Gli studi sulla felicità concordano nell’osservare come l’accumulo e la corsa al guadagno, considerati garanzia di una vita felice, ne costituiscano, al contrario, gli ostacoli più rilevanti[1]. Non si tratta solo di un insegnamento legato alla vita morale o spirituale. Sono gli stessi economisti a notare come la monetizzazione dell’esistenza vada a scapito della prosperità sociale. Per questo sostengono la necessità di rivalutare l’approccio «sapienziale» piuttosto che utilitarista ai beni, in linea con la tradizione classica.
Uno dei contributi più interessanti su questo tema è quello di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998. Mettendo a confronto due società molto diverse tra loro – India e Usa –, Sen aveva compreso bene che ciò che crea disagio, più che la povertà, è soprattutto la disuguaglianza, intesa come impedimento a realizzare le proprie doti essenziali; la disuguaglianza, inoltre, porta a operare un confronto tra categorie differenti e, facendo del reddito il simbolo di status sociale, porta alla «disuguaglianza immaginaria» di cui parlava Alexis de Tocqueville, intesa come mancato riconoscimento e stima di sé. È stato detto che il grado di soddisfazione dell’americano medio consiste nel guadagnare 10 dollari in più del vicino di casa.
Ma questi valori non possono essere
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