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Bill Viola è un pioniere della videoart. Nato a New York nel 1951, si è occupato sin dal tempo dei suoi studi giovanili soprattutto di sempre nuove innovazioni tecniche e concettuali, con film sperimentali e con musica elettronica. Da allora i rumori della vita quotidiana, ma anche quelli dell’esperienza psichica interiore, giocano un ruolo importante nelle sue creazioni.
Per lui in modo particolare la parola latina video delinea un’intensa esperienza. Essa descrive come l’uomo, con i sensi e la ragione, si approssima alla realtà che sta dietro le cose visibili. Tale «interno» delle immagini si trasforma con l’interesse di colui che le percepisce. Porta tempo e spazio dentro le immagini. Così esse si modificano continuamente.
Questo artista americano si muove, in stretta collaborazione con sua moglie Kira Perov, ai confini della conoscenza umana, come sogno, rimozione, ricordo, trauma ecc. Egli attribuisce una qualità creativa a queste zone largamente inconsapevoli, come alla visione spirituale dell’uomo. Il 21 novembre 2009 Bill Viola partecipò all’incontro del Papa con gli artisti. Per la Cappella americana nella cattedrale londinese di Saint Paul, in quel periodo elaborò due video per immagini di altare: rappresentano la Madre di Dio e san Giovanni Battista. In tutti i grandi musei del mondo i suoi video spesso sono esposti molto vicino ai vecchi quadri della Passione. Qui si mostra non soltanto la vicinanza didattica di ambedue i mondi all’osservatore, ma anche il loro parallelismo pieno di forza. Essi riescono a risvegliare spiritualmente il sentimento dell’osservatore, e non soltanto nelle forme iconografiche del trittico e del quadro devozionale. Alla nostra rivista ha rilasciato l’intervista che pubblichiamo.

Friedhelm Mennekes: Bill, siamo nel bel mezzo di una tua mostra presso la James Cohan Gallery di Chelsea. Si intitola Bodies of Light. Una sala dopo l’altra, come una catena di piccole cappelle nell’abside di una cattedrale gotica. Una celebrazione di luci, colori e potenze. Alcuni di questi spazi contengono una sola opera, altri più opere. In ogni sala c’è un’atmosfera di forte concentrazione. Tutto ha a che fare con la trasformazione e la trasfigurazione. Ancora un altro esempio del tono esistenziale del tuo lavoro, che si concentra sulle esperienze più profonde della vita umana. Questa mostra presenta un nuovo tipo di spazi religiosi. Che cosa pensi della religione? Che cos’è la religione per te?
Bill Viola: Penso che la religione sia l’essenza dell’umanità. Voglio dire che è l’essenza di tutte le arti, e con questo non intendo l’arte soltanto come arte visiva, ma intendo le arti della scienza, della conoscenza e della tecnologia. Tutto viene fuori da questo senso di meraviglia e di paura.
M.: Di paura?
V.: Di paura, giusto, proprio così! La paura di essere distrutti da forze naturali che ci sovrastano. E quindi penso che le religioni diano alla gente una comprensione più profonda di tali forze. E questo la aiuta a rendersi conto che l’esistenza umana è solamente una piccola parte del cosmo superiore e dell’ordine naturale.
M.: Nel panorama artistico di oggi, soltanto pochi artisti parlano dell’esistenza umana, ma tu lo fai sempre. Il tuo lavoro riguarda aspetti della vita umana. Ma non solo questo: ti spingi davvero avanti, affronti il tema dell’aldilà e non hai timore di parlare della religione. Ancora una volta: che cos’è per te la religione?
V.: Penso che l’idea della religione sia di per sé complessa. Per molte persone essa costituisce una sorta di conforto istituzionale nella forma delle grandi istituzioni religiose, in particolare il cristianesimo, l’ebraismo e l’islàm, le tre grandi religioni monoteiste. Ovviamente esse forniscono una sorta di contesto sociale in cui vivere; forniscono una sorta di struttura su cui la gente può porre le basi della propria vita. Ma c’è un altro tipo di religione che mi interessa ancora di più e che è, in un certo senso, forse all’origine della religione stessa. Inizia come una piccola scintilla nel cuore dell’uomo, che non sa nemmeno di averla. E quando si è avanti nel tempo, quando passiamo dall’infanzia all’età adulta, ci rendiamo conto che questa piccola scintilla ci sta dando l’ispirazione, ci sta letteralmente dando la vita. E questa è l’origine del perché ci sono immense istituzioni religiose in tutto il mondo e del perché la gente ha sinagoghe, templi, chiese, cappelle in tutte le culture, in India, in Cina, in Europa, in Africa e in America. È per questo che la gente crede in qualcosa più grande. Ma, secondo me, tutto comincia nel più profondo di noi stessi, e proprio questo è il bagliore originario.
M.: C’è, diciamo, un terreno fenomenologico della religione, che passa attraverso culture diverse sotto diversi aspetti. Riguardo all’Asia, hai nominato il buddismo, lo scintoismo e il taoismo. E in altre zone ci sono l’ebraismo, il cristianesimo, l’islàm e altre religioni. Come sai, è molto importante costruire ponti tra le grandi religioni o sistemi culturali. Ciò che le accomuna è l’interpretazione della religione come luogo in cui ogni individuo trova la propria comprensione del mondo. La religione è auto-trascendenza dell’essere umano, perché ognuno ha a che fare con felicità e sofferenza, bellezza e paura, speranza e disperazione. Tutti questi aspetti coesistono dentro l’individuo e tutto questo deve essere rielaborato in modo molto personale e, per così dire, intelligente, come afferma Saint-Exupéry: «Si vede bene solo con il cuore…».
V.: Posso esprimerlo meglio con le parole di Dschalal ad-Din ar-Rumi, il grande sufi persiano, poeta e mistico. Egli ha detto che la ferita è il luogo dove la luce entra dentro di te. Quindi ci deve essere una specie di apertura, ci deve essere un modo in cui apri il tuo cuore, apri il tuo essere a diventare vulnerabile all’universo, agli ordini naturali e spirituali. E questo tipo di ferita è il luogo più profondo da cui nasce tutta la riflessione sulla trascendenza e sulla spiritualità. E penso che quella direzione verso l’interno del nostro essere, quel tipo di forza sono necessari a questo scopo, e lo stesso vale per la capacità di rimanere sbalorditi. Tu conosci il nostro maestro Zen in Giappone; abbiamo studiato Zen con un uomo meraviglioso di nome Dian Tanaka, quando abbiamo vissuto in Giappone nel 1980-81. E un giorno egli mi ha detto qualcosa di veramente importante, a cui non avevo mai pensato prima. Gli stavo mostrando alcune delle mie opere e gli stavo spiegando come avessi avuto problemi con alcuni pezzi, ed egli mi ha detto: «Devi imparare a lavorare da una posizione di debolezza». Ho pensato che nessun professore di arte mi aveva mai detto questo prima. È come se stessimo cercando tutti di fare dei capolavori.
M.: Proprio così, le opere straordinarie, le cose grandiose.
V.: E Dian Tanaka invece mi stava dicendo che ci si doveva svuotare di se stessi, che bisognava sentirsi persi, e che soltanto quando ci si perde si può davvero intraprendere il cosiddetto «salto della fede». Tutti gli artisti più grandi a un certo punto sono giunti alla soglia e si sono resi conto che il divario tra le loro abilità e i loro sogni di creare qualcosa non poteva essere colmato; così non hanno potuto fare altro che saltare. E lo si vede in tutti i grandi artisti: in Tiziano, Michelangelo, Raffaello, fino ai nostri giorni. Questo accade quando si va persino oltre quello che si era pensato, senza neppure fare affidamento sulla propria formazione tecnica e professionale. L’artista è un semplice «oh» di stupore. E questa è una delle cose più belle e difficili. Molte volte si arriva alla soglia e non la si vuole varcare.
M.: Penso che ci sia un legame soprattutto con il cristianesimo, che trae origine da un limite della vita umana, dalla ferita. Ti affronta su due punti. Per prima cosa, in tale confronto bisogna che tu conosca te stesso, capisca i tuoi sentimenti, le tue sofferenze e i sogni che hai a portata di mano. In secondo luogo, quando si sta per entrare nel profondo di se stessi e si sta per cominciare a pensare a che cosa fare e a come comportarsi in determinate circostanze, si toccano aspetti culturali della vita, tradizioni, linguaggi, riflessioni etiche e sistemi religiosi. Tutto questo è un costruire una struttura che ci permette di comprendere noi stessi e le nostre circostanze. Le immagini, i proverbi, le regole etiche, le esperienze biografiche ti stanno dando consigli, strategie di azione e così via. Giusto?
V.: Penso che ciò che è importante in quello che hai appena detto, e che io apprezzo molto, sia l’idea del seme nel giardino. Il giardino è il luogo dove le cose possono crescere ed essere coltivate; poi, tutto a un tratto, uno si guarda intorno e, quando arriva la primavera, questo giardino è incredibilmente rigoglioso. Ma la realtà di quel giardino è in un seme, che è sepolto nella terra scura, che nessuno vede e di cui nessuno sa niente. Ci passi sopra con i piedi, e quel tipo di idea del luogo da coltivare, per far crescere questo genere di esperienze profonde e di visioni e di aspirazione verso la trascendenza e verso qualcosa di più grande di noi può essere possibile solamente quando si ha questo giardino. E Rumi ha un’altra bella citazione, ha detto: «Per colui che dorme in giardino, l’essere risvegliato è pura gioia. Ma per colui che dorme in prigione, l’essere risvegliato è un fastidio».
M.: Tutto ciò è molto interessante e si ricollega al tuo recente lavoro Room for St. John of the Cross (1983)?
V.: Sì.
M.: è un’immagine molto feconda, ricca di suggestioni. È il confronto tra il singolo e la società, tra il monaco e la Chiesa, tra l’esistenzialista e l’indagine.
V.: Quindi dobbiamo renderci conto che è in virtù di quel giardino invisibile, contenuto nei semi e non ancora completamente formato, che i semi sono così belli. Sai, i semi sono come segreti sepolti riguardo a noi stessi, e dobbiamo impiegare una vita per capirli.
M.: Quello che ho sperimentato nel corso degli anni, seguendo gli sviluppi del tuo lavoro, è il fatto che ci sono due fonti. Da un lato, tu interroghi direttamente le cose e le tue domande riguardano le esperienze umane fondamentali, come la nascita e la morte, la sofferenza, la speranza e la trasformazione.
V.: Giusto.
M.: Ma, dall’altro lato, stai creando nuove forme d’arte. Penso che tu sia spinto da due forze: in primo luogo, le grandi questioni essenziali della vita, che in definitiva sono per lo più questioni religiose; ma, in quanto artista, sei spinto anche a visualizzare questo aspetto, sviluppando e creando nuove forme artistiche, per offrire immagini più radicali. Penso che tu sia una specie di impresario, un impresario culturale o artistico che vuole produrre nuove immagini, capaci di toccare e aprire l’uomo alle domande. Sono immagini forti e potenti. Sono nuove: la gente non le aveva mai viste prima. Non stai usando soltanto variazioni e adattamenti della storia dell’arte, ma la scienza e la tecnologia. Questo è ciò che le rende così potenti.
V.: è meraviglioso. Intendo dire che non ho mai sentito nessuno descrivere il mio lavoro in questo modo. E penso che l’altro punto che hai toccato, che per me è così vitale, sia quello dell’assoluta unità di tecnologia e di impulsi spirituali. Queste due cose nella mia mente vanno insieme. E ho dovuto ideare modi letteralmente nuovi di creare immagini nel mio studio, perché, prese a un livello industriale, queste tecnologie mi davano un qualcosa che non soddisfaceva il mio cuore e la mia mente. Ciò che il mio cuore e la mente vedevano, non andava abbastanza lontano. E così in molte fasi della mia carriera, nell’arco di 37 anni, ci sono stati momenti in cui avevo bisogno di un nuovo modo di costruire immagini.
M.: Le innovazioni tecnologiche per vedere ciò che non poteva essere visto prima. La scienza è un nuovo aspetto di una spiritualità più estesa?
V.: Sì. E penso che queste tecnologie abbiano un potenziale incredibile nella nostra cultura, per rendere reale, agli occhi dei sensi umani, il mondo invisibile. E questo sta accadendo in modi a cui neppure facciamo caso. Per esempio, se si va al supermercato, si vede un ragazzo alla cassa che sta pagando, e magari ha il cellulare all’orecchio e sta parlando al telefono, mentre cerca di usare il bancomat e vuole uscire dal negozio. Se questo fosse accaduto un centinaio di anni fa, si sarebbe potuto pensare che quel ragazzo fosse pazzo. Si sarebbe potuto pensare che fosse un folle, che fosse mentalmente disturbato. A chi sta parlando? Ora invece abbiamo una possibilità come quella dei veggenti e dei mistici: tu puoi parlare con tua madre, lei è in Germania e tu sei a New York. Un tempo si doveva andare da uno sciamano per far questo; oggi invece si prende il telefono cellulare e lo si fa. Per cui c’è una convergenza di questa tecnologia con i desideri umani di vedere lontano, per raggiungere le persone a distanza, per vedere il volto di tua madre ogni volta che vuoi. Penso che questo sia un qualcosa di molto profondo, e che tutte queste tecnologie abbiano un significato che va al di là del mero uso funzionale. Esse in ultima analisi provengono dal desiderio umano che scaturisce direttamente dal cuore dell’uomo.
M.: Quello che mi ha incuriosito del tuo lavoro è che tutto in realtà si fonda sulla tua esperienza, sulla tua sofferenza, sul tuo essere pieno di stupore o sul tuo scoprire una più profonda esperienza umana ed esistenziale. Penso alla vicenda molto toccante di quando una volta ti sei realmente trovato in pericolo tra la vita e la morte. Ma vi sono altri esempi, come quando sei rimasto stupefatto come padre che assisteva al parto, o come quando sei rimasto accanto a tua madre morente. Così ho veramente constatato che tutto ciò che hai sviluppato nel tuo lavoro proviene dalla tua esperienza. Hai bisogno soltanto di esperienze personali, o c’è qualcosa di diverso, un qualcosa che rende le cose difficili da capire e che la religione aiuta a interpretare?
V.: Questa è proprio una bella domanda. Ognuno ha fatto quel tipo di esperienze che hai appena descritto, e questo fa davvero parte del nostro essere uomini, fa parte dell’animo umano. La bellezza, a un livello più ampio di ordine spirituale e cosmico, è che non dobbiamo essere necessariamente consapevoli di come veniamo guidati e modellati. Ecco, questa è una delle cose belle. Tali operazioni continuano, sia che le riconosciamo consciamente, sia che non le riconosciamo. Ma c’è un gruppo di persone curiose per natura. Vogliono capire un po’ di più di quello che è appena accaduto. Dove è andata mia madre? Quando era in vita, rappresentava tutta la mia vita, e ora se n’è andata; dov’è quel posto? Questa è una delle domande antiche dell’uomo che vogliamo capire.
M.: Tu usi molte immagini e simboli: la speranza, la trasformazione e, per esempio, la rinascita o risurrezione. Stai usando questi temi antichi con un linguaggio nuovo, con una nuova grammatica per poterli esprimere. C’è un elemento molto profondo: l’acqua. È un simbolo per i riti purificatori, per il rinnovamento e la rinascita. È stato uno dei quattro o cinque elementi cosmici; poi col tempo il suo significato è diventato sempre più profondo. L’acqua è qualcosa che in realtà è collegata con il battesimo, con il cambiare la tua vita, trasformandola con le tue energie, forze, credenze, ispirazioni, decisioni. Che cosa puoi dire delle immagini dell’acqua o del battesimo nel tuo lavoro artistico? C’è un collegamento più stretto, ad esempio, con il cristianesimo, o si tratta ancora di un’immagine simbolica generale?
V.: Io intendo il battesimo come una nuova nascita, una vita nuova e, letteralmente, un entrare nella vita. Penso che sia anche un’emulazione del procedimento della nascita stessa. Il bambino sta nove mesi nell’acqua, circondato dall’oscurità, ma ascoltando suoni, e poi nasce in questo mondo freddo e luminoso: tutto ciò viene ricapitolato nel fonte battesimale cristiano. La forza trasformatrice dell’acqua era nota anche prima del cristianesimo. La gente interpretava l’acqua come una sorta di elemento di purificazione. Quindi la connessione del battesimo con l’acqua è veramente profonda, e questo elemento si trova in tutte le religioni del mondo, anche in quelle molto primitive. Tutte hanno un collegamento con l’acqua. Questa è la rappresentazione fisica della forza vitale dell’esistenza.
M.: La Bibbia è piena di storie e di immagini collegate con l’acqua: ad esempio, la storia del Mar Rosso. Il passaggio di questo mare è la rinascita di un popolo. Ma veniamo a questa bella immagine, molto complessa, che hai intitolata Pneuma (1994-2009). Pneuma è una parola importante, che può significare una modalità dell’inizio, dello spirito, una forma fondamentale di vita, perché ha a che fare con i movimenti che avvengono nel mondo: venti, brezza e respiro. Ma è anche una parola che può indicare i poteri creativi, una sostanza cosmica della presenza di Dio. Per esempio, se tu sei qui in questa stanza, l’installazione di Pneuma ti circonda da tutte le parti. Nulla è chiaro; non ci sono immagini, ma solo allusioni in forme tradizionali, come bianco e nero, luce e buio, silenzio e suono, come un ritmo pulsante di vita. Si è immersi in questa vivace immagine in movimento. Si vede un bambino piccolo sotto il cuore della madre. Dopo un lungo periodo di buio sembra che si veda qualcosa come la luce del risveglio; proprio nel mezzo delle tenebre c’è una luce inestinguibile, la vita. La luce nell’acqua? L’acqua come luce?
V.: Potrei parlare a lungo su ciò che tu hai appena detto. Sono stato molto ispirato da un Maestro sufi andaluso del XIV secolo, chiamato Ibn Arabi. Egli parla di tre grandi «riserve» di umanità: i nascituri, i vivi e i morti. E questo veramente mi ha colpito molto. Ha anche detto che il «sé» è un oceano senza spiaggia: non ha inizio né fine in questo mondo e nell’altro. Così sta parlando di noi come di esseri eterni, ma che vivono nel mondo fisico e sono incarnati nel corpo, che alla fine si consuma e diventa polvere. Noi pensiamo alle cose nei termini della nostra esistenza umana, ma in definitiva siamo eterni e c’è un intero sistema che ci racchiude; e queste due grandi «riserve» infinite, con tale oceano infinito, per me costituiscono un’immagine molto potente.
M.: Pneuma ha a che fare con l’idea del venire alla vita, con la soglia dal «non essere» all’«essere». È la chiamata all’esistenza?
V.: Sì, queste immagini per me sono sulla soglia tra l’esistenza e la non-esistenza. O, per dirlo più letteralmente, sono tra l’essere incorporei e reali e l’essere semplicemente immagini interiori e fantastiche – una parte della fantasia e della psiche interiore. Quindi queste sono immagini non ancora del tutto formate.
M.: Nella tua mostra Bodies of Light ci sono alcune immagini, per così dire, aperte. Sono immagini il cui intimo significato è vago. Penso a Poem B (The Guest House) (2006) o anche a Bodies of Light (2006). Esse non danno sufficienti informazioni per comunicare qualcosa di definito, così che si capisca realmente che cosa si sta guardando.
V.: Sì, a volte si vedono persone con i fiori, si vedono le porte e le case, e questo costante andirivieni. Quindi per me queste immagini riguardano più la memoria che la percezione. E credo che questa sia una questione davvero importante del nostro tempo. Riguardo al tema del ricordo, di cui stiamo parlando, penso alla storia del cristianesimo come a un’idea di «memoria». I sufi hanno la stessa cosa: il ricordo di Dio. Pertanto i ricordi sono molto importanti.
M.: Ai nostri giorni siamo abituati a ottenere informazioni rapide con tutti gli input per agire, decidere, votare, comprare…
V.: Penso che oggi sia fondamentale capire che siamo letteralmente sommersi dalle informazioni. Che queste forze intorno a noi — queste forze aziendali ed economiche — ci stiano riempiendo di così tanti dettagli, di così tante informazioni che non abbiamo più spazio per noi stessi. Quindi questo tipo di immagine vuota che si vede, questo tipo di tremolio di puntini di luce è il fondamento dell’essere, da cui emergiamo e da cui emergono tutti i nostri pensieri. Perciò quest’opera è davvero una sorta di teatro della memoria, che ci permette di vedere realmente le cose. E in questo lavoro si vedono le cose che non ci sono, perché non ci sono informazioni per vedere.
M.: Ma la parola latina «memoria» in senso cristiano è sempre «portatrice» di qualcosa, e la «memoria» sta portando lo «pneuma», lo spirito, la forza che agisce. Noi intendiamo lo spirito come un potere sempre presente, che ti muove, parla con te, ti ispira e ti indirizza. E alla fine è sempre un potere di creare — come si legge nel Sal 103,5 —, «che ti fa ringiovanire come aquila». Per tornare alla questione della religione, non sembra necessario appartenere a un determinato sistema di confessioni religiose, seguire determinati riti: se si è interessati a queste domande, basta seguirle. Ma esse, in quanto domande, hanno qualche influenza sulle tue immagini, sulle nuove forme, su qualche tipo di ispirazione?
V.: Certamente. Queste non sono immagini mie. Non so… Sì, tecnicamente le ho fatte io, ma prima di creare tutte queste immagini, le ho viste. Esse sono venute da me; e a volte sono venute da me dopo una lunga lotta, con il tentativo di trovarle da solo. Tu sei venuto nel mio studio, ed io in realtà di solito non lavoro nel mio studio: vi lavoro soltanto quando concettualizzo il pezzo a un livello molto alto, quando posso capire quello che voglio fare. Così passo la maggior parte del mio tempo nel mio studio, dove abbiamo trascorso un bel pomeriggio insieme con il tè e i libri; è lì che produco veramente la mia arte. E molto di questo ha a che fare con l’attesa, con il preparare se stessi a una visita di un certo tipo. Per me questo è l’aspetto fondamentale del mio lavoro. Quindi non credo davvero che queste siano immagini mie, nel senso che io le possiedo: queste sono le mie immagini nel senso che qualcosa è venuto da me, e io poi l’ho potuto vedere abbastanza chiaramente per sapere dove puntare la fotocamera e utilizzare la mia tecnologia.
M.: Quando parliamo, arriviamo spesso a questo punto. Se non ti dispiace, vorrei toccare proprio questo aspetto. Spesso, quando siamo seduti insieme a parlare del tuo modo di sentire e di pensare e di chi sei tu, io penso: «Siamo allo stesso livello. È un monaco». Se, per esempio, lavori con Caterina da Siena, con san Giovanni della Croce o citando Meister Eckhart e anche altri, allora credo che tu sia una persona religiosa. Ho pensato che tu abbia studiato religione.
V.: Sì, ho fatto un corso di religione alla Syracuse University.
M.: Questi studi ti hanno fornito una conoscenza religiosa? Oppure nella tua infanzia hai ricevuto un tipo di educazione che ti ha dato esperienze e conoscenze in questo campo? Che cosa ti ha spinto come artista a utilizzare il concetto di Pneuma?
V.: Sono nato al momento giusto, perché la religione subisce una crisi dalla fine del XX secolo fino ad oggi. Ho sentito i miei amici parlarne molto, in particolare quelli del mondo cristiano. Essi parlano di come gli Ordini religiosi nella Chiesa stiano perdendo molti membri, e sono veramente preoccupati. Ma io ritengo che questa sia un’epoca di rinnovamento spirituale. Personalmente, ho abbandonato la formazione ricevuta nella Comunità episcopaliana. Quando ero ragazzo e mi sono affacciato nel mondo, tutto a un tratto nelle librerie della mia università ho scoperto persone come Rumi, il poeta e mistico islamico. Ho scoperto Meister Eckhart e alcuni mistici incredibili. Il corso di religione era in realtà un corso di misticismo ed è stato molto interessante. Penso che i mistici abbiano un posto speciale nel mondo della cultura di oggi. Credo che la via da seguire per tutti noi, per equilibrare l’elemento spirituale con quello materiale, verrà molto dal loro contributo, perché i mistici sono molto simili agli artisti contemporanei.
M.: Non hanno una struttura di supporto intorno. Gli artisti contemporanei o i monaci non sono dipendenti di Stati o aziende. Non c’è per loro sicurezza di successo.
V.: Sì, siamo stati cacciati via dai palazzi qualche tempo fa. Nell’attuale sistema economico e culturale, le uniche persone che oggi hanno raggiunto l’altezza di un Michelangelo o di un Raffaello sono i produttori di film commerciali, gente come Steven Spielberg, che può entrare alla Casa Bianca ogni volta che vuole. Io non posso entrarvi; eppure i miei colleghi del Rinascimento potevano camminare proprio dentro il Palazzo dei Medici, per parlare con loro. Così noi abbiamo avuto in sorte di essere messi nel «Salon des refusés», che a mio avviso conferisce un altro tipo di forza e di potenza. Proprio come i mistici, che erano stati anch’essi messi da parte, perché erano pazzi e non prestavano attenzione all’ordine dell’ortodossia. Penso che questa sia un’analogia molto interessante, perché il modo di procedere secondo la prospettiva americana è attraverso l’individuo, e questo non è, per così dire, una cosa sana, ma a volte è necessario. Per esempio, quando accadono grandi rivoluzioni, in qualsiasi campo, c’è un certo gruppo di persone che vede qualcosa che tutta la società non vede più. Le grandi istituzioni sono troppo grandi, troppo statiche e troppo chiuse per poterlo notare. E così questa crescita costante delle cose e la creazione delle cose sono importanti, e l’individuo ha un ruolo enorme in ciò.
M.: Ci sono due punti con cui vorrei riassumere quanto abbiamo detto. Io davvero ti considero come un mistico, il mistico delle immagini; ma, secondo me, tu non sei un mistico per quello che hai appena detto, ma per quello che dici in immagini e per come le accompagni con testi significativi, che io apprezzo molto. Direi che c’è un altro ruolo per te — ed è una specie di profezia con la «p» minuscola —, dal momento che tu sei una persona che riunisce tempi diversi, in un periodo di grave crisi, per indicarci dove andare. È una conclusione etica. Sei veramente nel mezzo della crisi del nostro tempo.
V.: Grazie. Non so bene che cosa dire a riguardo.
M.: Tu porti una nuova attrattiva nell’arte. Chiedi allo spettatore di guardare le immagini con calma, attenzione, riflessione e apertura. Costringi la gente a reagire affrontandola con le immagini drammatizzate.
V.: Vorrei dire soltanto una cosa, anche se l’hai già accennata tu prima, e io non ho avuto la possibilità di completare il mio pensiero o di risponderti. C’è stato un tempo — non certo nella scuola di arte — in cui tutto era incentrato sulle immagini e sulle tecniche di apprendimento. Ma poi, quando ero sulla quarantina, ho cominciato a capire che queste macchine, con cui siamo in fase di registrazione in questo momento, sono macchine molto semplici, che sono capaci di catturare la luce. Esse sono in grado di prendere i fotoni di luce che sono in giro nel cosmo e anche queste onde sonore che stanno venendo fuori dalla nostra bocca e nel mondo. E possono effettivamente catturare questi elementi, conservarli e, in un secondo momento, riprodurli. Questo è un processo molto misterioso e bello che, come penso, non sarò mai veramente in grado di capire. Non voglio analizzarlo troppo, ma è davvero importante. A un certo punto ho cominciato a capire che le immagini in definitiva non erano veramente visibili. Ho trascorso la maggior parte della mia giovinezza a riprendere il mondo intorno a me. Una volta ho ripreso l’immagine di un albero. Io amo gli alberi… Sono uscito, e ho filmato un albero. L’ho visto più tardi sul mio video-schermo: era bellissimo! Mi sono sentito soddisfatto. A un certo punto, però, non mi sono sentito più soddisfatto, perché continuavo a chiedermi: che cosa c’è sotto l’albero? Che cosa c’è dentro quell’albero? Perché è qui? E ovviamente mi sono reso conto che quell’albero, come tutte le cose, è una struttura temporale, passeggera. Se si va avanti di un migliaio di anni, l’albero non ci sarà. Dove sarà la Galleria James Cohan tra mille anni, tra un milione di anni? Così, ho iniziato a pormi queste domande e poi a scavare sotto la superficie.
M.: Tu poni domande; vai avanti ponendo domande. Ti rendi conto della potenza di nuove domande e forme?
V.: Potrei filmare immagini come questa, che esce da una specie di sogno o da un ricordo, e così le persone che hanno le stesse esperienze, ma non hanno avuto modo di vederle fuori di sé, possono capirle. E questo è il mio viaggio: lavorare semplicemente per capire più cose e toccare più cose e, se posso coinvolgere altre persone e far fare loro una certa esperienza che possa risultare utile, è meraviglioso. Intendo dire che non mi importa se la mia arte è abbastanza nota, se ottengo la migliore recensione del New York Times o se vendo un sacco di opere in galleria: quello che mi interessa è se la mia arte è utile. È utile? Può servire? Ho scoperto questo in Giappone nel 1980. Mia moglie Kira e io vivevamo lì per un programma di scambio culturale e stavamo al Suntory Art Museum. C’era una mostra con degli esseri che scendevano sulla terra per aiutare gli uomini. Eravamo stati soli nel museo per tutta la mattina e stavamo in piedi guardando alcune bellissime statue a grandezza naturale, in fila: erano circa una dozzina, ed erano molto antiche, del Medioevo. Avevo la guida e, mentre stavo leggendo qualcosa su quelle statue, una vecchia signora giapponese è entrata e, passando, mi ha spinto leggermente, e io le ho detto: «Oh, mi scusi!». Ed è andata all’inizio della fila delle statue con una sciarpa di seta per pregare, e l’ha passata su ciascuna di esse, facendo un inchino davanti a ogni statua. Poi si è rivolta ad esse con un inchino molto profondo e se ne è andata. Io sono rimasto scioccato, perché innanzitutto non si devono toccare le opere d’arte nel museo; poi ero scioccato perché il guardiano era lì e non ha fatto nulla per impedirglielo.
M.: Questa donna ti ha mostrato quello che mancava alla tua arte e alla tua esperienza con l’arte?
V.: Sì, lei mi ha mostrato che non si tratta di guardare la forma, leggere le date, trovare gli stili. Certo, questo è parte dell’arte; ma ho capito che quello che avevo fatto fino a quel momento era come ciò che fa un ragazzo che guarda un computer e il display: la tastiera è qui, lo schermo è qui, il disco rigido è qui e tutto è separato e non è collegato. Quindi stai soltanto guardando questi oggetti come oggetti di design, e la donna giapponese è stata colei che è entrata e ha acceso l’interruttore dell’arte. Così l’opera è diventata viva, ha respirato, si è caricata di reale potenza. Quando vivevamo in Giappone, ci siamo resi conto che tutti questi templi avevano questo potere spirituale. Da quando sono tornato in America, l’andare per i musei lì, in Europa, in Germania o dovunque, è la stessa cosa. Se stai tranquillo e sei sensibile, li senti, ti parlano. E questa è per me una cosa molto seria e reale.
M.: Nel bel mezzo di questa mostra, presenti l’opera Four Hands, e penso che sia qualcosa che trasmetta proprio questo sentimento ideale. Sembra che tu sia meno preoccupato del farlo che del metterlo in mostra.
V.: è un tutt’uno.
M.: Giusto!
V.: è il tutto. Il tutto è ogni cosa. Davvero.
M.: Grazie, grazie mille!
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