|
Le circostanze legate all’epidemia di questi mesi hanno fatto emergere alcuni comportamenti degni di rilievo, che rimandano ai criteri di lettura di questo drammatico evento. Non è un problema da poco, perché un corretto atteggiamento è di grande aiuto per vivere una situazione di emergenza. Si possono evidenziare alcuni passi non nuovi (alcuni dei quali più volte ripetuti in questi giorni), ma per nulla scontati, anche alla luce degli episodi di cronaca di queste settimane.
Combattere il panico
Il panico è una forma di ansia generalizzata che spinge a comportamenti immediati, ma irrazionali e per lo più distruttivi. È un retaggio del nostro patrimonio biologico, legato alla paura, che avverte in tempi brevissimi un pericolo prima che intervengano i processi riflessivi. Per quanto importante sia questo campanello di allarme, tuttavia la complessità crescente della vita umana richiede che le emozioni vengano educate, integrandole con la dimensione sociale e culturale. In caso contrario, il panico accresce la gravità dei problemi, come si è potuto notare in maniera evidente in occasione delle fughe precipitose da una regione all’altra di un Paese, o alla corsa all’accaparramento dei beni ai supermercati (incuranti degli avvisi delle autorità che garantiscono il rifornimento dei generi di immediata necessità). Tutto ciò, oltre a portare a una ingiustificata scarsità delle risorse, contribuisce a diffondere in maniera esponenziale il contagio, creando oltretutto tensioni e rivalità tra le persone. Lo scenario appare quello di una lotta per la sopravvivenza, con risultati distruttivi, per sé e per gli altri.
Per far fronte a tali minacce, interne prima che esterne, è indispensabile fermarsi e valutare, esercitando il pensiero critico. Per quanto riguarda l’approvvigionamento di generi alimentari e farmaci, è più saggio, in particolare per le persone anziane, evitare le uscite, rivolgendosi piuttosto ad associazioni di volontariato (come, ad esempio, l’associazione Auser) che si sono rese disponibili a portare nelle abitazioni ciò di cui si ha bisogno[1].
Chiedere aiuto
Chi è in quarantena o in cura a casa può provare attacchi di ansia, sentirsi in colpa di fronte alla possibilità di aver contagiato i propri cari o gli amici. E per i parenti tutto ciò è motivo di comprensibile angoscia. È importante che questi stati d’animo vengano affrontati ricorrendo a un supporto psicologico. Le regioni più colpite – la Lombardia e l’Emilia Romagna –, in collaborazione con le rete degli Psicologi dell’emergenza, hanno messo a disposizione terapeuti raggiungibili telefonicamente. Anche un breve colloquio può essere importante per ridurre l’ansia e rileggere il proprio vissuto in una maniera più rispettosa della complessità[2].
In questo modo la paura, ascoltata e non semplicemente agita, può favorire la prudenza, un atteggiamento fondamentale per scegliere ciò che è meglio in una situazione incerta, senza cedere alla tentazione dell’immediato. La prudenza a sua volta rafforza la pazienza, la virtù che rende possibile governare se stessi e prendere in mano la situazione. La pazienza sa comandare alla paura, alla fretta, alla superficialità, rendendo capaci di attendere e dilatando lo spazio di libertà a disposizione: «L’uomo possiede la propria anima con la pazienza, in quanto con essa svela dalle radici le passioni causate dalle avversità che turbano l’anima»[3].
Il proliferare della paura nelle nostre società è dovuta anche al fatto che si è smarrito il senso dell’attesa, e dunque della pazienza e della speranza; tutto ciò toglie forza e stabilità, incrementando ansie, timori e male di vivere.
Alla pazienza è legato un altro aspetto, indispensabile per la qualità della vita: la proattività.
Un atteggiamento proattivo
Uno dei grandi nemici della vita umana è la passività: subire gli avvenimenti senza reagire. La proattività è l’atteggiamento esattamente contrario: è la capacità di guardare in faccia il problema e chiedersi che cosa si possa fare. È una modalità fondamentale di esercitare il potere a disposizione – piccolo o grande che sia non fa differenza –, che rafforza il carattere e protegge dai pensieri negativi.
Coltivare un atteggiamento proattivo, nella presente situazione, può significare anzitutto non prestare fede alle fake news dei siti più disparati, che aumentano l’ansia o danno adito a speranze illusorie, ma informarsi e divulgare notizie attendibili. Esercitare il beneficio del dubbio su ciò che si visiona è un’altra protezione importante, perché aiuta a vivere il problema in maniera reale e consapevole. È anche noto come dietro la diffusione di false notizie non di rado vi sia un disegno destabilizzante a cui si rischia di collaborare.
Papa Francesco, nel Messaggio per la 52a Giornata delle comunicazioni sociali del 2018, aveva parlato delle fake news come della versione digitale dell’episodio di Gen 3, che presenta la scelta tra bene e male in termini di superficialità o riflessione critica: «L’efficacia delle fake news è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili. In secondo luogo, queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sono abili a catturare l’attenzione dei destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno di un tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il disprezzo, la rabbia e la frustrazione. La loro diffusione può contare su un uso manipolatorio dei social network e delle logiche che ne garantiscono il funzionamento: in questo modo i contenuti, pur privi di fondamento, guadagnano una tale visibilità che persino le smentite autorevoli difficilmente riescono ad arginarne i danni»[4].
Le fake news sono anche una conferma della paradossale affermazione attribuita a Gilbert Chesterton: «Non è vero che l’uomo moderno non crede a nulla: egli in realtà crede a tutto». L’informazione corretta ha dunque una profonda valenza etica e spirituale: «Nessuna disinformazione è innocua; anzi, fidarsi di ciò che è falso produce conseguenze nefaste. Anche una distorsione della verità in apparenza lieve può avere effetti pericolosi»[5]. Come appunto i comportamenti legati all’isteria collettiva.
La fatica della riflessione è la fatica di essere liberi, e aiuta altri a diventare liberi. Una maniera di affrontare questa emergenza a livello proattivo consiste anzitutto nell’addestrarsi a riconoscere e diffondere la buona informazione a vantaggio di tutti, come ad esempio riferendosi a siti affidabili come quelli del ministero della Salute o dell’Organizzazione mondiale della sanità, tralasciando le notizie spazzatura, o parzialmente vere (come ad esempio i continui aggiornamenti sul numero di morti o infetti), che finiscono per trasmettere sfiducia e rassegnazione[6].
Un’informazione sana rende più consapevoli del potere a disposizione e favorisce la resilienza, la capacità di affrontare lo stress senza esserne sopraffatti, esprimendo l’aggressività non in modo vittimistico, ma come forza d’animo propositiva che abilita a superare le difficoltà.
Gli ingredienti della resilienza
Susanna Kobasa, una psicologa dell’Università di Chicago, ha individuato tre aspetti che sono di aiuto nelle situazioni problematiche:
1) l’impegno, come capacità di coinvolgimento: di fronte al problema, invece di ripiegarsi passivamente su di sé, ci si rimbocca le maniche e si cerca di portare il proprio contributo, sapendo che potrà essere importante per qualcuno;
2) il controllo, prendere nelle proprie mani le redini della situazione nella convinzione di avere sempre un potere da esercitare, grande o piccolo non importa;
3) il gusto per la sfida, che consente di vivere le difficoltà come possibili opportunità a disposizione e non solo come una minaccia, impegnandosi in esse, invece di limitarsi a rimpiangere il tempo passato.
Sono tre aspetti legati alla consapevolezza, che possono cioè essere educati e potenziati[7]. Un aiuto importante è certamente la disponibilità a stare con se stessi, a coltivare il silenzio, la percezione, l’introspezione, la lettura e la scrittura[8]. Il caso di Anna Frank è emblematico: reclusa per anni in una soffitta, è stata capace di vivere in modo proattivo la sua segregazione, esprimendo in modo esemplare la creatività.
Le relazioni
Un altro elemento importante, in grado di favorire la resilienza, è la presenza di significative relazioni affettive. Un contesto affettivamente stabile e improntato alla stima e all’empatia aiuta a esplicitare possibili doti e capacità che risultano fondamentali per affrontare gli eventi tragici[9].
Le conseguenze di un trauma dipendono in gran parte da come una persona lo legge, dal suo mondo valoriale di riferimento e, soprattutto, se essa si trova sola a farlo o se ha qualcuno accanto a sé in grado di aiutarla. Sentirsi parte di una comunità costituisce una delle principali forme di protezione: «I fattori culturali, e in particolare il sistema di significato predominante, hanno un’influenza cruciale sul modo in cui si affronta la sofferenza. Gli effetti della violenza e della devastazione non dipendono esclusivamente dall’intensità dell’evento […]. Il trauma psicologico è diverso dal trauma fisico: gli individui non registrano passivamente l’impatto di una forza esterna, ma si impegnano in modo attivo, cercando una soluzione […]. Le comunità che possiedono un robusto sistema di significato sanno affrontare molto bene i disastri e i conflitti violenti»[10].
Si tratta di una discriminante fondamentale, che trova conferma nelle ricerche compiute in luoghi sconvolti da guerre e cataclismi; il supporto della comunità, dei valori e delle tradizioni in essa presenti rafforza i suoi appartenenti e smentisce il postulato individualistico dell’uomo che «si fa da sé». Risulta invece molto più dannosa per la salute una vita solitaria iperprotetta, senza grandi problemi, rispetto a un evento tragico, ma affrontato con il supporto di legami forti e profondi[11].
La morte
L’atteggiamento proattivo è di grande aiuto anche per affrontare la morte, un altro aspetto che questa epidemia ha riproposto alle società occidentali con un’intensità e frequenza che si credevano scomparse per sempre. Tra le notizie strazianti delle morti di questi giorni emerge l’impossibilità di salutare per l’ultima volta i propri cari, e i medici sono chiamati a svolgere anche il compito di «cappellani», porgendo l’ultimo saluto ai morenti o a farsi latori dei loro messaggi ai familiari. Confidava in proposito un medico: «Il paziente sa che cosa sta succedendo, glielo leggi negli occhi. “Dica a mia moglie che la amo” o “mandi un saluto alla mia nipotina appena nata che non ho potuto vedere”, ti dicono. Ai pazienti riportiamo le parole che i loro familiari ci consegnano al telefono, i bigliettini con i messaggi e i disegni dei nipotini che ci portano, restando fuori. Ai parenti diamo al telefono le notizie dei decessi. Ho dovuto comunicarlo a due figli di un paziente che abitano distanti l’uno dall’altra. Non hanno nemmeno potuto piangerlo insieme. Non dico tenergli la mano, perché nemmeno noi possiamo farlo. Muoiono soli e vengono portati in camera mortuaria avvolti in un telo con il disinfettante»[12].
In queste situazioni, un aiuto fondamentale, come si notava, è l’orizzonte dei valori di riferimento, specie se consentono di affrontare gli aspetti drammatici dell’esistenza, in particolare la malattia e la morte. Questa era anche la verità affermata da un autore a prima vista lontanissimo dalla dimensione religiosa come Friedrich Nietzsche: «Chi ha un perché nella vita, può sopportare quasi ogni come». È un aforisma che Viktor Frankl riporta a esergo del suo libro autobiografico Uno psicologo nei lager[13]. Frankl aveva notato che la possibilità di sopravvivere nelle «situazioni estreme» non era data dalla costituzione fisica, dalla robustezza o dalle forze a disposizione, ma dalla capacità «sapienziale» di trovare un significato in ciò che si stava vivendo. In assenza di ciò, sopravvivere diveniva impossibile. L’insegnamento ricavato dall’esperienza del lager trovò per lui una conferma di fronte ai problemi e alle difficoltà della vita ordinaria, al punto da elaborare una proposta psicologica che si è ben presto largamente diffusa e praticata nel mondo, la logoterapia: «l’antico ed eterno bisogno metafisico, ossia l’esigenza dell’individuo di dare un senso alla propria esistenza»[14].
L’importanza di un approccio sapienziale ai problemi dell’esistenza trova riscontro anche in sede letteraria e medica. Nel romanzo 1Q84 lo scrittore giapponese Haruki Murakami presenta in maniera letterariamente efficace il valore terapeutico della parola. In un passaggio del romanzo, il protagonista, vegliando il padre in coma irreversibile, instaura con lui un dialogo che di fatto è un monologo: gli racconta la sua infanzia, gli legge le poesie che prediligeva e che amava farsi leggere proprio dal figlio. A un certo punto, però, egli si chiede che senso abbia tutto ciò, vista la condizione del padre. Ma l’infermiera del reparto lo rassicura e lo invita a continuare: «Quando ho fatto i corsi per diventare infermiera, ho imparato una cosa. E cioè che le parole positive esercitano una vibrazione positiva sulla membrana del timpano. Parole positive, vibrazione positiva. Anche se il paziente non capisce il significato, l’effetto benefico che la vibrazione produce fisicamente sul timpano è lo stesso. Perciò consigliamo sempre di parlare ai pazienti a voce alta. Indipendentemente dalla logica, è un metodo che funziona. Lo dico in base all’esperienza»[15].
Le osservazioni di quella infermiera sono state ampiamente confermate dalla ricerca medica. Fabrizio Benedetti, uno dei massimi esperti mondiali del placebo, nota come la medicina abbia rilevato la potenza e l’efficacia delle parole anche sotto il profilo biochimico: «Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni e simboli astratti in vere e proprie armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. È questo il concetto chiave che sta emergendo, e recenti scoperte lo dimostrano: le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l’aspirina, ma, visto che nel corso dell’evoluzione sono nate prima le parole e poi i farmaci, è più corretto dire che i farmaci attivano gli stessi meccanismi delle parole […]. Se io ho fiducia in te e spero di stare meglio, il mio cervello inizia a produrre degli antidolorifici naturali e il dolore diminuisce»[16]. Certo, aggiunge l’autore, la potenza della parola si mostra anche in negativo: essa può fare male in maniera molto più devastante di un’azione fisica, fino a uccidere. Lo stesso può dirsi per le relazioni di aiuto a chi soffre: ciò che fa la differenza, più che la competenza e l’esperienza, è la capacità di instaurare relazioni empatiche e compassionevoli.
Una speranza che la morte non può togliere
Nel corso del libro Benedetti entra anche in merito alla possibile importanza che, dal punto di vista medico, la dimensione religiosa può avere per chi si trova ad affrontare una malattia grave, soprattutto quando sa che non sarà possibile guarire. A tale scopo, riporta testimonianze di pazienti incontrati in questo doloroso percorso e la maniera in cui l’hanno vissuto, restando «vivi fino alla fine», per riprendere un’espressione di Paul Ricœur. Per queste persone, l’eternità non viene considerata una forma di oppio che stordisce e lenisce il dolore, o una distrazione dall’impegno terreno, ma piuttosto un aiuto potente ad affrontare senza rassegnazione le prove più dure della vita: «La speranza di vivere per l’eternità è il meccanismo di sopravvivenza più potente che ci sia in natura […]. Non esiste strategia più potente della religione, perché la religione ci fa vivere in eterno. Nessuna strategia di sopravvivenza nel mondo animale va oltre la morte, nella specie umana invece sì»[17].
Benedetti ricorda in particolare la vicenda di un sacerdote malato di cancro, il quale, durante gli spasmi di dolore, stringeva a sé un crocifisso che aveva molto caro, ripetendo in continuazione: «Soffro con Gesù». Non voleva farmaci, eppure il crocifisso calmava il dolore in una maniera altrettanto efficace della morfina. Questi effetti erano riscontrati dai dati che apparivano sul monitor a cui egli era collegato: «La sua speranza di vita eterna riusciva ad avere la potenza della morfina, al punto che il crocifisso tra le mani sostituiva la siringa con il farmaco»[18].
Un’altra malata terminale, Cornelia, di fronte alla possibilità reale di morire, si avvicina alla fede, anche grazie all’aiuto di un sacerdote. Ella confida al suo medico il profondo cambiamento occorsole, con stupore, ma anche con una forza rinnovata: «Sono sicura che c’è qualcosa oltre la vita. Non l’avevo capito prima, ma ora ci ho pensato su, e don Paolo mi ha convinto con le sue parole colme di speranza, di calore umano, di conforto spirituale. Faccio la comunione tutti i giorni e questo mi aiuta […]. E se questo mio male fosse il segno del destino che mi ha fatto avvicinare a Dio?»[19].
La malattia terminale viene vista da queste persone come una possibilità inattesa, la scoperta di qualcosa di bello e prezioso che nulla può scalfire e che fornisce una luce differente alla propria situazione, un rovesciamento di prospettiva che rimette in discussione non soltanto l’orizzonte esistenziale del malato, ma anche quello dei cosiddetti «sani». C’è qualcosa di ancora più importante della stessa guarigione fisica, che non avrebbe fatto altro che rimandare l’appuntamento decisivo della vita. Quello che per Cornelia contava era arrivare preparata a quel momento; questo dipendeva da lei, e lo visse fino in fondo; era ciò che le stava veramente a cuore: «Quando morì, aveva il sacerdote accanto al letto che le somministrò l’estrema unzione. Le ultima parole a don Paolo furono: “Grazie di avermi fatto conoscere Dio”»[20].
Anche un autore piuttosto critico sul tema religioso, ma molto attento alla dimensione sapienziale dell’esistenza, come Irvin Yalom riconosce con onestà quanto il confronto terapeutico con Paula, una persona profondamente credente, malata terminale, che lui ha accompagnato alla morte dal punto di vista psicologico, abbia contribuito a mettere in discussione il suo scetticismo. Ciò che lo colpisce di questa donna minuta è la sua capacità di trasformare una disgrazia in grazia, perché in questa prospettiva può vincere un male molto più spietato del cancro: la solitudine. Il suo caso gli mostra con stupore che la felicità può essere di casa nei luoghi più impensati: «È possibile che qualcuno i cui giorni siano limitati, il cui corpo sia minato dal cancro, possa sperimentare una sorta di “età dell’oro”? Fu ciò che accadde a Paula. Fu lei che mi insegnò che abbracciare la morte con onestà ci permette di sperimentare la vita in un modo più ricco, più soddisfacente»[21]. Yalom resta particolarmente commosso dalla capacità della donna di parlare della sua fine imminente al marito e al figlio, al quale ha scritto una lettera toccante. La speranza di un’altra vita faceva di quel distacco un arrivederci, prendendo a paragone il feto che non vede e non sa che sta per entrare in una vita nuova: «Non siamo anche noi preparati per un’esistenza che va al di là della nostra comprensione, persino al di là dei nostri sogni?»[22].
Gli incontri, e non di rado scontri, con Paula non cambiarono la valutazione di Yalom sulla religione come tranquillante a buon mercato, ma introdussero in lui il beneficio del dubbio. Ciò che essenzialmente ammirava in quella donna era la sua capacità di vivere quella situazione senza vittimismo o autocommiserazione, preoccupata soprattutto di usare al meglio il tempo e le energie rimaste per coloro che aveva accanto. Paula gli aveva mostrato una dimensione che nulla poteva scalfire, nella quale anche il dolore della scomparsa diventava un dono di amore per i suoi cari: «Invidiavo suo figlio. Si rendeva conto di quanto fosse stato benedetto dalla vita? Come avrei desiderato essere figlio di una madre simile»[23].
Nella prova, una opportunità
Questi giorni difficili, riletti alla luce di chi ha vissuto esperienze simili, forniscono insegnamenti preziosi, espressi con la vita. La qualità delle relazioni e una profonda vita interiore sono aiuti potenti contro il male, anche in assenza di un’adeguata perizia medica. E sono motivo di grande aiuto per gli altri. Due psichiatri tedeschi, Hans Strupp e Suzanne Hadley, hanno messo a confronto gruppi di malati seguiti rispettivamente da psicoterapeuti molto esperti (con almeno 20 anni di professione) e insegnanti di materie varie (matematica, filosofia, letteratura, storia, musica), privi di esperienza terapeutica, ma con grandi capacità empatiche. Entrambi i gruppi hanno tratto benefici quando la relazione era all’insegna del calore umano e dell’empatia; senza di esse, la mera preparazione ed esperienza rischiava di andare a scapito della motivazione e della speranza di migliorare[24].
Niente può compensare il valore delle relazioni autentiche: esse sono una forma potente di protezione di fronte alle minacce, e una possibilità di esprimere il meglio di sé. Ogni persona sarà ricordata soprattutto per ciò che ha amato, più che per ciò che ha fatto. Una manager inglese, al funerale di una collega, resta colpita dalla ripetitività delle frasi poste sulle lapidi delle tombe, quasi un ritornello martellante per chi rimane, che invia sempre il medesimo messaggio: «Figlio devoto. Padre e nonno. Adorato figlio unico. Moglie e madre esemplare. Sorella. Moglie. Madre». E commenta: «Nella morte non ci definiamo più per quello che abbiamo fatto o siamo stati, ma per quello che abbiamo significato per gli altri. Per quanto abbiamo amato e quanto siamo stati amati a nostra volta»[25].
Questo è anche l’invito rivolto a tutti da papa Francesco, interpellato da un quotidiano sul possibile significato dell’emergenza in corso: «Dobbiamo ritrovare la concretezza delle piccole cose, delle piccole attenzioni da avere verso chi ci sta vicino, famigliari, amici. Capire che nelle piccole cose c’è il nostro tesoro. Ci sono gesti minimi, che a volte si perdono nell’anonimato della quotidianità, gesti di tenerezza, di affetto, di compassione, che tuttavia sono decisivi, importanti. Ad esempio, un piatto caldo, una carezza, un abbraccio, una telefonata… Sono gesti familiari di attenzione ai dettagli di ogni giorno che fanno sì che la vita abbia senso e che vi sia comunione e comunicazione fra noi»[26].
Copyright © 2020 – La Civiltà Cattolica
Riproduzione riservata
***
[1]. «Anziani, la rete di assistenza regione per regione organizzata da Auser», in la Repubblica, 18 marzo 2020 (www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/2020/03/18/news/assistenza_anziani-251621623/; www.auser.it).
[2]. Il sito della Società Psicologi dell’Emergenza (SIPEM: www.sipemsos.org) riporta le sedi presenti in ogni regione, con indirizzi, numeri di telefono ed e-mail. La sede nazionale è ubicata a Roma, via Melpomene 22, 00133 Roma (tel. 06.233248671; 3395893978; sipemsos.fed@poste-certificate.it sipemsoslazio@gmail.com).
[3]. Sum. Theol., II-II, q. 136, a. 4, ad 2um.
[4]. Francesco, Messaggio per la 52a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, «La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace», n. 1.
[5]. Ivi, n. 2.
[6]. Ecco alcuni siti di riferimento: www.protezionecivile.gov.it/servizio-nazionale/strutture-operative/volontariato/elenco-nazionale/centrale; Organizzazione mondiale della sanità (OMS: www.who.int); Ministero della Salute (www.salute.gov.it/portale/home.html); Istituto superiore di sanità (ISS: www.iss.it); in particolare l’infografica «pillole antipanico».
[7]. Cfr S. C. Kobasa – S. R. Maddi – S. Kahn, «Hardness and health», in Journal of Personality and Social Psychology 42 (1982) 168-177.
[8]. Cfr G. Cucci, «Fare niente», in Civ. Catt 2020 II 20-29; A. Oliverio Ferraris «Resilienti. La forza è con loro», in Psicologia contemporanea, n. 180, novembre-dicembre 2003, 3.
[9]. Cfr A. Oliverio Ferraris, La forza d’animo. Cos’è e come possiamo insegnarla ai nostri figli, Milano, Bur, 2003, 78-81.
[10]. F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2005, 158.
[11]. Nota Anna Oliverio Ferraris: «I solitari rischiano di essere più vulnerabili. Aiutare gli altri, infine, e rendersi utili non serve soltanto agli altri, ma anche a se stessi […]. Uno stile iperprotettivo è in linea di massima poco favorevole alla resilienza, perché non consente di misurarsi con le difficoltà e il dolore e di trovare autonomamente le soluzioni» (A. Oliverio Ferraris, «Resilienti…», cit., 6; cfr G. Cucci, «Il capitale sociale. Una risorsa indispensabile per la qualità della vita», in Civ. Catt. 2019 I 417-430).
[12]. G. Ubbiali, «Dottoressa dica a mia moglie che la amo», in Corriere della Sera, 17 marzo 2020. Questa è anche la missione speciale che stanno vivendo alcuni sacerdoti, come fra Aquilino Apassiti, religioso 84enne, cappellano dell’ospedale di Bergamo: «L’altro giorno una signora, non potendo più salutare il marito defunto, mi ha chiesto di fare questo gesto. Ho benedetto la salma del marito, fatto una preghiera e poi ci siamo messi entrambi a piangere per telefono. Si vive il dolore nel dolore. È un momento di grande prova» («Coronavirus. Il frate: “Metto il telefono sulle salme e prego insieme ai parenti”», in www.avvenire.it/chiesa/pagine/fra-aquilino-apassiti-metto-telefono-sulle-salme-e-prego-insieme-ai-parenti).
[13]. Cfr V. Frankl, Uno psicologo nei lager, Milano, Ares, 1975, 129; F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Milano, Adelphi, 1983, nn. 12, 26.
[14]. V. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Brescia, Morcelliana, 2001, 128; cfr Id., La sofferenza di una vita senza senso. Psicoterapia per l’uomo d’oggi, Leumann (To), Elledici, 1992.
[15]. H. Murakami, 1Q84. Libro 1 e 2, Torino, Einaudi, 2011, 711.
[16]. F. Benedetti, La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia, Milano, Mondadori, 2018, 11 s.
[17]. Ivi, 92.
[18]. Ivi, 97.
[19]. Ivi, 98 s.
[20]. Ivi, 99.
[21]. I. Yalom, Il senso della vita, Vicenza, Neri Pozza, 2016, 30.
[22]. Ivi, 32.
[23]. Ivi, 34. Per un approfondimento, cfr G. Cucci, L’ arte di vivere. Educare alla felicità, Milano, Àncora – La Civiltà Cattolica, 2019.
[24]. Cfr H. Strupp – S. Hadley, «Specific vs nonspecific factors in psychotherapy. A controlled study of outcome», in Archives of General Psychiatry 36 (1979) 1125-1136.
[25]. A. Pearson, Ma come fa a far tutto?, Milano, Mondadori, 2015, 251.
[26]. P. Rodari, «Coronavirus, Papa Francesco: “Non sprecate questi giorni difficili”», in la Repubblica, 18 marzo 2020.
***
CORONAVIRUS PSYCHOLOGY
Circumstances linked to the epidemic since its outbreak have brought to light certain behaviors that are worthy of recognition, and which belong to the criteria for understanding this dramatic event. This is no small matter, because a correct approach is of great help in living through an emergency situation. We can highlight certain steps that are not new -some of which have been repeated several times in recent days-, but not at all taken for granted, even in light of the episodes in the news in recent weeks. The article refers in particular to correct information, a proactive stance in the face of problematic situations, the importance of dialogue, and, emotional relationships. When fear is listened to and experienced with a proactive attitude, it can teach many things about the truth of the human condition.