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«Che l’educazione oggi sia in crisi è risaputo. Ma in cosa consiste questa difficoltà? Consiste nel fatto che l’educare è spesso slegato dall’esperienza concreta, dall’essenza più profonda della realtà» (p. 12). È una delle puntuali osservazioni che gli AA. – Johnny Dotti, docente all’Università Cattolica di Milano, e Mario Aldegani, sacerdote della Congregazione dei Giuseppini del Murialdo, insegnante ed educatore – fanno in questo libro, dedicato al tema dell’educazione nella società contemporanea.
«Del resto – si legge nell’Introduzione –, chi vive l’esperienza educativa è chiamato a testimoniare una super-speranza, che non si rassegna a nessuna evidenza e non ha paura di confrontarsi con la fragilità, né la propria né quella altrui» (p. 7). E per fare questo i due AA. invitano a ri-scoprire la saggezza nell’educare, «perché la saggezza, come l’educazione, non è una specializzazione: è la sede della libertà» (p. 9).
Interessante e originale l’impostazione dei 10 capitoli, che seguono l’approfondimento di 10 verbi all’infinito: ascoltare, benedire, custodire, condividere, generare, lasciare andare, pensare, raccontare, emancipare e imparare. «I dieci verbi che abbiamo scelto – dicono gli AA. – dopo un lungo confronto, nella loro semplicità, portano in sé tante risonanze che si intrecciano più volte nel testo e ne costituiscono il vero filo conduttore» (pp. 19 s). Si tratta di un processo circolare, di stampo quasi «benedettino», cioè quello di riprendere lo stesso tema e ogni volta però aggiungere qualcos’altro, in modo da renderlo nuovo e con un orizzonte più ampio.
Ora, quali possono essere le caratteristiche per una vera educazione? Innanzitutto dobbiamo notare che questi 10 verbi sono prerogative che nel mondo educativo attuale appaiono piuttosto sbiadite. Ascoltare: ecco uno di quei verbi che, pur venendo spesso ripetuto o richiamato nelle aule scolastiche, è quello che poi viene preso meno in considerazione. Spesso lo si scambia con il verbo «udire». In realtà, ascoltare comporta un udire, ma con una maggiore e profonda attenzione, senza che si insinuino contemporaneamente altri pensieri. «Potremmo affermare che si è tanto più in grado di educare veramente qualcuno, cioè di farlo crescere, di autorizzarlo a essere libero, quanto più si è capaci di ascoltare» (p. 23). Certo, in un contesto sociale dove il più delle volte l’attenzione è posta sul proprio cellulare, poi non possiamo meravigliarci se la persona non cresce, perché ha disimparato ad ascoltare. «La questione dell’ascoltare ha a che fare nella relazione, non solo per chi parla ma anche per chi ascolta, con la questione della consapevolezza» (p. 25).
Un’altra caratteristica dell’educazione è la domanda: occorre saper domandare senza andare a caccia a tutti i costi di una risposta. «Chi custodisce la domanda, anche se non dà la risposta, sta facendo crescere la domanda dentro sé stesso; quindi, di fatto, accompagna esistenzialmente e affettivamente chi gli ha posto la domanda» (pp. 26 s). E qui gli AA. fanno notare che siamo in presenza di una grande relazione educativa: «Questa è la “deponenza” dell’ascolto: un atteggiamento esteriormente passivo ma interiormente assolutamente attivo. È l’ascolto compassionevole che si fa carico della vita dell’altro» (p. 27).
Tra i verbi all’infinito che oggi andrebbero riscoperti c’è anche «lasciare andare». Questo verbo deve interessare gli insegnanti, ma in modo particolare i genitori: «Lasciare andare significa qualcosa di davvero difficile e doloroso oggi per noi. Si tratta di accogliere e gestire la paura, senza farsene imprigionare o paralizzare […], di non confondere l’affetto con il possesso» (p. 92). Il lasciare andare i figli o gli studenti – secondo il significato originario di «educare», ossia dal latino educĕre, «trarre fuori» – è un modo di far crescere in loro la fiducia, e quindi favorire la crescita della persona. «Senza lasciare andare non c’è una relazione tra le generazioni che diventi feconda» (p. 93). «L’educazione dei ragazzi e dei giovani è più importante di qualsiasi istituzione che se ne occupi. Solo una relazione virtuosa fra le varie istituzioni potrebbe dar vita a un’educazione generativa» (p. 97).