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«Eppure, Chiesa, ero venuto a te. / Pascal e i canti del Popolo Greco / tenevo stretti in mano, ardente, come se // il mistero contadino, quieto / e sordo nell’estate del quarantatre, / tra il borgo, le viti e il greto // del Tagliamento, fosse al centro / della terra e del cielo; e lì, gola, cuore e ventre // squarciati sul lontano sentiero / delle Fonde, consumavo le ore / del più bel tempo umano, l’intero // mio giorno di gioventù, in amori / la cui dolcezza ancora mi fa piangere… / Tra i libri sparsi, pochi fiori // azzurrini, e l’erba, l’erba candida / tra le saggine, io davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue».
Avrete certamente riconosciuto i versi tratti dal poemetto La religione del mio tempo; sono i versi iniziali di un’invettiva virulenta nei confronti della Chiesa cattolica, invettiva che si conclude con le parole «La Chiesa / è lo spietato cuore dello Stato». Nella violenza dell’invettiva Pasolini non può non ricordare gli anni della sua gioventù in Friuli, quando era stato preso da una sorta di raptus religioso e, parlando della religione del suo tempo, non può non mettere a confronto il cristianesimo dei contadini del Friuli con il paganesimo dei ragazzi delle borgate romane, in questa Roma dove, a proposito di religione del suo tempo, lui si trova a fare i conti anche con «i pii possessori di lotti», «turpi alunni di un Gesù corrotto».
In Pasolini c’erano due elementi contrastanti che convivevano all’interno della sua personalità: da una parte, una religiosità di tipo istintivo, informe, lontana dalla sistematizzazione dei dogmi del cristianesimo inteso come religione istituzionale; dall’altra, come figlio del suo secolo, non poteva non razionalizzare tutto questo. Allo stesso tempo, quindi, viveva due momenti reciprocamente antitetici, ripresi nella Religione del mio tempo…
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