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Seguendo ciò che questo libro di Antonio Spadaro ci dice – ma anche ascoltando la più semplice e quotidiana esperienza umana –, è chiaro che abitare il mondo vuol dire abitare (a) colori. Tuttavia, nessun colore resta mai «chiuso» in sé stesso. I colori, come finestre, aprono costantemente al di là della frontiera del nostro mondo, per avviarci nella direzione di un certo «oltre». La nostra più banale esperienza è sempre la trasgressione di un limite, un essere portati (e chiamati) al di là di una frontiera nello spazio e nel tempo.
Quando guardo il «rosso» intenso di un tramonto, se ho il tempo e la libertà di guardarlo «davvero» (senza che tutti i pensieri quotidiani impediscano quella semplicità di sguardo che il crepuscolo reclama), allora questo colore – in cui si fondono le attese infinite dei domani a venire e i ricordi di mille momenti della mia vita – diviene un puro «ponte» verso un altrove.
Il libro di Spadaro segue questo potere dei colori – e, più in generale, dell’arte – in quattro artisti contemporanei, di cui non vuol certo ridurre la differenza, ma in cui riconosce quattro modi «unici» di abitare (e suggerire) la vera esperienza del colore. Hopper, Rothko, Warhol e Basquiat sono quattro colpi di sonda – divergenti, perché assolutamente singolari – lanciati nel mondo dell’arte. Rileggendoli, si scopre un’inedita solidarietà di fondo: nelle loro diverse declinazioni, l’esperienza artistica si fa icona dell’attesa, «evidenza delle cose che non si vedono» (Eb 11,1).
Warhol è il caso più difficile. Spadaro afferma: «Dio è sempre e soltanto “fuori” rispetto alla sua opera d’arte» (p. 79). Ma, appunto, questa apparente estraneità di Dio diventa anche sua «salvaguardia» in un tempo in cui tutto si riduce a semplice oggetto di consumo. Nelle icone pop di Warhol, l’«oltre» si manifesta in modo paradossale, come una sottrazione. L’assenza diviene l’unico modo di esprimere – o di invocare – quel che non si lascia ridurre alla società dello spettacolo.
L’A. riconosce l’invocazione anche nelle opere di Basquiat. Come in Untitled (Angel) e Untitled (Baptism) (entrambe del 1982), in cui l’apertura prende la figura delle mani «levate in un gesto senza compimento o traguardo, in un destino interrotto» (p. 94). In The Pilgrimage (1982) si manifesta questo inevitabile «essere-in-cammino» dell’esperienza e la sua perturbante inconoscibilità ultima. Non è un caso che, per descrivere questi lavori, Oltrecolore parli di «irregolare e indisciplinato bisogno di salvezza» (p. 89).
Hopper non è per Spadaro un pittore della sola malinconia, poiché dipinge soprattutto l’«attesa». Se Hopper è un «genio delle finestre» (pp. 32 s), è perché il tema fondamentale della sua opera è il «permanente stato di incubazione» della vita, il suo «instabile equilibrio tra malinconia e desiderio, tra solitudine e attesa di una “visita”» (p. 41). La luce che s’introduce tra le fessure delle sue opere è il segno dell’irruzione possibile – ma mai assicurata – di un senso che ci raggiunge come una sorta di «annunciazione» (p. 33).
Rothko, a sua volta, porta i colori «quasi» allo stato eruttivo della più semplice luminosità. L’operazione è difficile ma necessaria. Si tratta di «porre fine a questo silenzio e a questa solitudine» che attraversano il tempo sfinito della modernità, per poter «respirare e tendere ancora le proprie braccia» (p. 67). Gli affreschi di Rothko sono degli spazi all’interno dei quali si deve entrare (non solo con lo sguardo, ma con tutta la nostra sensibilità) per avere una via d’accesso all’«oltre».
Il tratto d’insieme che unisce – e muove – le riflessioni di Spadaro è proprio la semplice esperienza del colore, riportata a quel che ha di essenziale per la vita. L’arte la esprime in modo intenso, ma essa non è un’esperienza per pochi eletti: è aperta a tutti, sin dall’infanzia.
Oltrecolore si conclude con un’elegante teoria dei colori, in cui l’A. riprende la sua personalissima tavolozza per suggerire che ogni tonalità ha un suo modo di esprimere l’apertura – compreso il «nero», come «niente espressivo della sua massima potenza» (p. 118). Anche qui ritroviamo quel tratto che domina in tutto libro: il colore, che non si chiude mai in sé stesso, non è altro che un modo di «abitare nella possibilità» (p. 13), vale a dire di abitare l’«apertura» e l’«attesa» che gli esseri umani da sempre sono. Oltrecolore è l’altro nome della nostra esistenza.