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L’attualità del pensiero di Immanuel Kant deve essere individuata nel fatto che egli è stato uno dei primi filosofi a riflettere sui concetti di spazio e tempo in sintonia con la nuova (rispetto ad Aristotele) fisica nata con Galileo e Newton. La riflessione del filosofo tedesco si colloca nel flusso della storia delle idee che ha avuto ripercussioni anche sullo sviluppo della fisica newtoniana. In seguito Einstein, nel tentativo di superare il concetto di azione a distanza in relazione alla forza di gravitazione universale introdotta dallo stesso Newton, e quindi di impiegare il concetto di «campo» anche nella gravitazione, comprenderà proprio la necessità di modificare i concetti di spazio e tempo della meccanica newtoniana. In questo modo egli approderà alla relatività generale, che produce una visione cosmologica dell’universo completamente nuova rispetto al meccanicismo newtoniano. Oggi sembra che i tentativi di unificare i princìpi della meccanica quantistica con quelli del campo gravitazionale (il che permetterebbe di descrivere i primissimi istanti dell’universo dopo il Big Bang) debbano nuovamente passare attraverso le forche caudine di una interpretazione in senso quantistico dei concetti di spazio e tempo.
Kant fin dalle sue opere giovanili affronta problematiche concernenti la struttura del cosmo e la natura dello spazio. Nella metà del Settecento, d’altra parte, era normale che tali questioni venissero analizzate secondo un approccio scientifico e filosofico al contempo. Basti dire che allora neppure veniva impiegato il termine «scienziato», preferendo quello di «filosofo naturale».
In sintonia con tale impostazione, Kant procede dunque sulla via dell’indagine tenendo sempre insieme la questione cosmologica con quella spaziale. Egli ritiene infatti che le dinamiche dell’universo vadano indagate secondo un’ottica «globale», capace di guardare contemporaneamente alle caratteristiche fisiche del cosmo e alle condizioni che consentono al soggetto di conoscerlo. Non basta cioè considerare quelle caratteristiche del cosmo (estensione, divisibilità ecc.) che riguardano la sua fisicità: occorre ampliare la prospettiva dell’indagine, alla ricerca del fondamento che sta alla base del concetto stesso di cosmicità. Il che è operazione squisitamente filosofica.
Proprio in tale quadro la riflessione sullo spazio diventa cruciale: Kant ritiene che non si possa arrivare ad una conoscenza efficace del cosmo prescindendo dallo «strumento» che il soggetto impiega nella esplorazione della realtà che lo circonda. Tale strumento è proprio lo spazio, ossia l’idea su cui l’uomo costruisce la conoscenza del cosmo stesso. Esiste quindi un nesso inscindibile tra la cosmologia e la concezione kantiana dello spazio assoluto, che è rintracciabile in modo più o meno esplicito già nella produzione precritica. Tale nesso si fonda su una visione filosofica che coniuga i risultati a cui era approdata la moderna scienza newtoniana con una nuova Weltanschauung, che punta sempre più decisamente a bruciare i ponti con le ultime scorie del razionalismo. Gli anni centrali del Settecento furono infatti segnati nella Prussia di Kant, e in particolare nell’ambiente universitario frequentato dal filosofo, dalla netta prevalenza dell’impostazione razionalista inaugurata da Leibniz (1646-1716) e Wolff (1679-1754). Per essa la conoscenza non può che fondarsi sulla ragione, ossia sull’unica facoltà che consente all’uomo di approssimarsi alla verità in modo più efficace e sicuro. Il ruolo dell’esperienza è quindi considerato sostanzialmente marginale. Fondare la conoscenza su quest’ultima, come pretende certo empirismo radicale, significherebbe infatti affidarsi alla sensibilità, che per i suoi limiti non può che produrre conoscenze incerte e soggettive.
L’approccio razionalista aveva indotto Leibniz a condividere dapprima la concezione atomista e corpuscolare della realtà (i corpi consistono in un aggregato di corpuscoli materiali). In seguito il filosofo mutò prospettiva e sostenne che la realtà dei corpi si fonda sull’aggregazione di elementi semplici, indivisibili e privi di estensione: le monadi (o sostanze). I corpi così formati sono collocati nello spazio e nel tempo. Il problema è che per Leibniz questi ultimi sono concetti astratti, che il soggetto impiega per ordinare la propria visione della realtà. In particolare, il concetto di spazio è utilizzato dal soggetto per pensare le posizioni relative dei corpi collocati uno accanto all’altro. Il concetto di spazio per Leibniz viene dunque formato dalla mente del soggetto pensante. Questi può anche considerare, sempre sul piano teorico, i singoli corpi in relazione con uno spazio assoluto. Quest’ultimo è concepito dal soggetto come un contenitore vuoto e preesistente rispetto alle manifestazioni corporee. La verità, per Leibniz, è che questa visione, sostenuta da Newton e dai newtoniani, non è metafisicamente sostenibile. Per lui lo spazio assoluto non esiste come sostanza. È soltanto una pura invenzione mentale, a cui non corrisponde una realtà effettiva [1].
Tali riflessioni vengono poi sviluppate ulteriormente da Wolff nei Pensieri razionali sulle operazioni della natura e nella Cosmologia generalis (1731). Egli inserì la cosmologia all’interno della metafisica, considerandola una scienza puramente razionale e negando che l’esperienza sensibile possa scioglierne i nodi fondamentali. In questo clima intellettuale Kant, tra il 1746 e il 1766, realizza il suo apprendistato di scienziato. Peraltro avendo come principale maestro il wolffiano eterodosso Martin Knutzen (1713-51).
La riflessione kantiana sullo spazio e sul cosmo appare subito sottoposta a forti tensioni, costellata com’è di dubbi, ripensamenti, rielaborazioni successive. Non esiste dunque una soluzione univoca e perfettamente congegnata ab initio: al contrario, c’è una parabola teoretica irregolare e caratterizzata da un percorso evolutivo accidentato. La preistoria di questo percorso comincia idealmente nel 1755, anno in cui Kant dà alle stampe Storia universale della natura e teoria del cielo[2]. L’opera, uscita anonima e all’inizio destinata a non riscuotere alcun successo, era significativamente sottotitolata Saggio sulla costituzione e l’origine dell’universo, trattate secondo i principi newtoniani. Kant stava allora per cimentarsi nell’insegnamento della geografia fisica (il corso partì nel 1756). Evidentemente le questioni astronomiche si intersecavano con una riflessione a tutto campo sui temi della spazialità.
Nel saggio del ’55 è possibile rintracciare la prima formulazione di quella che ancora oggi viene denominata «ipotesi di Kant-Laplace», nonché, anticipando James Jeans (1877-1946)[3], l’applicazione di questa medesima teoria alla Via Lattea (che cinque anni prima Thomas Wright aveva identificato come sistema stellare), fermo restando che sul piano strettamente cosmologico il risultato più originale consiste nell’ipotesi che l’universo intero sia spazialmente infinito e stabile. Kant credeva che esso fosse in continua evoluzione su grande scala, perché lo immaginava formato da tanti sub-universi delle dimensioni della Via Lattea, i quali crescono o diminuiscono nelle loro dimensioni spaziali in modo tale da mantenere un equilibrio globale[4].
Questa ipotesi ebbe un tale successo che in seguito lo stesso Einstein, anche dopo aver formulato la teoria della relatività generale, ne rimase influenzato. Infatti, quando venne escogitata la soluzione cosmologica di Friedmann, Lemaître, Robertson e Walker alle equazioni della relatività generale, che prevedeva l’espansione globale dell’universo, Einstein stesso sostenne che si trattava di una soluzione matematicamente corretta, ma fisicamente sbagliata. Perciò corse ai ripari introducendo una costante cosmologica nelle sue equazioni. Essa, sulla scia di Kant, escludeva soluzioni che prevedessero l’espansione globale dell’universo. Quando però fu trovato il redshift dello spettro delle stelle, e quindi la prova dell’espansione dell’universo, Einstein ammise pubblicamente di aver fatto il più grande sbaglio della sua vita[5].
Il cosmoper Kant è «un tutto ben ordinato». Esso presuppone il disegno di una mente superiore, ossia di una «causa prima» identificabile con Dio. L’Ente divino è garante e creatore di «ordine» (cosmos). Tale ordine è incardinato sulla presenza di uno spazio entro cui si snodano le dinamiche dei corpi celesti. En passant, ma in modo molto significativo ai fini del nostro discorso, Kant sente il bisogno di specificare anche che «lo spazio in cui tali corpi si muovono è vuoto»[6]. E il movimento riguarda tutti i corpi astrali, comprese le stelle (presunte) fisse.
Posto dunque il nesso cosmo-spazio, nel senso che non è concepibile un universo dinamico a prescindere dall’essenziale presenza in esso dello «spazio vuoto», Kant si muove decisamente nel solco della riflessione newtoniana, pur tra remore e comprensibili cautele. Egli è già pienamente consapevole delle tante difficoltà insite in qualunque tentativo di definire la natura e le qualità dello spazio[7]. Tanto è vero che, in una nota a margine del capitolo primo, aggiunge: «Non mi pongo in questa sede il problema se lo spazio possa esser considerato vuoto in senso assoluto»[8]. Il che è indice di grande incertezza, con buona pace di chi pretende di rintracciare all’interno del cosmo i princìpi primi e supremi esulando dall’intervento divino, che dà conto di ciò che l’indagine razionale non è in grado di spiegare.
Poco oltre Kant afferma che non si può giustificare neppure il movimento dei pianeti con una causa di ordine materiale. Ma soprattutto che dalla constatazione pratica di tale movimento si può dedurre l’esistenza di uno spazio perfettamente vuoto, «o almeno come se lo fosse». Un corpo, per potersi muovere, ha infatti bisogno di uno spazio vuoto, poiché, se tutto fosse pieno di corpi, il movimento provocherebbe una sorta di effetto domino: per occupare una porzione di spazio il corpo dovrebbe infatti subentrare ad un altro corpo, assumendone la posizione. La formula impiegata da Kant introduce un elemento di dubbio. Esso non viene superato dalla successiva constatazione secondo cui lo spazio sarebbe «ripulito» dalla forza di attrazione. Quest’ultima agirebbe in modo da suscitare la concentrazione della materia in alcune regioni spaziali, là dove si formano quindi i corpi celesti.
Lo spazio è in definitiva l’elemento essenziale della realtà cosmica. Esso è reale (e non fittizio come sostenuto da Leibniz)e conditio sine qua non del movimento e della formazione dei corpi, a loro volta necessariamente dotati di estensione, ossia di qualità spaziali. È insomma il fondamento dell’esistenza e, al contempo, della pensabilità del cosmo stesso. Non si potrebbe infatti concepire l’universo se non attribuendogli una estensione spaziale. Poiché è composto da corpi di natura materiale, e quindi a loro volta estesi, si può considerare un recipiente in cui i corpi stessi sono collocati.
Tralasciando per adesso la questione della sua ampiezza (finita o infinita?), Kant si limita ad affermare che il cosmo ha sicuramente una estensione spaziale. D’altra parte, un recipiente può avere le più svariate forme e dimensioni, ma non può certo essere privo di una propria spazialità. Di conseguenza, il contenitore cosmico, per così dire, non può essere frutto di un’illusione soggettiva. Se così fosse, potrebbe anche non esistere effettivamente, pur essendo pensato. Il che, secondo Kant, è inaccettabile. Equivarrebbe infatti ad ipotizzare che la percezione della realtà che ci circonda potrebbe essere il risultato di una specie di vaneggiamento collettivo su cui si costruisce perfino la scienza del cosmo.
Il piano ontologico (l’essere dello spazio) interseca dunque quello gnoseologico (la pensabilità dello spazio), ma mantenendo una connotazione non del tutto comprensibile all’intelletto. Nasce da ciò l’insopprimibile «meraviglia» di fronte «all’incommensurabile grandezza, alla varietà, e alla bellezza infinite di cui risplende in ogni sua parte l’universo…»[9].
In questo testo kantiano si registrano dunque i primi passi verso la definizione dello spazio. Per adesso Kant ne può affermare nettamente la «realtà» ontologica e gnoseologica; l’infinitezza[10]; l’unicità; l’alternanza di «vuoto» e «pieno»; il ruolo di condizione indispensabile per l’esistenza e la conoscibilità dell’universo. La risposta alla domanda ineludibile sull’origine della realtà dello spazio e del concetto che di esso ha il soggetto è che tale origine è unicamente nella mente di Dio[11]. Rimangono però altri nodi da sciogliere. Ed è significativo che Kant impiegherà ancora un ventennio per giungere ad una soluzione soddisfacente. Entro questo arco temporale si colloca peraltro quella svolta metafisica che finisce per avere un peso determinante proprio sulle riflessioni concernenti lo spazio. La problematica spaziale verrà allora affrontata con un approccio metafisico-filosofico. Questa virata si può intravedere nell’opera precritica che più sistematicamente è incentrata sul tentativo di chiarire il concetto e la natura dello spazio: Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume (1768) [12].
La posizione matura nella «Critica della ragion pura»
La conclusione a cui Kant approda è che «lo spazio assoluto non è oggetto di sensazione esterna, ma concetto fondamentale che rende per primo possibili tutte quelle sensazioni»[13]. Posizione, questa, prontamente ribadita nella Dissertazione del 1770, composta dopo «la grande luce del 1769».
Nel paragrafo 15 di quest’opera Kant scrive: «Il concetto di spazio non viene astratto da sensazioni esterne. Non posso infatti concepire una cosa come posta fuori di me se non rappresentandola in un luogo diverso da quello in cui mi trovo io…»[14]. Non solo, ma lo spazio è una «intuizione pura», di natura esclusivamente soggettiva e ideale. Su tale intuizione si fonda la geometria, senza la quale non sarebbe neppure possibile nessun’altra scienza, poiché è il medium che rende possibili le scienze. Non si può dunque prescindere dalla spazialità e dalla connessa geometria, in quanto essa è il paradigma di tutte le scienze che si occupano della materia, delle sue mutazioni e qualità[15]. Lo spazio assume perciò la connotazione di «una specie di schema destinato a coordinare soggettivamente tutto ciò che comunque è sentito». Poiché esso è la condizione soggettiva di tutti i fenomeni («principio formale assolutamente primo del mondo sensibile»[16]), è evidente che il cosmo nella sua interezza non può essere concepito e conosciuto prescindendo dall’intuizione pura spaziale.
Alla fine di questo tracciato teoretico Kant arriva alla conclusione che lo spazio, in quanto intuizione soggettiva, non è una proprietà essenziale degli oggetti, né ha una valenza ontologica: esso è semplicemente il modo in cui ordiniamo gli oggetti uno accanto all’altro[17]. È la forma a priori del senso esterno del soggetto conoscente su cui si basa la geometria.
Quanto Kant scrive nella Kritik der Reinen Vernunft a proposito dello spazio ricalca in sostanza ciò che già si legge nella Dissertazione del 1770. Qui viene confermata la natura reale e ideale dello spazio; la sua unicità e universalità; la possibilità di pensarlo a prescindere dagli oggetti. Il filosofo precisa però che si tratta di una forma pura a priori, ossia una rappresentazione (Vorstellung) posta «a fondamento di tutte le intuizioni esterne». Proprio perché il soggetto sperimenta concretamente l’uso dell’intuizione pura spaziale in ogni attività conoscitiva del mondo esterno, e quindi del cosmo, Kant può avanzare l’ipotesi che si tratti di una forma a priori (non desunta cioè dall’esperienza) posseduta dal soggetto, ovvero della condizione necessaria della sensibilità.
Il mondo in cui il soggetto pensante è collocato assieme agli altri enti fisici non si può rappresentare se non sulla base dell’idea spaziale. Sulla scia della meccanica newtoniana, per Kant lo spazio e il tempo sono una sorta di sistema di riferimento cartesiano non interagente con i fenomeni stessi; una specie di background, che l’osservatore sceglie in modo tale da risultare immobile o in movimento con velocità costante rispetto al sistema assoluto di riferimento solidale con le stelle fisse[18].
In effetti, fu il problema cosmologico, come spiega Kant in una lettera tarda, a condurlo alla definizione della teoria della conoscenza, e quindi alla soluzione profilata nella Kritik der Reinen Vernunft [19]. In essa si coglie un suggestivo campo di applicazione pratica delle riflessioni kantiane sullo spazio. In particolare, nell’ambito delle antinomie cosmologiche il filosofo sostenne che le idee di spazio e tempo possono essere applicate a oggetti ordinari o a eventi fisici, ma non sono estendibili all’universo intero. Lo spazio non è un oggetto o un evento. Non è nemmeno osservabile. In che modo, infatti, lo si potrebbe qualificare sensibilmente? Esso non ha odore, colore, suono, consistenza fisica. Non fa insomma parte del mondo empirico reale degli oggetti e degli eventi, ma piuttosto del bagaglio intellettuale del soggetto, ossia dell’apparato mentale di cui esso dispone per comprendere la struttura fisica del mondo. Il suo corretto uso è quindi quello di uno «strumento di osservazione», poiché nell’osservare un qualunque fenomeno il soggetto lo colloca immediatamente e intuitivamente, si direbbe automaticamente e in modo non del tutto consapevole, in un ordine spaziale (e temporale). Perciò lo spazio (come il tempo) può essere considerato un «sistema di riferimento»[20].
Resta inteso che il recinto dell’applicazione della intuizione pura (spaziale e temporale) non può travalicare in alcun modo i limiti dell’esperienza possibile: sulle sabbie mobili della razionalità pura non è infatti possibile fondare alcuna conoscenza certa del mondo fisico. Il cosmo, di conseguenza, sarà conoscibile con certezza soltanto sub specie di fenomeno, e quindi entro i limiti dell’esperienza del soggetto. Limiti angusti e insormontabili, come dimostra l’inevitabile naufragio nelle antinomie, ossia nella paralizzante impossibilità di sciogliere le contrastanti soluzioni proposte dalla razionalità pura al problema cosmologico. Perché, quando la ragione pretende di risolvere questioni che oltrepassano i ricordati limiti dell’esperienza sensibile, diventando così «pura», finisce per precipitare in contraddizioni irrisolvibili. Nel caso dell’universo questa difficoltà emerge con particolare drammaticità. Il soggetto non è infatti in grado di sperimentare le caratteristiche del cosmo nella sua interezza. Esistono cioè regioni dell’universo di cui il soggetto non ha mai fatto, e probabilmente mai farà, esperienza. Perciò la conoscenza del cosmo da parte del soggetto è destinata a restare monca.
Lo scacco della ragione: estensione del cosmo, antinomie e dintorni
Balena in tale contesto problematico la questione cruciale dell’estensione dell’universo. È indubitabile che il cosmo è conoscibile soltanto attraverso il medium dell’idea spaziale (e temporale). Si può cioè affermare con certezza assoluta che per il soggetto il cosmo stesso sussiste nello spazio (e nel tempo), ed è dunque dotato di una certa estensione. Risulta però impossibile stabilirne la finitezza o meno. Ciò per il semplice motivo che non è possibile effettuare una esperienza risolutiva che stabilisca l’entità spaziale del cosmo. Da qui scaturisce il tentativo della razionalità pura di sciogliere l’enigma, un tentativo che per Kant è destinato inevitabilmente allo scacco: mai la ragione, senza il supporto dell’esperienza, può costruire una conoscenza certa. Almeno per il soggetto. Non è perciò possibile, alla luce di quanto detto, impiegare in modo risolutivo l’idea di spazio in riferimento ad entità, come l’universo, che trascendono i limiti dell’esperienza sensibile. Resta infatti un residuo di incertezza, posta l’impossibilità del perfetto adeguamento dell’idea alla res. È soprattutto impossibile chiarire in modo definitivo il mistero della sua formazione sulla base dell’approccio scientifico.
Sulla base di questa impostazione teoretica Kant prende in esame le contrapposte teorie cosmologiche della sua, e anche della nostra, epoca. Proprio perché restano aperte le questioni concernenti l’effettiva origine o l’unicità dell’universo, e soprattutto la definizione della sua effettiva estensione. Per Kant tali problematiche sono destinate a rimanere insolubili, poiché nulla si può sperare di risolutivo da una «cosmologia razionale», avulsa cioè dall’esperienza, poiché essa per la sua impostazione puramente «razionale» è destinata a restare bloccata in irrisolvibili contraddizioni («antinomie»)[21].
Nella tesi della prima antinomia Kant parte dall’affermazione che il mondo ha un inizio nel tempo e, per quanto riguarda lo spazio, è limitato[22]. Nella seconda parte della stessa tesi, riguardante la finitezza del mondo, Kant suppone, per assurdo, che il mondo stesso sia infinito, ovvero costituito da un’infinità di cose simultaneamente esistenti e già date. Tuttavia, egli nota che il soggetto può pensare ad un quantum che non sia dato in determinati limiti stabiliti, ma solo mediante la sintesi successiva delle parti. Se però il mondo riempie tutti gli spazi, secondo la visione newtoniana, dato che si riesce ad avere l’intuizione sensibile soltanto di parti finite e limitate, per avere una sintesi completa del mondo, e quindi una sua intuizione sensibile, occorre una serie infinita di intervalli di tempo: un tempo infinito. Il che è impossibile. Perciò il mondo non potrà essere un’infinità di cose già date simultaneamente ed esistenti. Allora esso, dal punto di vista spaziale, è finito.
Nell’antitesi della prima antinomia Kant parte dall’enunciato secondo cui «il mondo non ha né cominciamento né limiti spaziali, ma è così, rispetto al tempo come rispetto allo spazio, infinito»[23]. Per assurdo è possibile dimostrare che il mondo è spazialmente illimitato. Kant suppone che esso sia finito e limitato, e quindi collocato in uno spazio vuoto illimitato. In questo caso si dovrebbe ammettere non solo una relazione fra le cose collocate nello spazio, ma anche una «fra le cose e lo spazio». Ma siccome il mondo è un tutto assoluto, e fuori dal tutto non c’è nulla, la relazione tra esso (tutto) e lo spazio vuoto (nulla) si risolverebbe ipso facto nell’annichilimento della spazialità. Di conseguenza il mondo non può venire limitato da quel non-essere a cui si riduce lo spazio, e quindi è infinito[24]. In queste dimostrazioni notiamo che i concetti di spazio e tempo che Kant utilizza sono quelli del senso comune e dell’esperienza quotidiana. In fondo, dunque, gli stessi che erano stati impiegati da Newton nella sua formulazione della meccanica. Tali concetti determinano le antinomie della cosmologia razionale quando sono applicati all’universo intero. Perciò Kant riteneva che bisognasse indagare meglio su di essi e sulla loro natura. Questa esigenza ebbe un impatto notevole sulla definitiva formulazione della teoria secondo cui lo spazio (e il tempo) sono forme pure a priori dell’intelletto umano.
Il convitato di pietra
La cosmologia non può eludere questo snodo teoretico. Perciò ancora oggi occorre fare i conti con le obiezioni kantiane, e continuare ad interrogarsi sulla possibilità di indagare efficacemente l’universo in un’ottica razionale, superando i limiti dell’esperienza possibile. Se si sostiene l’impossibilità di questa indagine, il rischio, ben presente già a Kant, è quello di scadere in un paralizzante scetticismo (tipo quello di Hume) per il quale diventerebbe impossibile costruire leggi universali e scientificamente valide, perfino quando ci si muove nell’ambito empirico. Accogliere la posizione scettica significherebbe, ad esempio, liquidare la concezione di Newton come una semplice ipotesi priva di fondamenti saldi. Per schivare questo pericolo, Kant nega l’assunto di Hume e degli scettici, per i quali la teoria di Newton, matematicamente precisa, sarebbe soltanto il frutto delle osservazioni empiriche accumulate, che possono essere smentite in qualsiasi momento da ulteriori esperienze.
Per Kant, come la geometria, la scienza newtoniana, pur confermata dalle osservazioni empiriche, non è il risultato di queste, ma unicamente dei modi di pensare del soggetto. Non i dati sensibili, ma il nostro intelletto, in quanto organizzatore del sistema assimilativo della mente, è responsabile delle teorie scientifiche. Esaltando il ruolo svolto dall’osservatore, dal teorico, dall’investigatore, Kant ha lasciato un traccia indelebile nella fisica, nella filosofia e nella cosmologia. Al di fuori delle prospettive aperte dalla riflessione kantiana sarebbero difficilmente concepibili, ad esempio, le teorie di Einstein e di Bohr[25].
D’altra parte, la natura quale noi la conosciamo è il prodotto delle attività assimilatrici e ordinatrici della mente: «L’intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, anzi gliele prescrive»[26]. L’indagine sullo spazio cosmico non sfugge a questa logica: è unicamente il soggetto che assimila i dati sensibili ad imprimere attivamente agli stessi dati l’ordine e le leggi dell’intelletto. Il cosmo, quindi, reca l’impronta della mente del soggetto. E tale impronta si riconduce proprio all’idea pura spaziale.
L’equivoco dell’infinito
La critica kantiana alla cosmologia razionale, in particolare al travisamento che essa determina del significato autentico del concetto di spazio, verrà successivamente attaccata dal matematico George Cantor (1845-1918), considerato il fondatore della teoria degli insiemi, e da Lucio Lombardo Radice (1916-82)[27]. Costoro hanno in effetti travisato il senso della posizione di Kant a proposito della infinità dello spazio. La loro critica è infatti fondata su un concetto puramente astratto di infinito.
Secondo i due matematici l’utilizzo del concetto di infinito da parte del filosofo di Königsberg sarebbe improprio. Ciò implica, a loro modo di vedere, che la dimostrazione della presenza di antinomie nella cosmologia sarebbe non valida. Il che dimostrerebbe l’infondatezza della teoria dello spazio e del tempo. A nostro giudizio, invece, il concetto di infinito utilizzato da Kant ha senso nell’ambito della sua teoria della conoscenza, alla quale sia Cantor sia Lombardo Radice non hanno prestato sufficiente attenzione. Il secondo è stato particolarmente influenzato dalla seguente affermazione di Georg Cantor: «Il concetto di infinito viene trattato da Kant, senza una seria premessa chiarificatrice, nella sua Critica della ragion pura, nel capitolo sulle “Antinomie della ragion pura”, in relazione a quattro quesiti, per fornire la dimostrazione che ad essi si può rispondere con pari rigore con una affermazione e con una negazione. Anche tenendo conto della scepsi pirroniana e accademica colla quale Kant ha tanti punti di contatto, nulla ha forse mai portato maggior discredito alla ragione umana e alla sua capacità più di questa parte della filosofia trascendentale critica»[28].
Il punto più spinoso e che lascia perplessi è che Lombardo Radice critica Kant affermando che il filosofo avrebbe confuso il concetto di infinito attuale transfinito con quello di infinito attuale assoluto[29]. Ciò sulla base dell’affermazione presente nella «Osservazione sulla I Tesi», secondo cui «una quantità è infinita se nessuna maggiore di essa è possibile».
La critica di Cantor, che è poi la stessa di Lombardo Radice, verte sul fatto che dopo Kant è invalsa l’abitudine di considerare l’infinito assoluto come il limite del finito. Cantor ha invece scoperto l’esistenza di una gradazione di infiniti chiamati «infiniti attuali transfiniti». Essi risultano sempre ulteriormente accrescibili, secondo i cosiddetti gradi di infinito. In realtà, proprio in questa critica c’è un pesante fraintendimento della posizione di Kant. Questi, come emerge da una lettura attenta e meticolosa delle antinomie, vuole mettere in evidenza che dell’infinito attuale non abbiamo né intuizioni sensibili che ci vengono dalla realtà, né idee a priori. Tutto questo determina inevitabilmente alcuni paradossi: i cosiddetti paradossi dell’infinito.
Spazialità kantiana e relatività
In realtà, le argomentazioni di Kant sull’universo e sul tempo attestano che i concetti di spazio e tempo sono strettamente dipendenti dalla concezione della fisica newtoniana. Su questa base è possibile operare un confronto con la relatività generale e speciale, laddove i due concetti possono essere considerati «forme a priori» che il soggetto usa per la comprensione e la catalogazione dei fenomeni. È però presente un nuovo ente in relatività generale: lo spazio-tempo, in cui la divisione tra i due termini è puramente soggettiva. Lo spazio-tempo rappresenta la geometria dell’universo (varietà differenziabile lorenziana) che possiamo pensare, astrattamente, come una superficie quadridimensionale le cui dimensioni sono costituite dalle tre spaziali e dalla temporale. Essa è determinata dalla massa-energia degli oggetti che formano l’universo stesso. Lo spazio-tempo può essere interpretato come un’entità ontologica (posizione «sostanzialista»), oppure come una relazione fra gli oggetti dell’universo (posizione «relazionalista» o «leibniziana», come citato sopra). Sicuramente non è frutto della mente del soggetto, ma un’entità extra-mentale.
Nella sua opera maggiore Kant ha indugiato pure sulla questione controversa, e di cogente attualità, della finitezza o infinità dell’universo, sia nel tempo sia nello spazio. Einstein ha proposto un modello di spazio al contempo finito e senza limiti [30], procedendo però con metodi che certo Kant e i suoi contemporanei non potevano conoscere. Resta comunque attuale l’opinione di Kant per cui lo sperimentatore non deve attendere che alla natura piaccia di rivelargli i propri segreti, ma deve interrogarla secondo le sue ragioni. Lo scienziato deve fare ciò rispondendo alle sollecitazioni dei propri dubbi, congetture, teorie, idee e ispirazioni. Sempre nella consapevolezza dei propri limiti. È, questa, una sorprendente scoperta filosofica, che permette di guardare alla scienza, sia teorica sia sperimentale, come a una creazione umana, e di considerare la sua storia come parte della storia delle idee, sullo stesso piano della storia dell’arte e della letteratura.
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[1] Si legga lo scambio epistolare tra Leibniz e il newtoniano Clarke, risalente al 1715-16. In esso Leibniz nega la possibilità di pensare lo spazio a prescindere dai corpi che lo occupano. Da qui la sua relatività legata alla posizione dei corpi stessi, nonché l’affermazione secondo cui «spazio è ciò che risulta dai posti presi insieme». Cfr G. W. Leibniz, Epistolario Leibniz-Clarke, in Saggi filosofici e lettere, Bari, Laterza, 1963.
[2] Cfr I. Kant, Storia universale della natura e teoria del cielo, Roma – Napoli, Theoria, 1987. In realtà, già nei precedenti Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (1746), incidentalmente Kant si era soffermato sul problema dello spazio, accogliendo sostanzialmente l’ipotesi leibniziana secondo cui esso consiste in un «ordine di coesistenza», ovvero scaturisce dal rapporto relazionale tra gli enti, senza che ciò ne infici la realtà oggettiva. In proposito si veda A. Guerra, Introduzione a Kant, Roma – Bari, Laterza, 1988, 8. Per un profilo generale cfr P. Grillenzoni, Kant e la scienza, vol. I, Milano, Vita e Pensiero, 1998.
[3] J. Jeans dimostrò l’insostenibilità dell’ipotesi di Kant-Laplace sull’origine del sistema solare.
[4] Cfr H. Kragh, Cosmology and Controversy, Princeton (New Jersey), Princeton University Press, 1996, 3 s.
[5] Cfr H. C. Ohanian, Einstein’s Mistakes, New York, W. W. Norton & Company, 2008, 248.
[6] Cfr I. Kant, Storia universale della natura e teoria del cielo, cit., 41.
[7] Già Platone, nel Timeo, considerava lo spazio qualcosa di incomprensibile. Aristotele, nel libro IV della Fisica, ribadirà questo assunto.
[8] Cfr I. Kant, Storia universale della natura e teoria del cielo, cit., 74.
[9] Ivi, 117.
[10] Si vedano le pagine iniziali del capitolo settimo, intitolato: «La creazione in tutta la sua estensione infinita nel tempo e nello spazio». Cfr ivi, 116-131.
[11] Significativamente, Kant non porrà tale questione nelle successive opere. Evidentemente perché considerava scontata la necessità di richiamarsi in ultima istanza, oltre i limiti della scienza umana, all’intervento di Dio.
[12] Cfr I. Kant, Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, in ID., Scritti precritici, Roma – Bari, Laterza, 1990, 409-418. L’importanza cruciale di questo breve ma denso testo kantiano è stata già rilevata da L. Scaravelli, «Gli incongruenti e la genesi dello spazio kantiano», in Giornale critico della filosofia italiana, XXXI, 1952, ora in ID., Scritti kantiani, Firenze, Sansoni, 1973, 297-335.
[13] I. Kant, Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, cit., 417.
[14] Id., La forma e i principi del mondo sensibile e intellegibile, in Scritti precritici, cit., 419-461. La citazione si trova a p. 440.
[15] Diversa è l’opinione di Schopenhauer, espressa nel paragrafo 12 del Libro I del Mondo come volontà e come rappresentazione, Milano, Mondadori, 2008. Qui si legge che la geometria è subordinata alla matematica, giacché non è concepibile uno spazio se non mediante la sua riduzione (quantitativa) a relazioni di tempo. Cfr ivi, 101 s.
[16] Cfr I. Kant, La forma e i principi del mondo sensibile e intellegibile, cit., 443.
[17] Come si legge nella «Esposizione metafisica» del concetto di spazio nella Estetica trascendentale (par. 2). Cfr I. Kant, Critica della ragion pura, Milano, Mondadori, 2008, 111 s.
[18] Il problema del sistema di riferimento delle stelle fisse rappresenta il tentativo di determinare un sistema di riferimento assoluto nella meccanica newtoniana. La validità della meccanica newtoniana dipende dall’esistenza di un tale riferimento. Newton aveva fatto coincidere il sistema di riferimento assoluto con il Divinum Sensorium. Questo problema sarà definitivamente risolto da Einstein con la relatività generale.
[19] La lettera, indirizzata a C. Carve, è del 21 settembre del 1798. Il testo è riportato in K. Popper, Congetture e confutazioni, Bologna, il Mulino, 1994, 307. Proprio Popper sottolinea l’importanza del nesso tra la cosmologia kantiana e la riflessione sullo spazio e il tempo in alcune, lucidissime pagine del suo saggio del 1963 (302-316).
[20] Cfr ivi, 309.
[21] Frutto della ragione pura, che formula princìpi non controllabili dall’esperienza. Alla cosiddetta Antitetica della ragion pura Kant dedica il capitolo II della Dottrina trascendentale degli elementi all’interno della Critica della ragion pura.
[22] «Il mondo nel tempo ha un cominciamento, e inoltre, per lo spazio, è chiuso dentro limiti». Cfr I. Kant, Critica della ragion pura, cit., 346.
[23] Ivi, 347.
[24] Ivi. In una nota aggiunta da Kant a margine della dimostrazione si ribadisce che lo spazio è soltanto un’intuizione esterna formale.
[25] Cfr K. Popper, Congetture e confutazioni, cit., 312. Sulla riflessione di Cantor, che nel 1874 contestò la posizione di coloro che ammettevano soltanto l’esistenza di insiemi potenzialmente infiniti cfr M. Klim, Storia del pensiero matematico, vol. II, Torino, Einaudi, 1996, 1.161-1.171.
[26] I. Kant, Critica della ragion pura, cit., 295.
[27] Cfr L. Lombardo Radice, L’Infinito, Roma, Editori Riuniti, 1981, 80 s.
[28] Si veda la lettera di Georg Cantor a Gustav Eneström del 1885.
[29] L’espressione «infinito attuale» denota l’infinito considerato effettivamente esistente e correttamente determinabile. Tale esistenza fu anticipata da Bernhard Bolzano nei Paradossi dell’infinito (1851) e confermata da Cantor nel 1883. Il termine «transfinito» viene introdotto dallo stesso Cantor. Esso scaturisce dalla constatazione che dopo ogni numero ne esiste un altro. Inoltre, dopo una successione indefinita esiste una ulteriore infinità numerabile, avviata da una nuova unità prodotta da un termine limitante.
[30] Cfr K. Popper, Congetture e confutazioni, cit., 307.