FILM
a cura di V. FANTUZZI
Una separazione (Iran, 2011). Regista: ASGHAR FARHADI. Interpreti principali: L. Hatami, P. Moadi, S. Hosseini, S. Bayat, S. Farhadi, B. Karimi, A. Shahbazi, S. Yasdanbakhsh, K. Hosseini, M. Zarei.
La Berlinale 2011 si è conclusa con un triplice premio al film iraniano Una separazione di Asghar Farhadi: Orso d’oro come miglior film, migliore interpretazione maschile (premio collettivo), migliore interpretazione femminile (premio collettivo). L’evento eccezionale conferma la vitalità di una cinematografia, quella iraniana, che riesce a imporsi nell’ambito internazionale nonostante le proibizioni, le condanne, le difficoltà di ogni genere, che colpiscono in patria i suoi autori. I premi sono stati consegnati da Isabella Rossellini, presidente della giuria, il cui padre ha dato il via, nel 1945, alla stagione del cinema italiano del dopoguerra: quel neorealismo al quale l’attuale cinema iraniano apertamente si ispira.
Neorealista alla sua maniera è il film di Farhadi, opera che può essere considerata perfetta per il modo in cui è stata concepita, scritta e realizzata, ma che cela i propri pregi dietro una semplicità che sembra fatta apposta per scoraggiare le elucubrazioni dei critici più sofisticati.
Una coppia di coniugi, Nader (Peyman Moadi) e Simin (Leila Hatami) si separa. Entrambi davanti al giudice dicono le loro ragioni senza che nessuno dei due faccia il benché minimo sforzo per cercare di comprendere quelle dell’altro. Lei vuole lasciare l’Iran per assicurare alla figlia dodicenne Termeh (Sarina Farhadi, figlia del regista) un’educazione di livello internazionale. Lui non vuole seguirla per non lasciare privo di aiuto il vecchio padre (Ali-Asghar Shahbazi) colpito dal morbo di Alzheimer. Non si vede la faccia del giudice, al posto del quale è collocata la macchina da presa, cioè il punto di vista dello spettatore. È come se il regista chiedesse al pubblico in sala di pronunciarsi a favore dell’uno o dell’altro dei due contendenti, senza fornire però elementi che aiutino a capire chi dei due ha ragione e chi ha torto.
La famiglia appartiene alla media borghesia di Teheran: il padre è impiegato in banca, la madre insegna, la figlia si impegna con serietà sui libri di scuola. Siccome Nader non consente a Termeh di lasciare l’Iran, Simin si trasferisce temporaneamente nella casa dei suoi. Nader è costretto ad assumere per il padre una badante a ore. Si tratta di Razieh (Sareh Bayat), una donna che, economicamente e culturalmente, appartiene agli strati inferiori della società. Suo marito va dentro e fuori dalla prigione per debiti che non riesce a pagare. Razieh accetta il lavoro senza avvertire il marito (Shahab Hosseini), il quale non sopporta che sua moglie cambi i pantaloni a un uomo anche se anziano e gravemente malato. È una prima bugia, alla quale altre se ne aggiungeranno, oltre agli imprevisti e ai contrattempi che si accumulano cammin facendo, fino a trasformare i rapporti tra i personaggi del film in un inestricabile groviglio.
Razieh è incinta, anche se Nader non lo sa. Dovendosi recare urgentemente dal ginecologo, abbandona l’anziano dopo averlo legato al letto. Nader, rientrato a casa in anticipo sul previsto, trova il padre in condizioni pietose. Rimprovera Razieh e la licenzia accusandola anche di avergli sottratto dei soldi. Lei oppone resistenza e lui la strattona un po’ sulla porta dell’appartamento. Razieh perde il bambino. Accusato di aver provocato l’aborto, Nader rischia diversi anni di prigione. Siamo di nuovo in tribunale. Questa volta il giudice è ben visibile sullo schermo. Si tratta di Babak Karimi, personaggio noto nell’ambiente cinematografico romano perché ha studiato ripresa e montaggio al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove attualmente insegna le stesse materie, ha collaborato come montatore con diversi registi italiani e ha svolto un ruolo di interconnessione tra il cinema italiano e quello iraniano.
Simin insinua nella mente della piccola Termeh dubbi sulla sincerità del padre. Il giudice, che vuol conoscere la verità, tende un tranello a Termeh, che si vede costretta a mentire per difendere il padre. Il marito di Razieh è disposto ad accettare da Nader una cifra in denaro per mettere tutto a tacere. A questo punto Razieh, che non vuole in casa quel «denaro maledetto», dice che l’aborto non è stato provocato da Nader, ma da un’automobile che l’ha urtata nella strada. Al termine del film, Termeh torna al centro dell’attenzione: tocca a lei decidere (apparentemente davanti al giudice, ma in realtà davanti al pubblico) se stare con il padre o con la madre.
A chi gli chiede come gli è venuta in mente l’idea di girare questa storia, Farhadi risponde che, in primo luogo, ha avuto anche lui un nonno malato di Alzheimer, che assomiglia a quello che si vede nel film. Il secondo motivo consiste nel desiderio che aveva di proseguire una riflessione sulla sospensione del giudizio già avviata con i film precedenti. Il terzo riguarda l’interesse che nutre nei confronti dell’odierna società iraniana. «In Iran — egli dice — c’è un conflitto latente tra la classe media e la classe meno favorita. In un futuro non lontano questo conflitto potrebbe venire alla luce provocando gravi conseguenze».