|
Il 15 marzo scorso si è spento uno dei protagonisti dell’architettura italiana e internazionale del Novecento, Vittorio Gregotti[1]. Era nato a Novara nel 1927. È stato un grande architetto, che tuttavia non ha incarnato soltanto la figura del progettista, avendo firmato alcuni tra i complessi più significativi del secolo appena passato in Italia e all’estero, ma anche quella del testimone, del teorico e del lucido critico, che fa della propria prassi il modello per riflettere sul «fare dell’architettura», concepito nella sua capacità di ricondurre il caos e l’indeterminato a un cosmo intelligibile, a un ordine. In questo senso, egli ha alimentato un dibattito culturale di cui è stato un vero e proprio punto di riferimento, incoraggiando e promuovendo, ma anche intervenendo in maniera decisa contro posizioni a lui avverse.
In un’epoca caratterizzata da un «pensiero debole», in cui tutto appare fluido e frammentato, Gregotti è stato un architetto dal «pensiero forte», dai grandi sogni e dalle potenti utopie. Forte è stata la sua contestazione verso l’architettura contemporanea. Se questo mondo è troppo spesso frammentato dagli illustri specialisti, che offrono indiscussi vantaggi dal punto di vista economico e delle prestazioni, Gregotti cercava con rigore metodologico una coerenza con il contesto ambientale, con la cultura del luogo, a partire da una dialettica che coinvolge il mondo politico e sociale. L’architettura è strettamente legata all’ambiente, al paesaggio e a tutte le sue caratteristiche culturali, fisiche, spirituali.
Gregotti eccelleva nel pensare il rapporto tra città e territorio, tracciando una visione del collettivo come risposta ai bisogni sociali diffusi, legati ai luoghi e alla loro storia. Egli amava dire: «L’architettura è una materia storica, dialettica, è un prodotto collettivo, e il suo scopo è rivelare i luoghi dando un significato a un ambiente fisico senza mai ignorare ciò che preesiste». Di fatto, l’architetto deve essere soprattutto un intellettuale, pienamente consapevole del proprio ruolo nella società e nella cultura, figura ben lontana da quella di show-business-man, alla quale appartiene la maggior parte degli architetti di oggi.
Architetto e intellettuale
Gregotti è stato un grande intellettuale, che ha conosciuto i personaggi chiave della cultura internazionale e ha compiuto un lungo percorso professionale, segnato da incontri e ricco di realizzazioni rimaste esemplari nella storia dell’architettura. A Parigi, egli conosce Auguste Perret e il suo mitico Atelier, in cui lavora nel 1947; Jean-Paul Sartre e Fernand Léger. Compie un’esperienza, negli Stati Uniti, a New York, Boston e Chicago, dove incontra Mies van der Rohe. Significativi sono gli anni nello studio BBPR con Ernesto Nathan Rogers, una delle principali personalità teoriche e critiche della scena architettonica milanese.
Numerosi sono poi gli incontri e le amicizie con personaggi di spicco del mondo artistico-culturale da lui frequentati: da Henry van de Velde a Konstantin Melnikov, da Pablo Picasso a Alvar Aalto. Gregotti poi è a fianco di Gropius, Le Corbusier e Franco Albini. Lavora nella redazione della rivista Casabella di Rogers con Giancarlo De Carlo e Marco Zanuso. È amico di Elio Vittorini, Luciano Berio, Umberto Eco, Emilio Tadini. Insomma, è un interlocutore non soltanto dell’architettura moderna, ma anche della cultura in senso ampio.
L’architetto, infatti, deve avere una personalità in grado di integrare le diverse arti, non limitandosi al puro esercizio architettonico, ma cercando di rinnovare la figura del capomastro medievale, che ha una visione d’insieme delle cose, una capacità di intuire la complessità e l’articolazione delle diverse problematiche, da quelle tecniche a quelle socio-culturali.
Gregotti ha partecipato a numerose esposizioni internazionali; è stato direttore di riviste d’architettura, come Casabella, dal 1953 al 1955, e ancora dal 1982 al 1996. Dal 1974 al 1976 ha diretto il settore «Arti visive e architettura» della Biennale di Venezia. Nel 1974 ha fondato la «Gregotti Associati», di cui è stato presidente. È stato accademico di San Luca dal 1976, e di Brera dal 1995. Tra i numerosi interventi compiuti nella sua lunga carriera non possiamo dimenticare la risistemazione di Potsdamer Platz a Berlino, le realizzazioni del Teatro degli Arcimboldi a Milano, del Gran Teatro Nazionale di Pechino e della chiesa di San Massimiliano Kolbe a Bergamo e del Quartiere Bicocca a Milano.
Lo Zen di Palermo e il quartiere Bicocca di Milano
Gregotti è stato ideatore del controverso progetto di edilizia popolare del quartiere Zen di Palermo, inaugurato nel 1969. Egli si è sempre difeso da questo «fallimento» per il fatto che, anche a causa della disattenzione politica e dei ritardi burocratici, il progetto non è stato mai ultimato. Infatti mancava una parte integrante di esso, vale a dire quelle opere fondamentali di infrastruttura primaria e secondaria, come teatri, luoghi di lavoro, servizi sociali, che erano state pensate per porre il quartiere in continuità con il centro storico di Palermo. Lo Zen doveva essere una parte della città mescolata socialmente, non una periferia-ghetto, che oggi purtroppo è afflitta da gravi problemi di degrado architettonico, specchio del pesante disagio sociale.
Appare invece esemplare il progetto della Bicocca a Milano, la cui area era occupata dagli stabilimenti della Pirelli. In questo progetto, Gregotti contesta qualsiasi deregulation urbanistica – come purtroppo accade oggi in numerosi interventi –, segnando un punto fermo per la riqualificazione delle aree industriali dismesse, non soltanto italiane. In un mix di ristrutturazione delle pre-esistenze ed edificazioni ex novo, contro una città pensata per giustapposizione di pezzi incoerenti, costruiti per promuovere puri interessi economici, contro l’anarchia dei linguaggi e il monopolio delle architetture commerciali, Gregotti pensa il comparto urbano suddiviso in fasce organizzate in grandi blocchi, attraverso i quali viene riproposto il modello lombardo dell’isolato urbano a corte. Se da troppo tempo si è smarrito il disegno complessivo della città, per lui si tratta di realizzare una struttura sobria e austera, che cerca di creare una profonda dialettica fra la tradizione del luogo, caratterizzato dalla presenza decennale del mondo operaio, e quella delle attività degli studenti dell’Università degli Studi di Milano. Occorre pensare l’architettura secondo una visione urbanistica unitaria, che tenga conto della memoria e delle pre-esistenze.
La chiesa di San Massimiliano Maria Kolbe di Bergamo
Nel panorama dell’architettura ecclesiastica, appare interessante la chiesa di San Massimiliano Maria Kolbe di Bergamo, in cui Gregotti si confronta con lo spazio sacro all’interno della città. Inserita nel complesso del centro parrocchiale – disposto su tre livelli e dotato di una sala polivalente per le diverse attività parrocchiali –, la chiesa si presenta esternamente a pianta quadrata, offrendo l’immagine di una croce compatta, in cui è inserita una copertura a forma circolare, che evoca l’impostazione architettonica dell’antica chiesa parrocchiale adiacente.
L’interno contiene una cupola bianca rovesciata di ampio diametro. Nel grande cerchio del tamburo penetra una luce intensa e diffusa, grazie a piccole finestre che restano invisibili. L’esterno, rivestito di pietra arenaria quarzifera di color ocra chiaro proveniente dall’India, sembra evocare un’architettura classica monumentale nella sua essenzialità e nobiltà delle forme.
Se, da un lato, va riconosciuto a Gregotti la capacità di avere creato una «nobile» e «dignitosa» architettura, utilizzando un sapiente linguaggio formale e reinterpretando mirabilmente alcuni temi centrali degli stilemi classici, dall’altro egli sembra aver creato uno spazio senza aver sufficientemente attraversato il tema nella sua intensità spirituale, come se si fosse limitato a realizzare una «bella» architettura. Ed è questo forse un limite che si riscontra non soltanto nell’altro edificio religioso da lui progettato – la chiesa di San Clemente a Seveso –, ma anche negli edifici civili, come il Teatro Arcimboldi alla Bicocca ecc.
Un teorico dell’architettura
Grande è stata infine l’attività teorica di Gregotti. Per lui, il mestiere di architetto è sempre andato di pari passo con un’attenta attività di studio e d’insegnamento come professore ordinario allo IUAV di Venezia. «Se ne va – ha affermato alla sua morte il presidente della Triennale di Milano, l’architetto Stefano Boeri –, in queste ore cupe, un Maestro dell’architettura internazionale: un saggista, critico, docente, editorialista, polemista, uomo delle istituzioni, che – restando sempre e prima di tutto un architetto – ha fatto la storia della nostra cultura, concependo l’architettura come una prospettiva: sull’intero mondo e sull’intera vita».
Da poco Gregotti aveva chiuso il suo studio di architetto, non per la sua età avanzata, ma per il fatto che oggi «l’architettura non interessa più». Questa chiusura sembra un grido rivolto a una società in cui si distribuiscono ovunque prodotti uguali, in cui prevale il riferimento a un contesto globale che diventa moda, a un sistema in cui avanzano spettacolo, esibizione, ossessione per la comunicazione. Insomma, un lavoro di palcoscenico.
Talvolta il giudizio di Gregotti verso l’architettura contemporanea è polemico e tagliente. Egli è preoccupato per il disorientamento degli architetti di oggi, spinti a coltivare una pura professionalità, a soddisfare le richieste del committente, dimenticando la conoscenza storica, le necessità e le speranze delle persone. Questi architetti hanno abbandonato il lavoro di squadra, come la pratica del disegno a mano, per lasciarsi affascinare da una stravagante formazione figurativa, che seduce, ma che in realtà non raggiunge l’essenza delle cose.
L’architetto novarese vive una sorta di malinconica rassegnazione, come quando afferma: «Si può dire che la costruzione dello spazio urbano, del suo tessuto, delle sue gerarchie e dei suoi monumenti, il suo disegno, cioè, nell’antico doppio significato di progetto e di rappresentazione per mezzo delle forme, abbia perduto la sua capacità di mediazione nei confronti della società». In questo senso, Gregotti contesta la città generica, in cui prevale un’estetizzazione diffusa senza regole, priva di interesse per le specificità culturali e storiche dei luoghi, in cui gli edifici di grandi dimensioni – le cosiddette Bigness – diventano protagonisti indiscussi, frutto del capitalismo finanziario globalizzato e neocoloniale e della loro volontà di apparire.
Certamente Gregotti ha pensato a un «altro» tipo di città, legata ai bisogni della società e del territorio. Proprio centrando il suo lavoro su questa attenzione, egli è stato uno dei maggiori interpreti della ricerca architettonica e urbanistica del nostro tempo.
Copyright © 2020 – La Civiltà Cattolica
Riproduzione riservata
***
[1]. Tra i numerosi libri pubblicati da Gregotti e ai quali facciamo riferimento in questo articolo, segnaliamo: Il mestiere di architetto, Novara, Interlinea, 2019; Il territorio dell’architettura, Milano, Feltrinelli, 2014 (or. 1966); Architettura e postmetropoli, Torino, Einaudi, 2011; Contro la fine dell’architettura, ivi, 2008; Identità e crisi dell’architettura europea, ivi, 1999.
***
VITTORIO GREGOTTI. PROTAGONIST OF TWENTIETH CENTURY ITALIAN AND INTERNATIONAL ARCHITECTURE
On March 15, Vittorio Gregotti, one of the twentieth century protagonists of Italian and international architecture, died. Born in Novara in 1927, he embodied not only the figure of the designer, having been the mind behind some of the most significant architectural complexes of the last century in Italy and abroad, but also that of the witness, theorist and lucid critic, which makes his practice the model for reflecting on the «architecture making». Gregotti excels in thinking about the relationship between city and territory, outlining a vision of the collective as a response to social needs, linked to places and their history.