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«Quando nessuna persona, generazione o istituzione può imporre la sua autorità in modo incondizionato; quando la globalizzazione induce fenomeni di deterritorializzazione e di sradicamento; quando all’unificazione sistemica del mondo si accompagna una pluralità irriducibile di versioni del mondo e di prospettive di senso, le radici dell’etica, che affondavano nel terreno consolidato della tradizione e poi della previsione razionale dei risultati, vengono definitivamente recise». Così descrive la situazione della nostra società, definendola «società globale del rischio», Pietro Leandro Di Giorgi, professore di Sociologia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Toscana a Firenze, e non v’è dubbio che si tratti di una descrizione tanto veritiera e realistica quanto amara e preoccupante.
L’immagine che meglio rende l’idea di chi sia l’uomo che abita questa società è quella del nomade, un individuo che ignora la sua provenienza e che si muove senza una meta precisa, «chiuso in una busta senza indirizzo, con il compito di scrivere proprio quell’indirizzo». «Solitudine», «nomadismo», «liquidità», «rischio»: ormai da vari anni sono questi i termini usati per definire la condizione umana, e «nichilismo» è la parola che, forse meglio di ogni altra, li sintetizza tutti.
Ma dobbiamo pensare che essa sia anche l’ultima parola? Di Giorgi spera e pensa di no: «È pure possibile – egli scrive – che questo soggetto nomade non voglia rinunciare ad un qualche legame con una dimensione trascendente», riaprendo così uno spiraglio di luce nel buio della fine di ogni morale, quel buio che sembra una della caratteristiche salienti del nostro tempo.
L’autore svolge un’attenta analisi della «crisi delle culture ascetiche e della correlativa progettualità mondana», di cui il credente puritano descritto da Max Weber costituisce l’interprete più adeguato. Poi si sofferma sulle «potenzialità e illusioni delle filosofie dell’autenticità», mostrando come anch’esse non siano in grado di rispondere alla crisi dell’uomo contemporaneo. Infine guarda con attenzione a quello che viene definito «universalismo esemplare», il cui fondamento è reperito nel «kantiano sentimento di agevolazione e intensificazione della vita, un’occasione di godimento estetico condivisibile sulla base della comune umanità». Di qui l’autore prende lo spunto per proporre un cauto invito a un’autenticità riflessiva, che non deve essere individualistica ed egoistica coltivazione di sé, «ma cura coinvolgente per la dimensione accomunante della finitudine e della vulnerabilità umana».
Non casualmente il libro si conclude con alcune pagine dedicate alla cultura del limite, nemica del prometeismo tecnologico e della decostruzione dell’identità personale, che oggi sembrano imporsi sempre di più. Prendendo coscienza del limite costitutivo che lo caratterizza, l’uomo del nostro tempo potrà recuperare le radici morali che, come si diceva all’inizio, sembra aver irrimediabilmente smarrito.
Sarà soprattutto l’etica della cura a riportare in primo piano la speranza, e con essa una nuova risonanza del religioso. «Ed allora – afferma Di Giorgi – il messaggio di divinizzazione dell’umano proprio del cristianesimo può rispondere forse all’asfittico umanesimo narcisistico e immanentizzante di un soggetto che vive e muore nella riflessione di sé a sé». Nella sequela Christi il nomade si trasforma in un pellegrino consapevole che il cammino è arduo, ma che la meta esiste ed è raggiungibile.
PIETRO LEANDRO DI GIORGI
Il pellegrino e il nomade. Stili di vita nel post-moderno
Milano, FrancoAngeli, 2019, 124, € 16,50.