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A prendere in mano Il Signore degli Anelli[1] si avverte un certo sgomento: 1.226 fitte pagine, oltre le 138 di (importanti) appendici. Inoltrandosi nella lettura, si è trasportati in un mondo di favola, abitato da paure, ma anche dai nostri sogni più belli. A un certo smarrimento iniziale subentrano la curiosità e l’interesse, e non si smette di leggere. Indubbiamente John Ronald Reuel Tolkien è un mago del genere fantasy; ricorda G. K. Chesterton del quale condivide le idee, l’humour e la ricchezza d’immaginazione. Ne vogliamo parlare sia perché si tratta di un autore di notevole levatura artistica, sia per l’urgenza e la nobiltà del suo messaggio, sia infine per la rinomanza che la recente proiezione del film Il Signore degli Anelli[2] ha procurato al romanzo, da mesi tra le opere più vendute.
Il «caso Tolkien»
Come spesso capita dinanzi a opere originali, Il Signore degli Anelli, fin dalla sua pubblicazione (1954-55), suscitò reazioni contrastanti. Alcuni ambienti accademici e letterari, senza comprenderne il significato di fondo, lo classificarono «un libro per bambini», mal costruito e indigesto; d’altra parte, studiosi e scrittori di prestigio parlarono di capolavoro, «libro del secolo», «opera geniale». «Questo libro — scrisse C. S. Lewis — è come la luce che arriva da un cielo limpido»[3]. Precedentemente, dopo la lettura del manoscritto, in una lettera a Tolkien, lo stesso Lewis si era espresso in questi termini: «Mio caro Tollers, [come lo chiamavano gli amici] […] il libro risulta praticamente insuperato nel panorama della letteratura da me conosciuto. In due virtù penso che eccella: nella pura sub-creazione — Tom Bombadil, gli elfi, gli ent, gli Spettri dei Tumuli —, come se provenissero da una sorgente inesauribile, e nella costruzione; così nella gravitas. Nessun romanzo d’avventura riesce a sopportare il carico di evasione dalla realtà con simile maestria»[4].
Il «caso Tolkien» ha altri risvolti. Tra questi la diffusione dell’opera dello scrittore. «Dal 1965, anno in cui apparve l’edizione tascabile del suo capolavoro e ne esplose la diffusione, risultano vendute al 1990 venti milioni di copie in sedici lingue. Forse però soltanto in Italia il caso letterario si è intrecciato indissolubilmente con un presunto caso ideologico-politico, prevalendo alla fine il secondo sul primo. Infatti Il Signore degli Anelli nel nostro Paese a partire dal 1970 ha avuto in media quasi due edizioni all’anno, ma — fatto più unico che raro, tipico però per noi — ha assunto anche una coloritura ipercritica e negativa imposta da quell’intellettualità e da quel giornalismo che all’epoca spadroneggiavano nel senso letterario del termine»[5]. Si è così commesso l’errore di considerare Tolkien scrittore di destra e il suo romanzo opera reazionaria.
La larga diffusione che il romanzo ha avuto negli Stati Uniti deriva anche da un altro abbaglio: lo si è scambiato per un testo ecologista, ambientalista, anti-tecnologico; negli anni della contestazione lo si è adottato come cult-book nei campus universitari, né sono mancati coloro che lo hanno considerato un testo introduttivo alla New Age. Come prevedibile, col passare del tempo il «caso Tolkien» si è risolto a favore di un’opera di grande spessore contenutistico, di robusta costruzione letteraria, di stupefacente ricchezza fantastica e mitologica, di genuina ispirazione cristiana, anzi cattolica. Non è priva di difetti e di cedimenti; lo riconosceva lo stesso Autore. Anche il suo amico ed estimatore C. S. Lewis, nella lettera citata, parla di «molti passaggi» che sarebbe stato meglio omettere. A nostro parere, un elemento negativo di Tolkien è la sua intemperanza fantastica, che inceppa la snellezza della trama e condanna il lettore a marce forzate. Comunque sia, «ubi plura nitent in carmine non ego paucis offendi maculis (quando in una poesia ci sono molte cose brillanti, non mi disturbano le poche zone d’ombra)» conclude la sua lettera Lewis.
Chi è John Ronald Reuel Tolkien?
In una lettera del 25 ottobre 1958 così si presenta: «[…] sono un hobbit (in tutto tranne che nella statura). Amo i giardini, gli alberi e le fattorie non meccanizzate; fumo la pipa e apprezzo il buon cibo semplice […]; mi piacciono, e oso persino indossarli anche in questi tempi cupi, i panciotti ornamentali. Vado matto per i funghi (raccolti nei campi); ho un senso dell’umorismo molto semplice (che anche i miei critici più entusiasti trovano noioso); vado a letto tardi (quando mi è possibile). Non viaggio molto»[6].
Gli hobbit sono la sua creazione più originale: gente piccola di statura, amanti della pace, allegri e ospitali, legati alla loro terra, visitati dall’estro poetico. Creandoli, Tolkien ha descritto molti aspetti della sua personalità: amore per la sua terra e per la natura, predisposizione alla convivenza e all’amicizia, fedeltà alla famiglia e agli impegni sociali, gioia di abbandonarsi alla poesia e al raccontare.
Nacque a Bloemfontein, in Sudafrica, nel 1892, da genitori inglesi, originari dell’area di Birmingham. Alla morte del padre (1896), assieme alla madre e al fratellino Hilary, si trasferì nei dintorni di Birmingham, che considerò la sua terra e in cui si radicò. Nel 1904 gli morì la madre, trentaquattrenne, donna forte e decisa, convertitasi dall’anglicanesimo al cattolicesimo nel 1900; anche Ronald, sull’esempio di lei, era diventato cattolico. Padre Francis Morgan, prete cattolico amico di famiglia, si prese cura dei due ragazzi, coadiuvato dai loro parenti. Superate varie difficoltà, nel 1915 John Ronald si laureò in Lingua e Letteratura inglese e iniziò la carriera universitaria che lo portò, nel 1924, alla cattedra di Lingua inglese nell’Università di Leeds e poi, nel 1945, alla cattedra Merton di Lingua e Letteratura inglese a Oxford. La sua rinomanza di studioso si affermò sia per la pubblicazione di lavori scientifici e per le numerose sue conferenze su temi filologici, sulle leggende e le mitologie medievali sassoni e celtiche, sia per le opere fantasy, strutturate di elementi epici e mitici.
Altre date hanno contribuito a costruire il «personaggio» Tolkien. Nel 1916 sposò Edith Bratt, che gli diede quattro figli e una serena e feconda vita familiare. Nello stesso anno partecipò alla guerra mondiale, sia pure per pochi mesi, e combatté sulla Somme (in Francia) come sottotenente nell’11° Battaglione dei Fucilieri del Lancashire. Nel 1926, assieme ad alcuni amici, fondò il circolo dei Coalbiters, chiamati in seguito The Inklings, dove si discuteva sulle saghe nordiche, sull’antica mitologia europea e si leggevano le proprie produzioni. Tra i frequentatori del circolo c’era Jack, cioè C. S. Lewis, l’amico più caro e il confidente prezioso, autore delle famose Lettere di Berlicche. Nel 1973, due anni dopo la moglie, Tolkien morì, ottantunenne. La messa funebre fu celebrata dal figlio sacerdote, John, a Oxford. L’anno precedente era stato invitato a Buckingham Palace per ricevere dalla Regina il CBE, cioè il titolo di Commander of the Order of the British Empire.
La bibliografia di Tolkien, non molto vasta, comprende studi filologici e ricerche storiche, racconti, raccolte di poesia e di lettere, narrativa. Quest’ultima soprattutto — Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli e Il Silmarillion — gli ha procurato rinomanza internazionale. Limitiamo il nostro esame alla trilogia Il Signore degli Anelli, sia perché è il suo capolavoro sia perché in essa confluiscono i motivi più importanti e ricorrenti della sua opera. Per aiutare il lettore nella sua comprensione prima ne esporremo la trama, poi ne analizzeremo le idee portanti.
«Il Signore degli Anelli»
Nel romanzo tutto è invenzione che si traduce in metafora. Così il luogo, la favolosa Terra di Mezzo (la Middle-Earth), sconosciuta alle carte geografiche, tratto di terra abitato dagli uomini in un’epoca che precede la nostra storia, pertanto mitica. In essa convivono varie razze, la più nobile delle quali, gli Uomini di Numenor, si dice provenga da una lontana Terra d’oltremare. Con gli uomini ci sono anche creature razionali subumane e sovrumane. Per esempio, i nani, montanari e minatori, piccoli ma robusti; gli elfi, esseri nel contempo terresti e mitici, capaci di sottrarsi al tempo e allo spazio; gli hobbit, che abitano la Contea, chiamati anche «mezzuomini», gioviali e simpatici. C’è poi una serie di esseri «ibridi», intermedi tra l’umano e il belluino (orchetti e uruk, a servizio del Maligno); o intermedi tra l’umano e il vegetale (come gli ent, giganteschi alberi-uomini semoventi); o intermedi tra l’umano-spettrale-demoniaco (come i cavalieri neri)[7]. Una categoria a parte costituiscono gli stregoni. «Venivano dall’Estremo Occidente ed erano messaggeri inviati a contestare il potere di Sauron [Signore del male] e a unire tutti coloro che avevano la forza di volontà necessaria a resistergli; ma era loro vietato di opporre al potere di Sauron il proprio potere, e cercare di dominare Gnomi e Uomini con la forza e la paura» (p. 1.295).
Il Signore degli Anelli è la storia di una lotta tra la gente libera della Terra di Mezzo e Sauron, l’oscuro Signore, roso dall’ambizione di conquistare il potere assoluto. Per realizzare il suo obiettivo occorre che ritrovi l’Unico Anello, da lui forgiato, nel quale risiede la sua forza. Arroccato nella sua impenetrabile torre, ha organizzato un esercito comprendente orchetti, spettri, uomini vivi, uruk e i nove nazgul, cavalieri neri e spettrali il cui destino, come il suo, è legato all’Anello. Nel romanzo non appare mai; è la personificazione della malvagità, ma non è il Male assoluto; è la lussuria del potere e del possesso. Perduto l’Anello, ha perduto il potere sovrano. Per ritrovarlo sguinzaglia dappertutto i suoi gregari, sconquassando e seminando terrore.
Dove si trova l’Anello? Dopo numerose e stregonesche vicende, esso è finito nelle mani di un hobbit della contea, Bilbo Baggins. Quando Sauron lo viene a sapere, allerta il suo esercito sì che la sua ombra si estenda sulla contea e il suo occhio scruti ogni angolo. Ma anche l’esercito del bene si mobilita, guidato dal mago Gandalf. Bilbo prima si rende invisibile (l’Anello ha il potere di rendere invisibile chi lo porta al dito), poi consegna l’Anello al nipote ed erede Frodo e si allontana dalla Contea. Frodo, hobbit amante della vita semplice e della pace, comprende che l’Anello è un pericolo per la contea, e decide di portarlo lontano. Accompagnato da tre hobbit, inizia un viaggio rischioso per la presenza delle forze di Sauron, attirate dall’Anello.
Ferito ma vivo, Frodo con quattro compagni raggiunge l’elfica dimora di Gran Burrone, luogo di asilo per le persone pacifiche. Qui si raduna il Gran Consiglio di Elrond, re sapiente e giusto, e si decide di distruggere l’Anello gettandolo nel vulcano di Mordor, nel quale è stato forgiato. Soltanto in questo fuoco esso potrà essere distrutto. Frodo si offre per tale impresa; lo accompagnerà la Compagnia degli Anelli, composta da nove persone: i quattro hobbit, il nano Gimli, l’elfo Legolas, l’uomo Boromir, il numenoreano Aragorn e il mago Gandalf, che sarà la guida.
È difficile descrivere le avventure e le disavventure della compagnia. Il viaggio è ostacolato da creature strane, da presenze misteriose, da incantesimi, da scoraggiamenti che sconfinano nella disperazione; ma anche da aiuti insperati e da provvidenziali interventi. È un susseguirsi di eventi che sfuggono al calcolo umano; si resta in balia di forze sovrumane, storditi dal ghigno degli orchetti, dall’infuriare della tempesta di neve, dall’ululare dei lupi, dal richiamo di voci e di echi che smorzano le energie vitali.
La compagnia si disperde, Gandalf, in un duello contro un Mostro degli abissi, scompare, per poi riapparire più tardi. Frodo, disfatto nell’anima e nel corpo, resta solo con Sam, tallonato dalla minacciosa, «terribile presenza del Potere che attendeva, immerso in profondi pensieri, insonne e malvagio dietro all’oscuro velo che circonda il suo Trono» (p. 1.117). Raggiungere il vulcano si presenta come pura follia. Anche perché il Potere, racchiuso nell’Anello, s’impossessa di Frodo sì che, raggiunta la voragine maledetta, dichiara di non voler distruggere l’Anello. «Non compirò quest’atto. L’Anello è mio!». Segue una scena da tregenda. Gollum, lo schifoso e insidioso emissario di Sauron, urlando, si getta contro Frodo e gli strappa l’Anello. «“Tesoro, tesoro, tesoro! “gridò Gollum”. “Mio Tesoro! O mio Tesoro!”. E mentre pronunciava quelle parole, con gli occhi rivolti verso l’alto, gongolanti di gioia alla vista della sua conquista, mise un piede in fallo, inciampò, vacillò un istante sull’orlo, e poi precipitò con un urlo. Dagli abissi giunse il suo ultimo lamentevole Tesoro ed egli scomparve per sempre» (p. 1.130). Alla distruzione dell’Anello si accompagna la distruzione del potere di Sauron. La Terra di Mezzo è riconquistata dai legittimi padroni che inaugurano un’era di pace.
Alla ricerca dei «primordiali desideri umani»
Dinanzi a questa invasione fantastica un lettore poco accorto potrebbe chiedersi se non si tratti soltanto di una bella fiaba, inventata da Tolkien per divertire i figli e gli amici, ma estranea a ogni verità umana o divina. A un tale che così credeva, definendo «menzogne» mito e fiaba, Tolkien indirizzò una lettera poetica nella quale rivelava il suo convincimento in merito:
Caro signore, benché a lungo alienato,
L’Uomo non è perduto né del tutto cambiato.
Forse è in disgrazia, non detronizzato,
E della sua signoria i cenci ha conservato:
L’Uomo, il Subcreatore, questa riflessa Luce,
Passando per il quale dal Bianco si produce
Di colori una gamma, senza fine in viventi
Forme commisti e scambiati tra le menti.
Le fessure del mondo noi abbiamo riempito
Di Elfi e di Folletti, ma pure costruito
Dèi e templi a partire dall’ombra e dalla luce,
Sparso dei draghi il seme: fu un’insolenza truce?
Era il nostro diritto, che non è decaduto:
Creiamo nella legge che tali ci ha voluto[8].
Le idee di fondo del testo sono sostanzialmente le seguenti. L’uomo è stato creato a immagine di Dio. Il peccato lo ha alienato e posto in disgrazia, ma senza rovinarlo e cambiarlo del tutto. In quanto immagine di Dio, egli è ancora capace di subcreare un Mondo Secondario ricorrendo alla sua immaginazione, alla facoltà cioè di costruire immagini, depositate nel suo io profondo e non realizzate nel Mondo Primario, il mondo sensibile in cui siamo nati, viviamo e moriamo. Tale capacità di creare e raccontare miti Tolkien la chiama «mitopoiesi». Essa libera l’uomo dalla schiavitù dei sensi e gli permette di vivere, con l’immaginazione, in un mondo che sarebbe potuto esistere. «La Fantasia delle fiabe è valida solo se rivissuta attivamente e con nuovo spirito quasi creatore. Esse infatti traggono origine dal bisogno profondo di soddisfare alcuni “primordiali desideri umani” che non potranno mai realizzarsi nel Mondo Primario e che forse proprio per questo rimangono ostinatamente vivi nel cuore dell’uomo»[9].
Come chiamare questi «primordiali desideri umani»? Nostalgia dell’Eden? Ricordo della patria perduta? Riflessi di verità primarie? Narrando le sue fiabe Tolkien ha inteso sfuggire al frastuono, all’insensatezza e alla menzogna del tempo in cui viviamo per ritrovare il nostro essere genuino, col suo destino ultraterreno, e nel contempo comprendere la causa della sua attuale aspirazione all’amore, alla bellezza e alla fraternità. Nelle fiabe e nei miti — egli sostiene — si nasconde la verità dell’uomo. La malinconia, compagna dell’esistenza umana, «è il sentimento del pesce fuor d’acqua o, per meglio dire, dell’uomo allontanato dal suo Creatore e dalla sua dimensione più autentica, che conduce come un esiliato la propria vicenda terrena, con lo struggimento per un’origine immacolata, il giardino dell’Eden di cui avverte l’esistenza, e con la tensione per un futuro altrettanto beato, il Paradiso, “un posto dove”, come scrive Tolkien al figlio Michael, “le opere buone iniziate qui possono venire portate a termine; e dove le storie non scritte e le speranze incompiute possono trovare un seguito”»[10].
La consolazione offerta dalle fiabe deriva principalmente dalla certezza del loro «Lieto Fine», per esprimere il quale Tolkien conia un apposito termine: eucatastrofe. Si vuol dire che «le avventure raccontate possono essere terrificanti e angosciose, le sofferenze patite possono apparire crudeli e disumane, ma [che] tutto acquisterà un senso positivo nel Lieto Fine: è questo il messaggio “religioso” delle fiabe: non la negazione della sofferenza e del dolore, della possibilità di una sconfitta, ma il rifiuto della disperazione e la negazione della sconfitta finale»[11]. L’eucatastrofe annuncia il Vangelo: «La nascita del Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo; la Risurrezione, l’eucatastrofe della storia della Incarnazione»[12].
La vita come viaggio e come lotta
In una lettera del 20 settembre 1963 Tolkien scriveva: «Il fascino del Signore degli Anelli è in parte dovuto, penso, all’intuizione di una storia più ampia sullo sfondo: un fascino simile a quello esercitato dalla vista di un’isola lontana e inesplorata, o a quello delle torri di una città che brillano in lontananza nel pulviscolo del sole». Il richiamo al dorato mondo lontano è una componente dell’animo umano; ma esso può essere attutito o del tutto obliterato da altri richiami antitetici. Tale situazione determina lo stato di lotta nel quale si consuma la vita. I personaggi del romanzo di Tolkien sono testimoni di questa lotta, superata o perduta.
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Frodo, hobbit amante delle cose buone e belle della vita, respinge ogni ambizione egoistica, accetta di disfarsi dell’Anello, di cui è venuto in possesso senza volerlo, e si offre generosamente di gettarlo nel vulcano. È l’anti-Faust ma non l’anti-eroe. Il vero eroismo consiste nell’accettazione del proprio ruolo, anche se gravoso e di esito incerto. Suo fedele compagno e servitore è il giardiniere Sam; alla sua dedizione si deve l’esito positivo dell’impresa.
Antitesi di Frodo e di Sam è Gollum, hobbit che la cattiveria ha trasformato in un viscido mostriciattolo. La bramosia dell’Anello — che per un certo tempo ha posseduto, e poi perso — lo ha reso schiavo dell’ambizione, di cui sarà vittima. Altro personaggio negativo è Saruman. Erudito e dotato di grandi capacità, era diventato capo dell’Ordine dei Maghi, impegnati nella lotta contro Sauron. La prospettiva d’impossessarsi dell’Anello e di diventare il signore di tutta la Terra di Mezzo opera una trasformazione del suo essere: diventa una forza del male, suo schiavo, e si autocondanna alla propria rovina. Nella sua espressione più piena il male s’incarna in Sauron, l’«Oscuro Signore» di Mordor, la cui esistenza si confonde con l’avidità di ridiventare padrone dell’Anello e dominare su tutti. È l’«Occhio» che non smette di scrutare, l’«Ombra» che incombe su ogni angolo, invisibile e presente, capo di schiavi e di forze malefiche. La sua vita si confonde con la sua malvagità. Anti-Sauron e anti-Saruman sono Aragorn e Gandalf. Il primo, re umile e benefico, dotato del dono di guarigione; il secondo, mago al servizio del bene fino a sacrificare la propria vita, accorto nel discernere le suggestioni del male e aiutare tutti a superarle.
Accanto a questi protagonisti gravita una folla di personaggi, ognuno artefice del proprio destino. Chiediamoci: chi è l’uomo nella visione tolkieniana? Da un’attenta analisi del romanzo risulta che è un essere decaduto, ma non creato da un dio malefico; fragile ma non determinato al male. Difatti «nulla è malvagio sin dal principio; neppure Sauron lo era» (p. 338). Malvagi si diventa per una serie di scelte egoistiche e funeste. Gandalf sceglie il bene e da grigio diventa bianco; Saruman sceglie il male e da bianco diventa multicolore, cioè privo di autenticità, cangiante secondo le strade su cui lo conducono le sue ambizioni. Pertanto il viaggio, che è la vita, va compiuto con fedeltà alla propria natura e alla propria vocazione.
Le idee di fondo
Tema di fondo del Signore degli Anelli è — come afferma lo stesso Autore — la brama del Potere esercitato attraverso il dominio, brama devastante, a livello sia individuale sia sociale. Innanzitutto il potere intacca e corrode la mente. Chi ne è vittima «soppesa ogni cosa con estrema accuratezza sulla bilancia della sua malvagità. Ma l’unica misura che conosce è il desiderio di potere, ed egli giudica tutti i cuori alla stessa stregua. La sua mente non accetterebbe mai il pensiero che qualcuno possa rifiutare il tanto bramato potere, o che, possedendo l’Anello, voglia distruggerlo» (p. 339 s). Tali affermazioni di Gandalf (-Tolkien) ribadiscono un’amara verità: il male conosce soltanto il male e tutto vede con sguardo inquinato. Bloccato in se stesso e isolato nella sua perversità, il servo del potere rifugge dalle cose vive e belle, smarrisce la capacità di discernimento e s’interessa solamente di quanto favorisce il suo egoismo. Sauron e Saruman odiano il sole e la natura, tagliano gli alberi, «alberi buoni. Alcuni li abbandonano lì a marcire, per pura cattiveria; ma la maggior parte viene fatta a pezzi e serve ad alimentare i fuochi di Orthanc» (p. 579) per forgiare strumenti bellici. Inoltre chi è servo del potere si nutre di inganni e si camuffa da benefattore e protettore degli altri. Così Saruman camuffa la sua bramosia dietro speciosi orpelli — Ordine, Sapienza, Governo —, invita anche Gandalf a «dimenticare questa gente inferiore» degli hobbit, e ad allearsi con lui per «portare a buon termine molte cose unendo i nostri sforzi per sanare i disordini del mondo» (p. 705).
Altro tema di fondo del romanzo è la lotta interiore per liberarsi dalla tentazione di credersi padroni di sé e degli altri, e di poter dominare su tutto. Tale lotta rende l’esistenza drammatica perché la mette dinanzi a scelte che esigono decisioni coraggiose e rinunce talora eroiche. Terza idea di fondo è la rappresentazione del male come mancanza di essere. Chi porta l’Anello al dito svanisce in un mondo di ombre fino a perdere la primitiva realtà e dignità.
Metafora del male è l’Unico Anello (i Grandi Anelli o Anelli del Potere sono 15, variamente dipartiti tra gli elfi, i nani e gli uomini. L’Unico Anello controlla e domina il potere di tutti). Chi lo possiede, possiede il potere, ma è anche da esso posseduto. La sua forza di attrazione è molto forte; occorrono grandi sforzi di volontà per non diventarne succubi. Anche Gandalf, nonostante la lucidità della sua mente e la sua forza di mago, deve fare violenza a se stesso per non soccombere alla suggestione dell’Anello. Al suo possessore esso offre una specie d’immortalità. Gandalf così la descrive: «Un mortale che possiede uno dei Grandi Anelli non muore, ma non cresce e non arricchisce la propria vita: continua semplicemente, fin quando ogni singolo minuto è stanchezza ed esaurimento. E se adopera spesso l’Anello per rendersi invisibile, sbiadisce: infine diventa puramente invisibile e cammina nel crepuscolo sorvegliato dall’oscuro potere che governa gli Anelli. Sì, presto o tardi, — tardi se egli è forte e benintenzionato, benché forza e buoni propositi durino poco — presto o tardi, dicevo, l’oscuro potere lo divorerà» (p. 78).
Il potere del male — suggerisce Tolkien — non dà la vita, ma una parvenza di vita, senza sbocco e senza significato, più amara della stessa morte. Desiderare l’immortalità «entro la vita del mondo» è suggestione maligna; la desiderarono i re di Numenor, dietro suggerimento di Sauron, e provocarono la loro caduta (p. 1.231 s). Continuarono però a «desiderare un’eterna vita immutata. I re costruivano tombe più splendide delle abitazioni dei vivi ed erano più affezionati ai nomi dei loro antichi alberi genealogici che a quelli dei loro figli» (p. 819).
Il rifiuto della morte e la pretesa dell’immortalità «entro la vita» equivale al rinnegamento della propria natura per appropriarsi di una prerogativa divina. Chi insegue questa chimera si abbandona alle forze distruttrici del male. Saggio e dignitoso, il re Aragorn accetta la morte perché sa che essa è una legge di natura: chiude la porta del tempo ma apre quella che immette oltre i confini del mondo. Prima di morire così dice ad Arwen, la bella fanciulla elfica: «Non lasciamoci sopraffare dalla prova finale, noi che anticamente rinunciammo all’Ombra e all’Anello [alla protezione di Sauron e al possesso dell’Anello]. In tristezza dobbiamo lasciarci, ma non nella disperazione. Guarda! Non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo, e al di là di essi vi è più dei ricordi. Addio!» (p. 1.268).
Altra espressione del male è l’isolamento in cui viene a trovarsi colui che ne è succube. Quando Frodo, per sfuggire ai Cavalieri Neri, s’infila l’Anello al dito, si salva, ma resta solo, staccato dai compagni; Gollum, con l’Anello al dito, si rifugia nelle caverne: «Strisciò viscido e lento come un baco fin nel cuore del monte, sparendo dalla faccia della terra» (p. 87). Similmente Sauron e Saruman vivono nelle loro inaccessibili torri, in compagnia della loro cattiveria. Il male, per sua natura, è negazione di ogni espressione di amore, dunque isolamento che confina con la morte.
Narrativa «fantasy»
Da alcuni critici poco accorti Il Padrone degli Anelli è stato etichettato come opera inficiata di manicheismo, di panteismo naturalistico e di magia pagana. Tali erronee valutazioni critiche derivano da un duplice elemento: dalla scarsa conoscenza dell’epistolario e del saggio sulle fiabe del narratore anglosassone, e dalla pretesa di volerne giudicare il romanzo restando nel proprio campo visivo. Ora l’epistolario è molto importante, perché rivela il suo mondo culturale, le sue convinzioni, l’ambiente storico e sociale in cui è vissuto; il suo saggio poi ci permette di comprendere la libertà immaginativa consentita a un subcreatore. In realtà, Tolkien compone le sue opere fantasy ponendosi all’interno di un universo fantastico, mitologico, anteriore al nostro, avulso dal cristianesimo; pertanto strutturato di eventi e di contesti da noi inattesi, ma del tutto concepibili in quell’universo.
La narrativa fantasy è ambivalente: una cosa sono opere come Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, Il piccolo principe di Saint-Exupéry, Una storia infinita di Michael Ende e anche Pinocchio del nostro Collodi; altra cosa sono i Racconti di E. A. Poe e i romanzi di H. P. Lovecraft. Le prime sono ispirate dalla mitologia, dalle saghe nordiche e dalle storie popolari, i secondi dalle storie di fantasmi e dalla tradizione gotica. Per Tolkien l’extranaturale introduce al soprannaturale, di cui è un pallido riflesso e una particella; per il narratore gotico il nostro mondo è dominato da forze tenebrose che sconvolgono l’ordine naturale e chiudono gli uomini entro mura maledette, precluse ad ogni comprensione e ad ogni speranza di salvezza[13].
Opera d’ispirazione cattolica?
Si può ritenere Tolkien uno scrittore d’ispirazione cattolica? La risposta la fornisce egli stesso in una lettera al gesuita p. Robert Murray: «Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione». E spiega perché: «Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo»[14]. Vuol dire che la sua concezione della vita e della storia è cattolica, e che da essa trae origine e significato la sua opera di scrittore. In altre parole, la fede cattolica informa la sua mente, il suo immaginario, i suoi sentimenti; pertanto quanto scrive porta l’impronta di una visione cattolica e tutto il suo simbolismo e immaginario rimandano a una Trascendenza creatrice e provvidente[15]. Tolkien vuole che l’ispirazione cattolica del suo romanzo sia dedotta non da riferimenti espliciti ma dagli elementi su cui è costruito. «Questo spiega — scrive nella lettera citata — perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la “religione” oppure culti e pratiche, nel mio mondo immaginario». La fede è un’anima che informa un corpo, non un abito che lo copre.
Opera d’ispirazione cattolica, ma anche opera la cui visione epica e mitologica delle vicende narrate è rischiarata da una precisa teologia della storia. «Tolkien […] guardava con apprensione oltre che con attenzione alle umane vicende, all’allontanarsi delle virtù elfiche e all’affermarsi di una superbia di tipo numenoreano, ma ancora più esposta al fascino del male; non volle però esplicitare queste preoccupazioni sotto forma filosofica o morale: preferì parlare al cuore dell’uomo con il linguaggio che meglio conosceva — quello del mito e della favola — per ricordargli l’esistenza di cose belle e preziose, di un bene da perseguire, di sentimenti grandi e nobili, di un senso ultimo delle cose. Come diceva Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo principe, una delle migliori fiabe scritte nel nostro tempo, “bisogna tenere permanentemente sveglio nell’uomo ciò che è grande e convertirlo alla sua grandezza”»[16].
Grande è la sua vocazione: raggiungere il suo Creatore. E anche la sua inquietudine fintanto che da lui è lontano.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2002
Riproduzione riservata
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[1] Cfr J. R. R. TOLKIEN, Il Signore degli Anelli. Trilogia, Milano, Rusconi, 1970. La trilogia comprende La Compagnia dell’Anello, Le due Torri, Il ritorno del Re. Le citazioni si riferiscono a questa edizione.
[2] Il kolossal, realizzato dal regista neozelandese Peter Jackson, comprende la prima parte della trilogia tolkieniana. Le altre due parti saranno distribuite in seguito.
[3] Riportato da P. GULISANO, Tolkien: il mito e la grazia, Milano, Àncora, 2001, 164.
[4] Riportato da H. CARPENTER, La vita di J. R. R. Tolkien, Milano, Ares, 1991, 292.
[5] Ivi, nell’introduzione di G. de Turris, 1 s.
[6] Le lettere di Tolkien, molto importanti per la comprensione della sua opera, sono state pubblicate in volume: La realtà in trasparenza. Lettere: 1914-1973, Milano, Rusconi, 1990.
[7] Cfr G. SOMMAVILLA, Peripezie dell’epica contemporanea, Milano, Jaca Book, 1983, 418. L’Autore è stato tra i primi, in Italia, ad aver intuito l’importanza di Tolkien e ad aver indicato alcune importanti chiavi di lettura della narrativa dello scrittore anglosassone.
[8] Riportata da A. MONDA – S. SIMONELLI, Tolkien, il signore della fantasia, Milano, Frassinelli, 2002, 29. Segnaliamo questo volume per la sua acutezza d’interpretazione e per la ricchezza di apparato critico. La traduzione della lettera poetica è di F. Saba Sardi, in J. R. R. TOLKIEN, Albero e foglia, Milano, Rusconi, 1976, 69.
[9] E. LODIGIANI, Invito alla lettura di Tolkien, Milano, Mursia, 1982, 43.
[10] A. MONDA – S. SIMONELLI, Tolkien, il signore della fantasia, cit., 197.
[11] E. LODIGIANI, Invito alla lettura di Tolkien, cit., 49 s.
[12] J. R. R. TOLKIEN, Albero e foglia, cit., 90.
[13] Su tale argomento cfr J. M. ABÁÑEZ LANGLOIS, «Narrativa “fantasy” & paganesimo», in Studi Cattolici 411 (1995) 278 s.
[14] La lettera di Tolkien (2 dicembre 1953) è la risposta a quella inviatagli dal gesuita dopo la lettura del romanzo (in bozze). La lettura — scriveva p. Murray — gli aveva lasciato la sensazione di «una positiva compatibilità con la dottrina della Grazia». Esprimeva anche il dubbio che i critici sarebbero stati capaci di comprendere il libro: «Non troveranno una nicchia opportunamente etichettata».
[15] Sull’autenticità e profondità della sua fede cattolica la documentazione è abbondante e decisiva, soprattutto nelle lettere indirizzate ai figli.
[16] P. GULISANO, Tolkien: Il mito e la grazia, cit., 119.