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Più di trent’anni fa, in Ghana ho abitato in una casa dei gesuiti, che si affacciava sull’Atlantico e sul porto peschereccio di More. Dalle sue finestre si scorgeva Fort Nassau, una stazione commerciale olandese, che risale al 1612 e prende il nome dagli Orange-Nassau, la casata reale dei Paesi Bassi. In quei luoghi, sulle coste dell’attuale Ghana, i mercanti portoghesi avevano trafficato oro ed esseri umani dalla fine del XV secolo. Nel Seicento quei territori vennero conquistati dagli olandesi, che mandarono avanti entrambi i commerci fino al XVIII secolo, quando li cedettero al Regno Unito.
Tutte e tre quelle potenze europee stabilirono scambi con popolazioni africane, della costa e dell’interno, per acquistare esseri umani, spesso prigionieri di guerra. Tra il 1500 e il 1900 furono strappati all’Africa 18 milioni di africani, ma solo 11 milioni attraversarono l’Atlantico; altri furono condotti nel Nord Africa, attraverso il Sahara, e nel Medio Oriente, ma anche al di là dell’Oceano Indiano, per soddisfare il fabbisogno dei mercati schiavistici nel Sud-ovest asiatico. Gli studiosi sono giunti alla conclusione che in quei secoli furono il Brasile e i Caraibi ad accogliere il maggior numero di schiavi africani, ma nel 1860 quasi quattro milioni di persone di origine africana vivevano in schiavitù negli Stati Uniti.
La schiavitù è una realtà antica quasi quanto l’uomo, ma si manifesta in forme diverse. Le persone di fede ebraica, cristiana e musulmana hanno conosciuto entrambi gli aspetti della schiavitù: non soltanto la sottomissione come schiavi, ma anche il dominio su persone ridotte in quella condizione. Quali considerazioni possiamo trarre dalle rispettive tradizioni di fede per predisporci ad affrontare i continui fenomeni di razzismo e disuguaglianza che investono i discendenti degli africani schiavizzati?