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Lettore attento e appassionato delle opere di Franz Kafka, Elias Canetti (1905-94) salutò con profonda emozione e vivissimo interesse la pubblicazione di una parziale raccolta delle lettere inviate dallo scrittore praghese alla fidanzata Felice Bauer. Date alle stampe sulla tedesca Neue Rundschau nel 1967, quelle missive raccontano, a suo parere, qualcosa di più di un amore tormentato e destinato a finire. L’autore di Auto da fé decise perciò di studiarle a fondo: avrebbe dedicato loro un saggio, dal titolo L’altro processo, che sarebbe apparso, di lì a poco, su quella stessa rivista.
Pubblicato in Germania nel 2019, curato da due specialisti del calibro di Susanne Lüdemann e Kristian Wachinger, questo volume raccoglie lo studio citato e vari scritti su Kafka – alcuni inediti, altri disseminati nei cosiddetti «otto quaderni di appunti» – ai quali Canetti si era dedicato dal 1946 al 1994, nel corso quindi di diversi decenni. Felicemente tradotti da Renata Colorni e Ada Vigliani, essi mettono a disposizione del lettore italiano una cospicua quantità di acute osservazioni e lucide riflessioni che lo aiuteranno senz’altro ad approfondire la propria conoscenza dei testi kafkiani.
Va messo anzitutto in rilievo che – a differenza di quanto sostiene la filologia accademica – Canetti afferma la necessità di procedere a un’interpretazione non scissa dalla vita dello scrittore e che tenga quindi conto di elementi quali le sue condizioni fisiche: la magrezza, l’ipocondria, l’insonnia, le ansie, le emicranie, l’ipersensibilità ai rumori. Il risultato di tale analisi è costituito da uno studio che giunse persino a irritare molti germanisti per la spregiudicatezza con cui l’opera di Kafka – e, in particolare, Il processo – era stata ricondotta alla sua biografia.
Occorre poi sottolineare come, grazie agli appunti, ad alcuni saggi e al testo di qualche conferenza, ci sia possibile comprendere il significato di quello stillicidio fatto di ostilità, mortificazioni, fughe e sottomissioni, quasi ci trovassimo di fronte a uno svolgimento che rimanda, in più passi, a una confessione da decifrare. Scrive al riguardo Canetti: «Il processo che fino allora e per due anni si era svolto nel carteggio tra lui e Felice si trasformò ora nell’altro Processo, il libro che tutti conoscono. Era un processo, sempre lo stesso, di cui Kafka era ormai un esperto; il fatto che egli vi incluse infinitamente più cose di quelle che si possono rintracciare nelle lettere a Felice non deve trarci in inganno riguardo all’identità dei due processi» (p. 248). Il fidanzamento, insomma, sarebbe diventato l’arresto eseguito nel primo capitolo; la sentenza è invece presente nell’epilogo del romanzo sotto forma di esecuzione.
Si deve infine notare come nell’ambito delle narrazioni kafkiane abbia luogo un continuo confronto con il potere, che lo scrittore ha vissuto e raffigurato in tutti i suoi aspetti. Giacché egli lo teme e cerca costantemente di sottrarglisi, lo percepisce, lo riconosce, lo nomina e lo inserisce in tutte quelle situazioni nelle quali altri sarebbero disposti ad accettarlo come qualcosa di ovvio. Al cospetto del potere Kafka imparò a farsi piccolo, tanto piccolo da scomparire; e si deve solo a una fortunata coincidenza se le sue opere non sono scomparse insieme a lui.
La rabdomantica sensibilità nei confronti del potere, considerato sempre come qualcosa di soverchiante, ha consentito a Kafka di preconizzare gli orrori che sarebbero stati perpetrati nel corso del XX secolo: stermini che egli non avrebbe visto e ai quali Canetti sarebbe riuscito a sopravvivere, mentre le sorelle e le amanti dello scrittore boemo sarebbero state messe a morte nei campi di concentramento. Una sorta di capacità divinatoria che, espressa in una lingua ridotta all’osso ed estremamente precisa, impressiona il lettore e al tempo stesso lo invita a riflettere.