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Massimo il Confessore, ci dice il noto teologo Marcello Paradiso facendo sua la lettura di Balthasar, rappresenta l’ultimo pezzo della Sinfonia patristica, iniziata con Ireneo, Origene, Gregorio di Nissa, Agostino, Dionigi l’Aeropagita, di cui è debitore, ma che coinvolge nella costruzione di un edificio teologico di una straordinaria bellezza. «È come il climax finale, di notevole potenza sonora, che porta a compimento le melodie introdotte e trasformate in tutta l’opera» (p. 15). L’A. ripropone il ritratto e le tesi del teologo svizzero in Liturgia cosmica.
Il monaco e mistico bizantino Massimo il Confessore ha svolto con la più grande calma il suo lavoro mentre «lo cacciavano sempre più lontano le ondate di Sassanidi, poi quelle ancora più minacciose dell’Islam», quando finalmente «l’integralismo ecclesiastico e politico lo catturò, lo interrogò, cercò di conquistarlo, lo rigettò, lo esiliò», lasciandolo, dopo essere stato sottoposto a supplizio, «morire fra le propaggini meridionali della futura santa Russia» (p. 270).
La sua grandezza sta nella sua figura di «radunatore spirituale universale»: egli «è il pensatore filosofico-teologico tra Oriente e Occidente». Mostra, nella sua umile serenità, ma anche nell’impavidità del suo spirito autenticamente libero, come e in base a che cosa entrambi coincidono. E Oriente non significa soltanto Bisanzio, come Occidente non significa soltanto Roma, ma l’Est significa realmente l’Asia, e l’Ovest l’Occidente.
Le prime due parti del libro – «Balthasar e i padri della Chiesa» e «Massimo il Confessore (580-662)» – costituiscono la base per la trattazione, anche critica, dello studio di Balthasar, per cui l’opera di Massimo, in tutte le sue dimensioni, ha la «sintesi» come forma interiore. L’origine storica ed effettiva di tale nozione sta nella figura di Cristo come venne definita a Calcedonia e difesa da papa Martino. Le due nature non mescolate costituiscono, in Massimo, una sintesi organica in cui i «poli» opposti si uniscono in modo tale da conservare senza mescolanza la loro propria consistenza. L’unità in Cristo, in quanto persona divina, conserva intatta la positività del finito. Egli possiede la libertà di esprimere perfettamente il suo io divino – e quindi anche la sua natura divina – nello spazio creaturale.
Ed è questa la tesi originale da ribadire anche nei nostri giorni. Pur valorizzando la dottrina alessandrina della divinizzazione, Massimo – afferma Paradiso, sulla scia di Balthasar – le toglie le punte spiritualistiche neoplatoniche, e mantiene così fermamente la distinzione reale tra Dio e mondo e la dimensione personale della rivelazione. «Proprio quando Dio e l’uomo si avvicinano al massimo l’uno all’altro e s’incontrano in un’unica Persona [nella sintesi di Cristo], si vede, per così dire dalla vicinanza massima, che l’uomo non deve quindi cercare la sua salvezza nella direzione di un abbandono della sua natura» (p. 241). O ancora: «Solo quando apparve Cristo, divenne inequivocabilmente chiaro che la creatura non è un mero negativum di Dio, che non può quindi essere redenta in modo unilaterale con uno sciogliersi mistico in Dio, che bensì – nonostante qualunque elevazione alla partecipazione divina, nonostante qualunque morire a questo mondo – lo può soltanto nel conservare e compiere espressamente la sua natura» (p. 223).
La sintesi cristologica diventa così la fonte e la forma di tutte le sintesi cosmologiche e antropologiche. L’unificazione di tutto il creato nel Logos incarnato è la destinazione e il fine della creazione e della redenzione. Conservata nella sintesi della persona, la natura umana viene dunque integralmente messa, con tutto il suo contenuto positivo, a disposizione dell’unione con Dio, come pietra di costruzione del grande ponte fra Dio e il mondo.
L’attualità forse inquietante e certamente destabilizzante di questo martire della fede sta nella sua tranquilla audacia: un’audacia che l’A. vede all’opera anche in Balthasar, in quanto questi, non esitando a mettere in crisi, in nome del Vangelo e della Tradizione, i modelli filosofici e teologici del suo tempo, si avvale «dei due polmoni con i quali respira la Chiesa» (p. 272) per promuovere il senso autentico della cattolicità nella pluralità e nella diversità.