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I non pochi censori intenti a spulciare il pedigree antirazzista di Flannery O’Connor – tra le immortali del secolo americano, nata nel 1925 e morta di lupus a soli 39 anni, dopo una vita sedentaria e prolifica – fanno il paio con i molti che ancora inscatolano la scrittrice di Savannah nel «regionale», «gotico», «sudista» e altre inanità di genere. Per fortuna i lettori, quelli italiani di certo, se ne disinteressano e amano i suoi libri.
Come molti avi e coevi – William Faulkner, Sherwood Anderson, Carson McCullers, ma anche John Steinbeck, Philip Roth e altri –, O’Connor fa esplodere in universale un microcosmo particolare: una lucida conoscenza dei più oscuri pertugi della natura umana, una perizia immaginifica rara e un orecchio assoluto per i registri più impervi della lingua parlata trasformano i suoi racconti, ambientati in un allucinato meridione americano, in una scena senza luogo e senza tempo, illuminata da un chiarore tragico di apocalisse.
Assai affine è il rapporto tra la scrittrice e la sua materia narrativa con quello che una giovanissima O’Connor auspicava tra lei e il suo Dio: levarsi di torno e lasciare entrare la verità senza fare ombra: «Non ti conosco, Dio, perché sono d’intralcio. Ti prego, aiutami a mettermi da parte», annotava nel suo diario intimo. Quel suo mettersi da parte è esattamente quello che ci consente oggi di accedere alle sue storie, ciò che misura la pregnanza della sua visione, oltre ogni confine geografico e temporale.
La formidabile raccolta – a cui l’autrice lavorerà fino in punto di morte – dipinge un mondo da cui Dio si è ritirato, lasciando le sue creature a boccheggiare nel guado arido di esistenze senza redenzione. La violenza, in questo deserto, è pervasiva, brutale, inevitabile: una sorta di sforzo infernale. I personaggi di O’Connor colpiscono a morte e muoiono loro stessi, vittime e assassini, come la bambina di implacabile testardaggine in Veduta del bosco, o sono agenti passivi di malasorte, come il figlio ne Gli agi della casa.
Sono storie di corruzione e disperazione, di follia e di odio razziale, di miseria e dolore; le anime recedono in un punto di non ritorno, le illusioni si dissolvono, le convenzioni sociali si sgretolano, la violenza irrompe: «Il cuore gli si strinse, provò una repulsione nei confronti di sé stesso così chiara e intensa che faticò a riprendere fiato […]. Vide il Diavolo dagli occhi limpidi, quello che scandaglia i cuori, sorridergli malignamente».
L’autrice ha un’abilità veramente diabolica nell’alimentare il fuoco della tensione, sa come inchiodare i lettori alla pagina, e lo fa senza i trucchi del mestiere, ma con presa diretta sull’orrore. Non manca una vena d’umore nero che, se non stempera il male, in qualche modo lo illumina di una luce differente e ce lo fa avvertire ancora più vivo.
In O’Connor, nessuna buona azione resta impunita; non si tratta solo di sventura, ma di stigma del vivente: «In quell’istante Thomas maledisse non solo la ragazza, ma l’intero ordine universale che l’aveva resa possibile». I personaggi sono creature spezzate, spesso perverse, sempre male equipaggiate a fronteggiare gli stravolgimenti della storia, rimanendo impaniate nel passato irripetibile di razza e casta, e quindi nella colpa e nell’impotenza: «Dopo la morte del marito era riuscita a mandare i due figli all’università e oltre; ma aveva notato che più imparavano, meno riuscivano a fare. Il padre aveva frequentato una scuola composta da una sola aula fino alla terza media, e sapeva fare di tutto».
Le donne, come i bambini, di O’Connor alzano gli occhi al cielo più frequentemente degli uomini, ma si schiantano, o vengono schiantati, con pari, terribile equanimità: «Con gli adulti, una strada portava o in paradiso o all’inferno, ma con i bambini c’erano sempre fermate intermedie lungo il cammino». E i fantastici cieli della scrittrice sono indifferenti e muti, o di oscuro presagio: spesso di un blu intenso, come i pascoli sono di un verde abbacinante, mentre il sole brucia a picco sulle teste dei dannati.
Nostalgia di innocenza e condanna all’oscurità: il libro si chiude lasciandoci con il fiato sospeso, come l’incredula signora May di «Greenleaf», ferita a morte, che «continuò a guardare fisso davanti a sé, ma tutta la scena davanti ai suoi occhi era cambiata – la linea degli alberi era una ferita nera buia in un mondo che era soltanto cielo – e aveva l’aspetto di chi avesse riacquistato la vista ma non riuscisse a reggere alla luce».
FLANNERY O’CONNOR
Punto Omega
Roma, minimum fax, 2022, 308, € 17,00.