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Servizio segreto russo, orgoglioso erede della «Čeka»?
Il 25 febbraio 1956, in una riunione a porte chiuse del XX Congresso del Partito comunista dell’Urss, dopo molte esitazioni e discussioni con il capo del partito, Nikita Kruscev tenne il suo famoso discorso «sul culto della personalità di Stalin e le sue conseguenze», avviando così il processo di destalinizzazione della società sovietica. Questo rappresenta uno dei più grandi successi politici del XX secolo, se si pensa agli eccessi di violenza, alla totale mancanza di diritti e all’insicurezza che regnavano sotto Stalin. Il discorso doveva restare segreto ed essere rivolto solo ai membri del Partito comunista; è diventato pubblico solo per vie traverse.
Più di sessant’anni dopo, il 19 dicembre 2017, anche Alexander Bortnikov, direttore dei Servizi di sicurezza della Federazione russa (Fsb, i Servizi segreti russi), ha tenuto un discorso. Non era segreto, anzi si è voluto che fosse letto dal maggior numero possibile di persone. Si è trattato di un’intervista che egli ha rilasciato al caporedattore del giornale ufficiale del governo russo Rossiyskaya Gazeta. L’occasione è stata il centenario dei Servizi di sicurezza della Federazione russa, fondati, con il nome di Čeka, il 20 dicembre 1917, meno di due mesi dopo l’ascesa al potere dei bolscevichi. Come il discorso di Kruscev fu uno shock per la società di quel tempo, così il discorso del direttore dei Fsb lo è oggi, almeno per coloro che in Russia ne hanno sentito parlare o lo hanno letto.
È la prima volta dal XX Congresso del Partito che un importante rappresentante del governo cerca non soltanto di giustificare la repressione, ma in un certo senso di presentarla come qualcosa di positivo. Non era mai successo dai tempi del discorso di Kruscev. Con Brèžnev, i governanti erano rimasti completamente in silenzio riguardo alla repressione, e in generale riguardo alla personalità di Stalin stesso; avevano cancellato le gesta del dittatore da tutti i libri di storia per non doverlo criticare. Ora, però, nella nuova Russia – che nel 1991 ha scelto la via della democrazia, come sembrava allora, e che dopo il tentativo di colpo di Stato dell’agosto 1991 ha distrutto il monumento a Felix Dzerzhinskj, il fondatore della Čeka – diventa possibile che l’uccisione di milioni di cittadini innocenti di questo Paese, compiuta dal regime comunista con l’aiuto dei suoi Servizi segreti, venga presentata come qualcosa di positivo, o per lo meno come necessaria «nelle circostanze particolari del tempo».
Come scrive Alexander Golz nell’articolo «Gli eredi della “Čeka”», mentre Putin condanna ogni rivoluzione, Bortnikov inneggia a tutto ciò che l’organo della repressione bolscevica ha fatto per la difesa della «giovane Repubblica sovietica». Secondo il direttore dei Fsb, riguardo alle repressioni e agli omicidi causati direttamente dalla Čeka nei primi anni del regime bolscevico, nelle «circostanze dell’inizio della guerra civile e dell’intervento, del crollo dell’economia, della crescita della criminalità e del terrorismo […] del rafforzamento del separatismo», non sarebbe potuto avvenire diversamente.
Secondo Bortnikov, anche le repressioni del periodo di Stalin non sarebbero state immotivate. E se a volte si è arrivati a esagerazioni, esse sono finite quando Berija ha assunto la guida dei Servizi segreti. Riguardo alle epurazioni attuate per eliminare gran parte degli ufficiali dell’Armata Rossa – epurazioni avvenute per la maggior parte sotto Berija –, Bortnikov le ha ignorate.
La cosa peggiore di questa intervista non è, secondo Golz, il fatto che Bortnikov ripeta le medesime spiegazioni usate dai criminali dell’era sovietica, ma il fatto che il direttore dei Fsb, organismo che dovrebbe avere la responsabilità di difendere il diritto, cerchi di giustificare le perversioni della giustizia e i crimini come «necessità storica». È piuttosto sorprendente che nell’organizzazione nata come Čeka e che oggi si chiama Fsb il rispetto della legge e del diritto non siano una priorità. Bortnikov elogia i provvedimenti dei Fsb attuali, non solo quelli diretti contro il terrore e il crimine, ma anche quelli che hanno portato alla chiusura di oltre 120 organizzazioni internazionali e non governative, che sarebbero uno strumento dei Servizi segreti stranieri.
Non si può escludere che questa intervista sia stata pensata come programmatica, e che ciò che è accaduto nella storia possa ripetersi nella situazione critica internazionale di oggi, per ragion di Stato. È interessante però il fatto che nei media stranieri si sia dato rilievo soltanto a ciò che Bortnikov ha detto sulla lotta al terrorismo islamista[1].
L’intervista rilasciata dal direttore dei Fsb ha dimostrato che è ancora troppo presto per lasciare agli storici la questione del terrore di Stato nei confronti dei propri cittadini. Questa organizzazione, che ora non solo rappresenta il centro del sistema di sicurezza della Russia, ma che costituisce anche il nucleo del sistema politico – e oggi sempre più anche del sistema economico –, si considera l’erede della Čeka, creata 100 anni fa per proteggere il regime bolscevico.
La risposta a questa intervista non si è fatta attendere a lungo. Purtroppo però è arrivata quasi esclusivamente dai circoli degli intellettuali e non dalla popolazione. Più di 80 membri dell’Organizzazione «La parola libera», nonché i membri dell’Accademia russa delle Scienze[2] hanno scritto una lettera aperta, nella quale affermano che «questa intervista, in cui il terrore contro il proprio popolo è giustificato o adulato, non è solo l’opinione privata di un uomo, ma un passo importante nella riabilitazione dell’attività della Čeka e un tentativo di approvare anche ufficialmente la ristalinizzazione che sta già avvenendo nella società». Le attività del terrore di Stato, che hanno causato la morte di milioni di vittime innocenti, sono inaccettabili. Le conseguenze di tali repressioni finora non sono state investigate, e si è ancora in attesa che vengano giudicate di fronte alla legge.
Le dichiarazioni del direttore dei Fsb vanno di pari passo con la forte pressione esercitata su coloro che custodiscono la memoria storica del tempo delle repressioni e delle loro vittime attraverso organizzazioni come Memorial o Perm-36. Aleksander Dmitriev, lo storico di Petrozavodsk (capitale della Repubblica di Carelia, al confine con la Finlandia), da un anno si trova in detenzione cautelare. Un altro caso simile è il tentativo di trovare contenuti estremistici nel libro di Jurij Brodskij sui gulag delle isole Solovki. «Bortnikov definisce il terrore di Stato un’esagerazione: questo è un disprezzo della memoria di tutte le vittime delle repressioni. Invitiamo tutti coloro che non vogliono che ciò accada di nuovo a unirsi nella protesta. Questo non dovrà mai più ripetersi».
Stalin e lo Stato «sempre» autoritario
Il processo di «ristalinizzazione» è iniziato negli anni Novanta. A quel tempo, sembrava un fenomeno folcloristico, con le magliette con immagini di Stalin indossate dalle signore e dai gentiluomini più anziani nelle manifestazioni del Partito comunista. In quel periodo, tuttavia, Stalin è stato celebrato solo come leader dell’Unione Sovietica che ha vinto la Seconda guerra mondiale, ma mai come il carnefice degli anni Trenta. L’onore per Stalin come vincitore della Grande guerra patriottica è un fenomeno relativamente nuovo, che contraddice il modo in cui la Seconda guerra mondiale e la Grande guerra patriottica furono considerate durante il periodo della destalinizzazione, iniziato con Kruscev. Fino alla morte di Stalin non c’era stata alcuna celebrazione della vittoria; solo dopo la sua scomparsa questa festa ha acquistato enorme importanza: è diventata una delle feste principali, che nella coscienza e nei sentimenti della popolazione ha forse persino oscurato il giorno della Rivoluzione di ottobre.
Inoltre, il mito positivo della vittoria sulla Germania nazista nella Seconda guerra mondiale – «siamo tutti vincitori» – ha permesso, nel periodo della destalinizzazione degli anni Sessanta, di arrivare alla pace tra il regime (il carnefice) e il popolo, soprattutto i contadini, le vittime del Grande Terrore del tempo della rivoluzione, della guerra civile e poi ancora della collettivizzazione. Tuttavia ciò ha complicato il processo di elaborazione e di chiarificazione di quanto è accaduto negli anni del terrore. Un processo reso ancora più difficile in Unione Sovietica – e ora in Russia – dal fatto che non esisteva un confine preciso tra le vittime e i carnefici: entrambi erano cittadini – o meglio, abitanti, perché i contadini all’epoca di Stalin non erano cittadini – del medesimo Stato, e più volte i carnefici poi sono diventati vittime. Nell’intervista sopracitata, Bortnikov parla di circa 22.000 agenti dei Servizi segreti, i cechisti, uccisi nel periodo del Grande Terrore, molti dei quali, tuttavia, avevano precedentemente partecipato al terrore. D’altra parte, si deve anche dire che con l’eliminazione dei membri dei Servizi segreti le «menti del terrore» avevano cercato di ripulirsi «a spese dei carnefici».
La pace tra lo Stato e il popolo, stipulata dopo la morte del dittatore, non significava che lo Stato rinunciasse a fare ricorso alla violenza per i propri interessi. Soltanto, non si trattava più di violenza «rivoluzionaria», ma di una violenza che doveva servire all’autoconservazione dello Stato e dello status quo. In questo senso, la situazione attuale non è molto diversa da quella di allora, almeno per quanto riguarda l’atteggiamento delle istituzioni che tutelano lo Stato.
Ciò che ora il capo dei Fsb descrive come una necessità, e che giustifica il terrore di Stato, non è più la lotta di classe o la ragione dei partiti, ma la lotta contro i nemici dello Stato, quali che siano. Tutto ciò che minaccia l’esistenza e l’interesse dello Stato può e deve essere combattuto, anche con l’uso di una violenza estrema che non si basa su nessuna legge, ma solo sulla necessità. Questo è molto significativo: ciò che di fatto conta è la disponibilità a usare la violenza. Le cause che possono giustificarla sono varie: la lotta di classe, ma anche semplicemente la necessità di conservare la stabilità politica.
Per quanto riguarda coloro che hanno avviato il terrore rosso, «l’esperimento comunista ha dato loro una giustificazione per l’assassinio dei nemici di classe e di tutti coloro che volevano ostacolare la vittoria del comunismo, anche se non era dettato dall’esperimento comunista. I bolscevichi, ai tempi della guerra civile e più tardi nel periodo staliniano, lo hanno fatto volontariamente e hanno usato la “necessità” come giustificazione per azioni che dovevano servire loro solo per conservare il potere. Stalin e i suoi compagni non parlavano più del bellissimo mondo nuovo quando discutevano di cosa fare con i presunti nemici del loro ordine: parlavano invece di tecniche di violenza. Il sogno della redenzione comunista è stato soffocato nel sangue di milioni di persone, perché la violenza era stata dissociata dalle sue motivazioni, e il dittatore l’associava solo ai suoi obiettivi di potere. Alla fine, tutto riguardava il riconoscimento del potere decisionale, il potere di Stalin di essere padrone della vita e della morte. Solo in un’atmosfera di paranoia e di sfiducia il despota poteva riuscire a imporre la propria volontà agli altri e rendere il proprio mondo un mondo di tutti»[3].
Ma si deve anche osservare che fin dall’inizio del dominio comunista – cioè anche all’epoca di Lenin e dei suoi seguaci – la situazione non è stata diversa: soltanto che allora il terrore doveva servire a consolidare la dittatura dell’intero partito, e non di un solo individuo. Con ciò però non si vuole affermare che anche l’ideologia non abbia fatto la sua parte. La violenza può essere non solo giustificata in modo ideologico retrospettivamente, ma anche usata in anticipo come motivazione. La mobilitazione delle masse è avvenuta con l’uso dell’ideologia, che ha reso l’intolleranza verso i «nemici» una virtù.
Ancora una volta, non importa se si tratta dei nemici di classe o dei nemici dello Stato: in definitiva, conta solo l’incapacità di accettare l’altro con le sue idee e i suoi interessi. «Le persone possono convivere con la diversità, a patto che considerino la visione del mondo altrui come un mondo altrettanto possibile quanto il loro, benché diverso. Laddove viene negata la possibilità che anche gli altri abbiano ragione, non c’è più equilibrio. I bolscevichi non conoscevano alcuna possibilità di guardare il mondo in modo equilibrato: per loro c’era una sola interpretazione, ed essa rappresentava loro stessi. Questo è ciò che ha generato il pensiero deviante della criminalizzazione e della stigmatizzazione di tutto ciò che non si adeguava al loro progetto»[4].
Sebbene già sotto gli zar ci sia stato in Russia uno Stato autoritario e repressivo, i bolscevichi arrivarono a un livello di violenza che non aveva precedenti. La tradizione della repressione dello Stato contro i suoi sudditi fu spinta all’assurdo. A differenza della vecchia polizia zarista, gli organi di repressione di nuova fondazione non si accontentavano di mantenere lo status quo e di ridurre al minimo la violenza: al contrario, la violenza stessa divenne lo strumento principale della politica.
«Essi [i bolscevichi] non avevano idea della distruttività del loro culto della violenza, perché non la tenevano sotto controllo, ma l’avevano fomentata nei sudditi. Nell’Armata Rossa, le reclute imparavano innanzitutto il compito principale di uccidere. Il soldato era coraggioso, con i nervi saldi e brutale. Conosceva solo due mondi: quello degli amici e quello dei nemici. E l’addestramento nell’esercito lo doveva aiutare a riconoscere i nemici e a distruggerli in una lotta per la vita e la morte. I bolscevichi non avevano la minima idea del tradizionale ruolo delle forze armate e della polizia segreta nel respingere le minacce interne ed esterne e nel contenere la violenza. Il culto bolscevico dell’uccidere operava una sistematica disinibizione dei soldati. Così i bolscevichi diventarono, nel ricordo dei loro sudditi, come gli uomini armati che, quando comparivano, portavano morte e distruzione»[5].
Quando dunque il direttore dei Fsb parla del ruolo positivo della polizia segreta bolscevica nel soffocare gli «eccessi» della violenza dell’estrema sinistra, che era al limite del caos e rappresentava una minaccia per lo Stato bolscevico, dimentica che questo tipo di violenza è stato generato e incoraggiato dai fondatori di quello Stato. In realtà, bisognerebbe distinguere fra i tanti tentativi dello Stato di dare un senso a molto – se non a tutto – di quanto è avvenuto nel passato della storia della Russia (anche quando essa era parte dell’Unione Sovietica) e il tentativo dello Stato di purificare e rivalutare alcuni avvenimenti (incluso il terrore in nome dello Stato) al fine di giustificare le misure repressive di oggi.
L’intervista al direttore dei Fsb costituisce un passo in questa seconda direzione, ma non è il primo tentativo. Possiamo ricordare un libro di storia per le scuole pubblicato dieci anni fa. Vi era scritto che tutto ciò che serve gli interessi dello Stato deve essere sostenuto anche dalla società; che il fatto che negli anni Trenta milioni di persone furono arrestate e mandate nei gulag, fu anche per necessità, perché senza il lavoro di questi schiavi non si sarebbero potute sfruttare le risorse del Nord russo, cosa di cui l’industrializzazione aveva bisogno. A quel tempo il tentativo di presentare la ragione di Stato come giustificazione dei crimini di Stato fallì: era più di quanto la società russa potesse accettare. Questo libro di storia fu subito tolto dalla circolazione. Ma, come vediamo, alcuni rappresentanti del regime di oggi non vogliono rinunciare all’ideologia che «ciò che è bene per lo Stato è anche giusto», perché dà loro il pretesto per usare il potere dello Stato, anche contro l’attuale opposizione, quando è necessario.
Stalin come simbolo di ordine e di giustizia
Questa pretesa dei governanti di avere il diritto di usare la violenza contro la popolazione, qualora lo ritengano necessario, difficilmente si sarebbe potuta immaginare se segnali di ristalinizzazione e di giustificazione delle repressioni non fossero arrivati anche dalla popolazione e se non ci fosse stata una disponibilità di base all’affermazione di uno Stato onnipotente che, se è necessario, deve perseguire l’ordine e lo sviluppo anche con la violenza e con le repressioni.
L’ultima ondata di scontri tra gli oppositori dello stalinismo e i suoi difensori si è avuta nel 2013, in occasione del 70° anniversario della battaglia di Stalingrado. In quel momento, il nome di Stalin è stato associato e quasi identificato con le conquiste del popolo, e il dittatore stesso è stato presentato come un rappresentante di quel popolo.
Non si dovrebbe liquidare la nostalgia per Stalin e per il suo tempo come qualcosa di innaturale e masochista. Durante l’era di Brèžnev, l’intera élite al governo è arrivata al potere in seguito all’annientamento dei vecchi quadri. Erano coloro che avevano tratto profitto dal terrore, e hanno conservato la nostalgia per Stalin e per il suo tempo fino agli anni Novanta.
Il tentativo di ristalinizzazione, per così dire, «dal basso» ha una sua storia a sé. Le persone che in Russia – e soprattutto nelle Repubbliche dell’ex Unione Sovietica – hanno più di quarant’anni, possono ancora ricordare che cosa si dicesse di Stalin negli anni Settanta e Ottanta. In realtà, non si pensava affatto a lui. Se ne conosceva il nome e si sapeva che era il capo dell’Unione Sovietica che era arrivato dopo Lenin, e che ai suoi tempi erano avvenute la collettivizzazione e l’industrializzazione. Nient’altro. Stalin non era né adorato né odiato, probabilmente a eccezione delle famiglie di coloro che avevano sofferto durante la repressione.
Questa è stata la conseguenza della politica ufficiale di quel tempo. Dopo il periodo della destalinizzazione seguita al XX Congresso del Partito, la leadership politica al tempo di Brèžnev ha pensato che fosse meglio, in un certo senso, ignorare Stalin. Non lo volevano criticare, non soltanto per non mettere in discussione l’intero sistema, ma anche perché essi erano appunto i veri vincitori del terrore, coloro ai quali Stalin aveva spianato il cammino verso l’alto. Nello stesso tempo, non volevano glorificare Stalin, almeno pubblicamente. Stalin non era completamente cancellato dalla storia. Se ne citava il nome in modo del tutto neutrale: c’era stato un uomo politico con quel nome, e basta. Questa politica ha dato i suoi frutti. I ricordi di Stalin, almeno nelle generazioni che sono cresciute dopo la guerra, a poco a poco sono scomparsi: egli è diventato soltanto una delle tante figure storiche.
Le cose sono cambiate con Gorbaciov e la perestroika. Le informazioni sulle repressioni, i gulag e tutto il resto sono state divulgate ampiamente: sembrava che questa seconda ondata di destalinizzazione sarebbe stata quella decisiva. I crimini sono stati rivelati, i criminali chiamati per nome, senza alcuna giustificazione per ciò che avevano fatto. Nello stesso tempo, però, questo ha avuto come conseguenza che tutti hanno imparato il nome di Stalin. Il problema si è manifestato in seguito, quando, nel 1992, le persone che avevano criticato Stalin sono salite al potere e hanno cominciato a fare riforme che, per usare un eufemismo, erano «poco popolari» e che hanno arrecato soltanto miseria alla maggior parte della popolazione.
Di conseguenza, gli artefici di tali riforme, che al tempo stesso erano i critici di Stalin, non hanno incontrato il favore di molti russi. Per coloro ai quali le riforme hanno arrecato solo svantaggi, Stalin è diventato un polo contrapposto, e sempre più popolare. La loro argomentazione era: «Nei tempi antichi c’era l’ordine, ora c’è il caos; sotto Stalin ciò non sarebbe stato mai possibile. Prima c’era giustizia sociale, e ora invece la maggior parte della popolazione vive in condizioni di estrema povertà, mentre alcuni rubano miliardi».
Persone che non avevano vissuto sotto Stalin e che lo conoscevano soltanto attraverso i libri o i film, hanno iniziato a rispettarlo. Stalin non era più una personalità realmente esistita. No. Era diventato un simbolo di ordine e di potere statale, in un periodo di caos e di umiliazione. Era amato come simbolo, per ciò che si proiettava su di lui, e non per ciò che effettivamente aveva fatto. Si sono cominciate a raccontare leggende su di lui e sulla vita ai suoi tempi: sotto Stalin si viveva come in paradiso.
Questi miti si diffondono ancora oggi. Il problema è che i riformatori non vogliono ammettere che anche loro, sia pure parzialmente, sono responsabili di questa rinascita dello stalinismo, perché hanno lasciato agli stalinisti e al potere statale parole quali «ordine», «stabilità», «giustizia». Fino a quando ciò accadrà, lo Stato repressivo troverà il consenso di una parte della popolazione per la rivendicazione del suo diritto di esercitare una violenza sproporzionata proprio nell’«interesse» dello Stato.
In un sondaggio condotto in Russia all’inizio di giugno del 2017 a cura del Centro russo di ricerca demoscopica insieme con il Museo di storia del Gulag e con la Fondazione Pamjat (che significa «memoria»), il 72% degli intervistati ha dichiarato che ci si dovrebbe ricordare dei gulag e delle loro vittime. Il 49% ha affermato che nulla può giustificare la repressione, ma per il 42% Stalin è stato costretto ad attuare la repressione. Il 90% degli intervistati sa che ai tempi di Stalin molte persone innocenti sono state arrestate e giustiziate, ma il 24% dei giovani tra i 18 e i 24 anni non ne ha mai sentito parlare. Questo è un segno di come viene insegnata la storia nelle scuole e nelle università.
La maggior parte degli intervistati si è informata attraverso i documentari della Tv o articoli dei giornali; il 48% ne ha parlato in famiglia; il 24% ha dichiarato che i propri parenti hanno subìto la repressione. Molto preoccupante è il fatto che il 16% degli intervistati ritenga che fossero giuste le decisioni prese dai tribunali ai tempi di Stalin (il 68% non è d’accordo); tra i giovani, lo pensa il 22%. Il 72% crede che sia giusto parlare di questa pagina terribile della storia, ma il 22% – soprattutto le persone anziane e ancora una volta, sorprendentemente, le nuove generazioni – ritiene che non se ne dovrebbe parlare, perché potrebbe danneggiare la reputazione del Paese[6].
Il fatto che nella coscienza della società russa Stalin e la sua epoca siano indiscutibilmente collegati alla violenza e agli omicidi di massa mostra l’accettazione della sua personalità e delle sue azioni, e perfino l’accettazione della violenza di Stato, che va di pari passo con il disprezzo per la legge. I molti che, come abbiamo visto, sentono nostalgia per la stabilità e la giustizia al tempo di Stalin sono soltanto una parte del più ampio numero di coloro che cercano per vari motivi di giustificare o di razionalizzare lo stalinismo.
Come scrive Alexander Morozov sul sito di Echo Moskvy[7], ancora negli anni Novanta sono apparsi alcuni autori che hanno inserito il terrore di Stalin nel processo della storia: la violenza è semplicemente inevitabile. Lo stalinismo non sarebbe quindi un fenomeno speciale nella storia. In questa prospettiva, l’omicidio di massa non è giustificato, ma razionalizzato: gli autori di tali argomentazioni cercano di spiegarlo con ragioni storiche. Per i comunisti, la motivazione era la lotta di classe; dopo la disintegrazione del comunismo, questa motivazione è stata sostituita con la ragione di Stato. È un discorso che non può essere «patriottico»: la violenza rappresenta solo una delle funzioni di qualsiasi Stato, non soltanto di quello russo.
Altri rappresentanti del neo-stalinismo si basano su una sintesi assurda tra ortodossia e comunismo, che Ioann Snycëv e i suoi seguaci hanno espresso nel libro La Santa Russia e il regno del drago. Si tratta di un approccio storico-civile alla storia: le civiltà nascono, fioriscono e muoiono. Nel libro si sostiene che la civiltà russa ha vissuto il suo periodo di fioritura con Stalin. I milioni di vittime vengono completamente dimenticati, mentre si parla volentieri dell’industrializzazione, della vittoria nella Seconda guerra mondiale e del ruolo della Russia come una delle due potenze mondiali del tempo, cosa che non si era mai verificata prima.
Questi argomenti, anche senza citare esplicitamente Stalin, possono essere sostenuti dalla propaganda di Stato, nel senso che una momentanea posizione di forza sullo scenario mondiale e la grandezza dello Stato possono essere ottenute a prezzo di sacrifici all’interno del Paese, anche se tale prezzo non deve essere necessariamente il sangue.
Si è già accennato al neo-stalinismo più classico: Stalin si erge a simbolo di giustizia, di ordine e di tutto il positivo che ci si aspetta dallo Stato. Questo neo-stalinismo ha i suoi seguaci soprattutto tra i più anziani, che hanno rimosso l’orrore vissuto da loro stessi e dai loro genitori: si ostinano a dire che con Stalin tutto andava meglio, soprattutto l’«ordine», di cui sentono la mancanza, almeno a partire dai tempi della perestroika («i selvaggi anni Novanta»).
Negli ultimi tempi si è andata affermando una nuova prospettiva, che presenta la storia della Russia come la storia della tragedia e della violenza che il popolo ha dovuto subire perché questo era il suo destino. Accettare la Russia significherebbe quindi accettare l’inevitabilità della sofferenza del popolo russo: le vittime del regime diventano (implicitamente) martiri.
Si potrebbe ricordare anche il cosiddetto «neo-stalinismo polemico». Esso viene utilizzato solo per sconfiggere gli avversari nel dibattito pubblico. Questa variante del neo-stalinismo non ha una propria ideologia, ma soltanto parole vuote: «Stalin ha creato l’Ucraina nei suoi confini attuali»; «Gli altri erano ancora peggio (per esempio, Truman, che ordinò che le bombe atomiche venissero lanciate sul Giappone)». Pur non avendo come obiettivo la riabilitazione di Stalin e della sua politica, questa retorica contribuisce innegabilmente all’accettazione del dittatore tra la popolazione.
Sebbene la stragrande maggioranza dei russi si opponga a questi tentativi di riabilitare Stalin e il suo regime, non va trascurata la ristalinizzazione strisciante, che è iniziata dal basso e ora viene utilizzata dallo Stato per i propri scopi. Il pericolo di questo fenomeno non dev’essere sottovalutato, perché la giustificazione dei crimini del regime in nome della ragion di Stato o in nome dell’ordine e della giustizia sociale rende possibile che ciò che è accaduto una volta si ripeta ancora.
La cosa migliore per combattere il neo-stalinismo e ogni altra forma di nostalgia del totalitarismo è mostrare che l’ordine, la stabilità e la giustizia possono esistere anche in uno Stato liberale che rispetta i diritti dei suoi cittadini ed è al loro servizio[8].
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IS STALIN STILL ALIVE IN RUSSIA?
How can we explain the fact that, although everyone knows who Stalin was, and what his system did to the Russian people, he is still one of the most popular personalities in Russia? According to the Lewada-Institut survey, Stalin is considered the most extraordinary personality in Russian history, even more than Pushkin and even more than Putin. What drives the Russians to continue honoring this dictator? But so they really honor him, or is there something completely different behind this behavior? Although the overwhelming majority of Russians are opposed to any attempts to reaffirm the value of the dictator and his regime, we cannot ignore the process of creeping “re-stalinization”, started from below and now used by the State for its own purposes.
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[1]. Cfr «4.500 Russians joined “terrorists” abroad; security service chief», in Japan Times, 20 dicembre 2017.
[2]. Cfr https://echo.msk.ru/blog/inliberty/2007878-echo
[3]. J. Baberowski, Verbrannte Erde. Stalins Herrschaft der Gewalt, München, C. H. Beck, 2012.
[4]. Id., Der rote Terror. Die Geschichte des Stalinismus, München, Deutsche Verlags-Anstalt, 2003.
[5]. Id., Verbrannte Erde…, cit.
[6]. Cfr Cfr anche https://web.archive.org/web/20181013011252/https://wciom.ru/index.php?id=236&uid=116323
[7]. Cfr https://echo.msk.ru/blog/inliberty/2007878-echo
[8]. Il 30 ottobre 2017, intervenendo alla cerimonia di inaugurazione del «Muro del cordoglio», un nuovo monumento a Mosca dedicato alle vittime della repressione sovietica, il presidente Putin ha definito la repressione di epoca sovietica «una tragedia per il popolo russo» che «non può essere in alcun modo giustificata, da nessun cosiddetto “bene del popolo”». Cfr ria.ru/politics/20171030/1507848582.html