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L’ipotesi del libro, espressa dal titolo, è che la maggior parte delle difficoltà educative sia legata alla tendenza degli adulti a proiettare i propri modelli ideali, e le proprie paure, su ragazzi e adolescenti. Un esempio tipico è attribuire la responsabilità di situazioni problematiche nello studio, nelle relazioni e negli interessi, a internet e ai suoi derivati, portando a isolamento e dipendenze.
La situzione si presenta invece molto più complessa. Occorre anzitutto notare il rapido cambiamento generazionale, che ha visto il modello familiare passare dalla dialettica edipica, propria della famiglia normativa (incentrata su dovere e obbedienza), alla famiglia narcisista, che privilegia altre priorità (espressività, originalità, felicità). Un cambiamento rilevabile dal mutato ruolo della figura genitoriale, meno presente fisicamente, ma molto più emotivamente, grazie soprattutto ai nuovi ritrovati elettronici. In questo contesto, cambiano le regole – si passa dal «Devi obbedire» al «Devi capire» – e anche la lettura delle problematiche: «Il conflitto, la sofferenza e la rottura dei rapporti non sono più percepiti come strumenti di educazione, sono diventati, anzi, atteggiamenti da condannare» (p. 27). L’irrompere della pandemia ha comportato un ulteriore cambiamento anche nella famiglia, che l’A. definisce «postnarcisista», segnata dalla rarefazione nelle relazioni, la perdita di grandi valori e punti di riferimento, e l’accresciuta difficoltà da parte di genitori ed educatori ad accettare la fragilità dei figli: essi reagiscono, cercando di rendere bambini e adolescenti «se stessi nel modo in cui loro lo intendono» (p. 32).
Questa modalità proiettiva è anche la chiave interpretativa delle problematiche dell’età dello sviluppo. Si incolpa una causa esterna – internet, appunto – senza cercare di capire, di ascoltare. Certo, internet ha contribuito a plasmare un immaginario che non lascia spazio alla sofferenza, al fallimento, alla bruttezza; ma questa immagine della vita richiede di essere decodificata e discussa, non semplicemente censurata. Per l’A., in questa linea censoria si collocano le proposte di impedire l’uso di smartphone e tablet nella scuola, accentuando così la spaccatura tra i due mondi e la capacità di capire cosa davvero stiano vivendo le nuove generazioni.
Il genitore, quando tende a ipercontrollare il figlio, non si rende conto che sta trasmettendo soprattutto le sue ansie, impedendo al ragazzo di costruire la propria identità. E difatti è proprio il Sé a mancare nella società postnarcisista. Da qui l’importanza di una «alfabetizzazione delle emozioni» dell’adulto e della consapevolezza dei modelli che egli trasmette al ragazzo. Ciò significa che il genitore può permettersi di sentirsi imperfetto, di avere paura, di essere triste, e che lo stesso può accadere al proprio figlio. Non si tratta di rimuovere questi sentimenti, ma piuttosto di investire sulla fiducia, che non è assenza di cura, ma piuttosto assenza di possessività, mandando il messaggio che il ragazzo ha le capacità di far fronte alla vita, accettando che possa sperimentare «dolore, inciampi, invece li stiamo inserendo in una società in cui tutto questo non può essere né espresso né integrato e tantomeno accettato» (p. 47).
Inoltre, anche per l’adulto esiste il pericolo dell’individualismo. La complessità delle sfide educative richiede perciò che si organizzino «programmi di genitorialità condivisa che superino i confini del singolo nucleo familiare […]. Questi programmi potrebbero addirittura appoggiarsi a un’app […] che consenta lo scambio settimanale di figli nella città in cui si risiede» (p. 171). Ciò potrà essere di aiuto anche ai figli che si troveranno a contatto con altri genitori. È noto infatti che gli adolescenti possono mostrare l’aspetto migliore di sé e responsabilizzarsi quando sono di fronte a estranei. Da questo scambio i genitori possono crescere nell’introspezione, imparare a riconoscere cosa si muova nell’animo dei propri figli e parlarne con loro. È quello che l’A, chiama «la via della mentalizzazione», «un processo attivo che ci consente di interpretare le azioni e le esperienze degli altri, come anche di riflettere sulle nostre stesse emozioni e sulle nostre attività mentali» (p. 179).
Una delle sue caratteristiche è di essere un processo contagioso: questa modalità di rapportarsi all’altro «può influenzare positivamente le persone che lo circondano, incoraggiandole a fare altrettanto» (ivi). Questo, alla fine, è il messaggio più importante che il genitore può mandare al proprio figlio: uno sguardo di fiducia, di interesse a ciò che è, prima che a ciò che fa, sapendo che in ogni situazione potrà contare sulla sua presenza.