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«“Bisogna smettere di armare il mondo” è un titolo significativo, ma in realtà è un imperativo da tenere nel cuore e nella mente in un periodo come quello in cui siamo immersi, di facile corsa al riarmo»: con queste parole il cardinale Matteo Zuppi apre questo libro, sottolineandone la stringente attualità. Il carteggio è curato da Augusto D’Angelo, professore di Storia contemporanea alla «Sapienza» di Roma e membro del Comitato per l’Edizione nazionale delle opere di Giorgio La Pira.
In questo volume egli presenta un epistolario, utile per la comprensione di alcuni avvenimenti della seconda metà del XX secolo, tra due protagonisti diversi e distanti: Giulio Andreotti e Giorgio La Pira. La Pira, non ancora quarantenne, e Andreotti, giovane di 24 anni, erano stati chiamati a far parte dell’Assemblea Costituente, fondamento di un’Italia che non dimenticava il proprio passato e la tragedia del nazifascismo e che aveva scelto da che parte stare per costruire il proprio futuro.
In un tempo di forte impegno per la rinascita dopo la guerra, due preoccupazioni sono alla base dell’epistolario: casa e lavoro. Il tentativo del «sindaco santo» – come verrà chiamato La Pira – di trovare immediatamente soluzioni giunge alle orecchie del politico accorto, che non si volta dall’altra parte. Andreotti rimane colpito dall’uomo che ha una visione universale, una visione del «noi», intesa come costruzione del bene comune e della pace.
D’Angelo individua la radice di questo incontro tra due uomini così diversi nell’antica, comune frequentazione della «Messa del povero», avviata da La Pira a Firenze durante la Seconda guerra mondiale, e poi trapiantata a Roma, a Santa Cecilia in Trastevere e a San Girolamo della Carità. Andreotti ricorda quelle mattine con nostalgia: «Preghiera in comune, omelia brevissima, un caffè e latte con lo “sfilatino” e il resto della mattina a parlare».
Andreotti e La Pira erano convinti che la pace fosse la chiave che poteva permettere un futuro al Mediterraneo, all’Europa e al mondo intero. Da questa consapevolezza sarebbero nate le iniziative del sindaco di Firenze per la pace, che lo avrebbero portato fino in Vietnam, per incontrare Ho Chi Minh, non lasciando nulla di intentato per evitare una nuova guerra.
L’unanimismo di La Pira, nota acutamente l’A., si sarebbe accostato alle caratteristiche del governo Andreotti di unità nazionale 10 anni dopo. La Pira governava Firenze con delle visioni universali e non temeva di gettare un sasso nello stagno della contrapposizione nel mondo di quegli anni, diviso tra Est e Ovest. Accanto alla Nato e al Patto di Varsavia, La Pira intravedeva una terza «tenda» europea, che era quella della pace legata a Roma, alla sede del Papa, un punto attrattivo per il mondo: «Questa non è “poesia” ed “utopia” – scriveva ad Andreotti –, è la storia essenziale di oggi e di domani» (Lettera n. 90).
Negli anni nacque tra i due personaggi una convergenza di visioni per una diplomazia della pace. La ricerca della pace è il filo rosso che lega tante lettere presentate nel libro. Andreotti e La Pira sono consapevoli che le guerre, senza un itinerario faticoso di mediazioni, si eternizzano.
Questo volume, che fa parlare due uomini così diversi ma con una visione aperta sul mondo, è uno strumento utile per la comprensione dei difficili anni in cui ci troviamo a vivere. Nel 1970 La Pira scriveva ad Andreotti che bisognava avere il coraggio di «introdurre nella concezione politica della storia l’affermazione, il fondamento che la guerra è impossibile, il negoziato globale è inevitabile: si apre così uno spazio per la mediazione italiana […]. L’Italia può diventare il grande porto di pace gettato sul mondo!».
Due voci lontane, distanti anche tra loro, sembrano offrire utili indicazioni per uno spazio di pace al nostro tempo difficile, caratterizzato da una «guerra mondiale a pezzi».