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Con questo avvincente libro, il gesuita belga Jean-Pierre Sonnet, biblista, ci invita a entrare nella città «dalle mura dorate e dagli orribili check-point»: Gerusalemme. Ci consente di percorrerne le strade, di contarne le torri, di passare dalle sue porte alla ricerca delle tante dimensioni – da spazio urbano di pietra e polvere a città di carta che prende vita dalle parole del libro e del rotolo – nelle quali essa sa mostrarsi tanto al visitatore quanto a coloro che ci vivono.
Ed è proprio attraverso le parole di 40 brevi prose che l’A. riesce a restituirci la complessità di Gerusalemme, che egli considera il centro del mondo e vede perennemente in bilico tra eternità e santità, violenza e resistenza: elementi che ne compongono la vita quotidiana, scandita com’è da avvenimenti sublimi e orrendi, dal suono delle diverse lingue, da continui incontri e scontri, da conflitti insanabili e sorprendenti riappacificazioni, dalla costante negazione e accettazione dell’altro, da incolmabili distanze e insospettate affinità. Dal momento che Gerusalemme è la città del Dio unico – caratterizzata in quanto tale dall’universalità –, che nessuno riuscirà a fare interamente sua.
Tradotte da Carlo Albarello con meticolosità e sagacia, queste prose colpiscono per la rapidità del ritmo, la varietà dei registri stilistici, l’essenzialità del lessico, la presenza di numerose assonanze. Appare poi felice la scelta degli aggettivi, sempre capaci di connotare efficacemente il sostantivo al quale si riferiscono e di contribuire alle cadenze, mentre Sonnet, dal canto suo, non manca di fare ricorso a termini e locuzioni in inglese, ebraico e arabo.
Va inoltre osservato come, nell’ambito delle varie prose, la natura e il mondo animale svolgano un ruolo di primaria importanza: tra richiami all’issopo e al mandorlo, ai passeri e ai gatti fino alle lucertole, l’una e l’altro sembrano in grado di andare oltre ogni umano contrasto e intestina divisione. Scrive l’A. in Polline: «POLLINE, TUTTO È POLLINE, nei giorni di aprile in Israele: polline, tutto è polline, negli stessi giorni in Palestina. È uno sciame sulle colline, un esodo di stame in gineceo. Il muro, il filo spinato, la cupola d’acciaio non possono farci nulla: qua e là, gli ulivi sono fecondati» (p. 49).
Nonostante gli eccidi e le distruzioni, le tensioni e gli odi, i soprusi e le ingiustizie, Sonnet non cessa di coltivare per Gerusalemme la speranza, uno stato d’animo che trova forse la propria origine e ragion d’essere nell’essenza stessa della «città aperta e santa», pronta dunque ad accogliere e a innalzare gli spiriti affinché si pongano in ascolto del mormorio dell’essere, della semplice voce dell’Uno che chiama, sommessamente, alla riconciliazione.