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Andrej Beloborodov (in arte Andrea Beloborodoff), russo di nascita, poliedrico in attività artistiche (pittore, architetto, scenografo, costumista), palladiano per elezione, fu uno spirito irrequieto, vagante fin quando non trovò la quiete nell’armonia matematica che le forme architettoniche romane creavano davanti ai suoi occhi voraci, al suo spirito rinascimentale. Andrea nasce nel 1886 a Tula, e nel 1905 si iscrive all’Accademia imperiale delle arti di San Pietroburgo; qui si innamora «di armonia e audacia architettonica che risplende negli sfondi di grandi maestri del Quattrocento e Cinquecento», e scopre in Giacomo Quarenghi il suo maestro. Quarenghi risultò il maggior interprete del Palladio, creando gioielli architettonici a San Pietroburgo alla fine del XVIII secolo. Avventurosa, a dir poco, è la fuga di Beloborodov da San Pietroburgo lungo il Golfo di Finlandia, nel febbraio 1920: da Helsinki a Londra, per approdare a Parigi, e infine, dopo alcune previe visite, stabilirsi a Roma nel 1934.
Il libro contiene 36 dipinti – splendidamente riprodotti e presentati sempre con testo italiano, inglese e francese –, relativi a vedute di Roma e a ville del circondario vicino alla capitale (Bagnaia, Bassano Romano, Caprarola, Frascati, Monte Porzio Catone, Poli, Tivoli, Velletri). I commenti ai dipinti sono dovuti a Jean Neuvecelle, figlio di Beloborodov, e sono ripresi dal libro-album del 1961. In questa pubblicazione, Henri de Régnier, accademico di Francia, offre alcune linee di lettura, una delle quali è degna di essere ricordata: la Città eterna è priva di presenza umana, «perché l’eterno non ha bisogno dell’effimero». In effetti, i dipinti – non solo i 19 relativi a Roma, ma anche gli altri dedicati alle ville fuori città – sono pieni della perfezione armonica dovuta alle linee stilate dalle murature, che spesso sono coperte da un cielo gravido di nuvole.
Assenza umana e pienezza architettonica: è il marchio che Beloborodov appone su questa sua metafisica romana. Nei dipinti il lettore vede veritiere facce della città, mentre nelle ville dei dintorni si staglia la bellezza delle ricercate architetture. Ma il divario tra il reale e la sua rappresentazione nel dipinto – definita da De Chirico «metafisica palladiana» – resta non del tutto delineato dalla voluta immaginifica lettura di Boloborodov; è qui che il lettore è chiamato a intravedere il rapporto tra il reale e quanto di esso si presenta, e questa lettura crea una sensazione interessante.
Sono vari i dipinti dove l’artista russo presenta una veduta prospettica simmetrica: l’aperto della piazza del Quirinale s’impossessa dello spazio e relega il palazzo e l’obelisco dei Dioscuri a meri contorni prospettici (cfr pp. 32 s); evanescente e «floreale» appare la grotta della Villa Giustiniani Odescalchi a Bassano Romano, ove lo specchio acquatico conduce l’occhio verso la grotta della Venere (cfr pp. 66 s); la possanza della Colonna Traiana, in posizione centrale, sovrasta dal basso tutta la scena dipinta (cfr pp. 34 s). Più singolare è la voluta variazione prospettica espressa nella veduta allungata in profondità nell’ «Arrivo alla Fontana di Trevi» (volta verso la stretta via di San Vincenzo; cfr pp. 38 s) o il netto taglio – dovuto anche ai toni coloristici – approntato sulla Fontana (cfr pp. 40 s).
Questa galleria di vedute – siano esse relative ai monumenti romani o a quelli del circondario – richiede ripetute visitazioni per apprezzare l’imaginaire del pittore, espresso dalle pur esatte linee architettoniche dei monumenti. E l’assenza umana acutizza questo divario tra la forma reale e quella artistica; le fontane, l’acqua sigillano infatti il divario tra quanto prima scorreva e quanto ora è impresso dall’arte nell’immota presenza. Neuvecelle scriveva nel 1961: «Le immagini […] sono quelle del ricordo, e quando Roma non sarà per voi che una realtà fuggita, il passato, la vostra memoria potrà animarle, il vostro essere darà loro una vita» (p. 94).
Qui sta, a nostro avviso, l’indiscusso pregio di questo volume: non tanto quello di offrire al lettore uno scorrere di splendide immagini architettoniche, quanto quello di instillare una creativa provocazione a ridare nuova vita a quanto appare immoto all’occhio. È il processo della ri-creazione dovuto alla memoria, demonica forza sempre all’opera nella mente del pittore. Una serie di foto relative a momenti della vita di Beloborodov (notevole la metamorfosi del viso dal tempo russo a quello romano) chiudono il pregevole volume.