costretti a compiere un’azione negativa, sarebbe lecito «derivare il bene direttamente dall’effetto negativo» (p. 68). Chi interpreta così il principio, si avvicina al «proporzionalismo», messo in discussione dalla Veritatis splendor (cfr n. 75).
Alcune tesi dell’autore entrano in dialogo con quelle di pensatori protestanti quali Karl Barth e Dietrich Bonhoeffer, che, in ossequio al riconoscimento dell’autonomia individuale, pur essendo generalmente contrari alla legalizzazione dell’eutanasia attiva, non escludono la possibilità di approvare scelte estreme, come la decisione di morire quando ci si trova in situazioni cliniche particolarmente problematiche.
Alla fine del primo capitolo si sostiene che «il suicidio in senso forte, che è stato tradizionalmente condannato come peccato dalla morale cristiana, è quell’azione di darsi morte, che incarna un atteggiamento antitetico alla fede in Dio, al di là di specifici fattori clinici di sofferenza o di speciali eventi di delusione individuale» (p. 15). Poco dopo l’autore aggiunge che «la volontaria abbreviazione della vita che non veicoli un significato di ribellione, opposizione o chiusura nei confronti di Dio è definibile solo in senso lato come “suicidio” e non merita, in certi casi, una condanna in sede teologico-morale» (ivi). Nelle ultime pagine del libro ribadisce comunque forti riserve «contro la diffusione sociale di pratiche eutanasiche» e raccomanda di utilizzare una «prudenza casistica» sensibile e personalizzata nei casi in cui le apparecchiature mediche invadano pesantemente la vita di soggetti afflitti da patologie croniche invalidanti e dolorose.
Queste affermazioni stimolano indubbiamente il dibattito etico in ambito cristiano. Il testo ha peraltro il merito di mettere a tema l’esigenza di evitare in determinati contesti un prolungamento precario e penoso della vita. È condivisibile, infatti, l’affermazione che sia doveroso evitare la distanasia, ossia la morte difficile e travagliata di chi è sottoposto a trattamenti futili, destinati unicamente a prolungare il processo di morte. Ma la doverosa desistenza terapeutica, che suppone anche la possibilità di interrompere le terapie ormai inutili, come aveva già sostenuto Pio XII in un discorso del 1957, non può confondersi con l’abbandono del malato. Si deve avere sempre l’attenzione di riconoscergli il diritto di essere assistito e accompagnato verso la morte con un autentico rapporto di cura.
PAOLO M. CATTORINI
Suicidio? Un dibattito teologico
Torino, Claudiana, 2021, 256, € 19,00.