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Introduzione
Vienna, nell’estate del 2002, un teologo ruandese ebbe un incontro con la stampa cattolica austriaca. In quella circostanza gli vennero rivolte alcune domande impegnative, fra cui questa: «Quale immagine sceglierebbe per rappresentare l’attuale situazione in Rwanda?». Senza esitare, rispose: «Un cimitero e un cantiere». Della realtà vissuta in quel Paese era ben consapevole, ma non riusciva a descriverla come avrebbe voluto.
Di fatto forse non c’era un’immagine più efficace di quella per descrivere il Rwanda: è un cimitero, poiché ogni collina è stata bagnata dal sangue di persone innocenti, i cui resti forse sono stati seppelliti frettolosamente sul posto. Ma è anche un cantiere, perché stiamo cercando di ricostruire il Paese per colmare le voragini di sconforto e disperazione che ne segnano il paesaggio.
Ventinove anni dopo il genocidio contro i tutsi, orchestrato dai vertici delle istituzioni, molti ancora si chiedono come sia potuto accadere questo mostruoso crimine, che ha causato circa un milione di morti nel giro di appena 100 giorni.
Nel ricordare l’orribile passato del Rwanda, dobbiamo chiederci: come è possibile che siano state uccise tante persone mentre il resto del mondo restava a guardare e taceva?
Componenti remote del genocidio
È stata la problematica storia del Rwanda, con i suoi molteplici fattori, a gettare le radici che hanno portato al genocidio dei tutsi. Vanno evidenziate come cause determinanti l’abuso di potere, una concezione di lealtà sbagliata e acritica, l’identità etnicizzata e l’avidità.
Tra gli altri fattori, «paura, odio, vendetta, ignoranza, stupidità, menzogne, compiacenza, disprezzo, sentimenti di ogni tipo». Tutto ciò ha causato l’uccisione di circa un milione di tutsi e ha fatto sì che, allo stesso modo, chiunque fosse in disaccordo con la politica genocida fosse a sua volta considerato una minaccia e un bersaglio…