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La difficoltà di stare con se stessi
Un tempo sofferto di sosta forzata – qual è, ad esempio, quello determinato dall’isolamento per debellare la pandemia del coronavirus – può anche essere motivo di insegnamenti preziosi. Diversi si sono interrogati sul significato di questa grave epidemia anche sotto questo aspetto. Tra i molti spunti possibili, vorremmo riprenderne uno ben noto alla tradizione spirituale: prendersi un tempo semplicemente per non fare niente.
Si può occupare il tempo, ingannarlo, riempirlo, ammazzarlo, magari stando davanti alla tv con una birra e le patatine fritte. Oppure, peggio, si può fare più insistente l’insidia del vizio, che con i nuovi ritrovati web offre possibilità enormi, con conseguenze altrettanto devastanti, come si è avuto modo di rilevare[1]. Tutto ciò è esattamente all’antitesi del «fare niente».
Stare semplicemente con se stessi può essere stigmatizzato come un vizio, una forma di pigrizia; nello stesso tempo si presenta come la situazione ideale di vita, libera da impegni e incombenze. Ma quando ci si decide a compierlo consapevolmente, il far niente diventa la cosa insieme più facile e più difficile. Più facile, perché non occorrono attività o proposte particolari: basta semplicemente restare in silenzio. Ma è anche la più difficile, perché la nostra mente è piena di cose, di pensieri, ed è necessario disintossicarsi da questo cumulo enorme. Il che richiede tempo, fatica e, se non lo si è mai fatto, ci si scoraggia facilmente.
Un articolo di psicologia apparso alcuni anni fa, senza ovviamente immaginare l’emergenza attuale, iniziava proprio con questa domanda: «Quando è stata l’ultima volta che non avete fatto niente, proprio niente? Senza leggere, senza guardare la televisione, senza controllare le mail, senza occuparvi della carriera […]? Quando vi siete lasciati andare fino in fondo al dolce far niente, al vuoto che subentra quando cessa ogni attività e solo il diaframma si alza e si abbassa al ritmo del respiro?»[2]. Senza possibili vie di fuga dall’incontro con se stessi. Una possibilità vista spesso come un ideale non alla nostra portata, perché ci sono troppe cose da fare, oppure, più realisticamente perché quando ne siamo costretti (come in questi giorni), facciamo i conti con la noia e la frustrazione. È forse per questo che spesso, quando si va in vacanza, si rientra più stressati di prima.
In effetti, stare da soli con i propri pensieri è per molti non una condizione desiderabile, ma una tortura insopportabile. Lo sa bene chi è costretto a trovarsi solo con se stesso per lungo tempo, come i superstiti di un naufragio, i prigionieri, chi è affetto da qualche infermità. O chi, come in questo periodo, è costretto a casa per lungo tempo e scopre che le possibili distrazioni sono insufficienti. Una condizione che ha trovato riscontri anche in sede sperimentale.
Una serie di 11 studi condotti da una équipe di ricercatori statunitensi ha mostrato che quando ci si trova da soli con se stessi, si inizia a soffrire. A un gruppo di studenti (146) è stato chiesto di restare in silenzio a contatto con i propri pensieri per un periodo dai 6 ai 15 minuti, senza avere nulla con sé, seduti in una stanza che non offriva alcuna possibilità di distrazione. In seguito è stato chiesto di valutare l’esperienza: il 58% ha avuto difficoltà a concentrarsi, il 90% si è per lo più distratto, e la metà si è soltanto annoiata.
Risultati pressoché identici si sono registrati con persone di età più avanzata (fino a 77 anni). Alcuni hanno trovato questa situazione così insopportabile da desiderare interruzioni dolorose piuttosto che rimanere semplicemente a pensare. Di fronte alla proposta di subire leggere scosse elettriche per sospendere i 15 di minuti di noia volontaria, la maggior parte ha optato per tale possibilità, alcuni anche con entusiasmo. Evidentemente, avere a che fare con i propri pensieri è più doloroso che ricevere una scossa elettrica.
I ricercatori hanno commentato così i risultati: «Alla mente non allenata non piace trovarsi sola con se stessa»[3]. Eppure un tale allenamento, pur doloroso, è indispensabile, perché consente di esprimere le nostre possibilità e capacità più alte, aiuta a riconoscere cosa desideriamo veramente dalla nostra vita.
Contemplare, sinonimo di felicità
Per secoli gli uomini hanno vissuto, e bene, senza le attuali distrazioni. E hanno riconosciuto nell’assenza di distrazione la via verso la felicità. Pascal notava che la gran parte dei mali e delle passioni dell’uomo «derivano da una sola cosa, dal non saper stare senza far nulla in una stanza»[4]. L’addestramento alla mente, notato dagli autori della ricerca sopra riportata, era chiamato dagli antichi l’arte di vivere, la sapienza, l’attività più importante e preziosa, perché consente di partecipare della felicità (eudaimonia), la condizione propria di Dio.
Per Aristotele, il piacere di questa attività è perfetto, non conosce gli eccessi, la mancanza, la fatica, il dolore, e questa è l’azione più alta e degna dell’uomo libero. Il filosofo greco precisa tuttavia che l’uomo può giungere a tale stato solo per qualche breve momento: «Una vita di questo tipo sarà troppo elevata per l’uomo: infatti, non vivrà così in quanto è uomo, bensì in quanto c’è in lui qualcosa di divino: e di quanto questo elemento divino eccelle sulla composita natura umana, di tanto la sua attività eccelle sull’attività conforme all’altro tipo di virtù. Se, dunque, l’intelletto in confronto con l’uomo è una realtà divina, anche l’attività secondo l’intelletto sarà divina in confronto con la vita umana»[5].
Ma la consapevolezza di questo limite non costituisce una obiezione. Il fatto di essere un’attività provvisoria e instabile non la rende meno bella; perciò la persona respinge con sdegno l’obiezione di lasciarla perdere in quanto ritenuta troppo ardua da raggiungere. Ciò significherebbe mortificare la dimensione più alta e nobile dell’uomo: «Non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi. Infatti, sebbene per la sua massa sia piccola, per potenza e per valore è molto superiore a tutte le altre. Si ammetterà, poi, che ogni uomo si identifica con questa parte, se è vero che è la sua parte principale e migliore […]. Questa vita, dunque, sarà anche la più felice»[6].
Questo tema sarà ripreso ampiamente in ambito cristiano. Scrive ad esempio sant’Agostino: «Il diletto che si prova nella contemplazione della verità è così grande, così puro, così sincero, e dà tanta certezza della verità, che chi lo prova ritiene di non aver mai saputo le cose che prima credeva di sapere; e perché l’anima possa aderire integralmente alla Verità totale, non teme più la morte che prima temeva, anzi la desidera come un sommo acquisto»[7].
Alcune precisazioni sul termine «contemplare»
È tuttavia importante non equivocare questo termine, quasi fosse riservato a una ristretta comunità di eremiti o incoraggiasse la passività a scapito dell’azione. Quando parla di contemplazione, lo Stagirita intende qualcosa di differente da come potrebbe sembrare oggi. L’esame degli endoxa, cioè delle opinioni correnti, lo porta a concludere che la felicità può essere raggiunta esercitandosi in due attività apparentemente agli antipodi tra loro, come appunto la contemplazione e le relazioni, grazie alle quali l’uomo raggiunge il suo fine proprio, che lo differenzia dalle bestie e dagli schiavi, rendendolo partecipe della vita propria di Dio, e conferendo un tratto di gioia e di bellezza a quanto compiuto.
La contemplazione non è opposta all’azione, ma è la sua espressione più alta, la creatività, che consente di essere pienamente vivi. Lo psicologo Abraham Maslow chiama questi momenti peak-experiences, nelle quali il tempo si è come fermato, l’esistenza viene percepita nella sua bellezza e l’Assoluto fa il suo ingresso, investendo il soggetto. In questo modo si avverte una gioia profonda, unita a sorpresa e stupore, insieme a un senso di gratitudine per un tale dono ricevuto inaspettatamente. In seguito a ciò, la persona diventa più tollerante, capace di perdono, di empatia, e sa reagire maggiormente di fronte alla sofferenza e alle difficoltà[8]. Il termine peak-experiences può comprendere una gamma fenomenologica di accadimenti estremamente variegata, come la poesia, l’ispirazione letteraria, l’opera d’arte, una relazione d’amore, uno stato mistico.
Chi sperimenta tali momenti non ha l’impressione di essere inerte, ma, al contrario, li considera come i più intensi della propria vita. Queste caratteristiche di pienezza comprendono anche l’attività professionale, la quale, se è in sintonia con il proprio desiderio profondo, può essere considerata un anticipo di beatitudine. È questa, ad esempio, la maniera con cui uno psichiatra statunitense, Irvin Yalom, in un romanzo autobiografico, descrive il proprio mestiere: «Fortunato colui che ama il proprio lavoro. Ernest si sentiva fortunato, certo. Più che fortunato. Benedetto. Era un uomo che aveva trovato la propria vocazione, che poteva dire: “Esprimo perfettamente me stesso, sono al culmine dei miei talenti, dei miei interessi, delle mie passioni”. Ernest non era religioso, ma, quando ogni mattina apriva l’agenda degli appuntamenti e vedeva i nomi delle otto o nove persone che gli erano care e con le quali avrebbe trascorso la giornata, era sopraffatto da un sentimento che avrebbe potuto definire unicamente con il termine religioso. In quei momenti provava il desiderio più profondo di rendere grazie – a qualcuno, a qualcosa – per averlo guidato fino a comprendere la propria vocazione»[9].
Silenzio e attenzione, le porte verso la verità di se stessi
Restare in silenzio è cosa ardua, perché non è un atteggiamento spontaneo e le distrazioni incombono sempre. Si avverte di non avere potere sulla propria mente e che i pensieri sfuggono al controllo.
In un racconto medievale, un parroco scommette con un contadino che se sarà capace di pregare il «Padre nostro» senza distrarsi, gli regalerà un asino. Il contadino accetta con entusiasmo, pensando al facile guadagno, ma a metà della preghiera chiede improvvisamente: «Ma mi darà anche la sella?»[10]. Stare in atteggiamento di totale attenzione per la durata di un «Padre nostro» non è un esercizio facile.
Lo aveva capito bene Simone Weil, la quale scopre il valore e la difficoltà dell’attenzione pregando. Una cosa che non aveva mai fatto fino al giorno in cui, alla richiesta di dare lezioni di greco, sceglie di utilizzare il testo del Pater, restandone conquistata. Ma nota anche la difficoltà a fermarsi su quelle parole senza distrarsi. E decide di pregarlo tutte le mattine con attenzione; quando si distraeva, ricominciava da capo. In questo modo ha appreso a gustare le sfumature del greco di quel testo incantevole e il valore dell’attenzione: «Il potere di questa pratica è straordinario e ogni volta mi sorprende, poiché, sebbene lo sperimenti tutti i giorni, esso supera ogni volta la mia attesa. Talora già le prime parole rapiscono il pensiero dal mio corpo e lo trasportano in un luogo fuori dello spazio, dove non esiste né prospettiva né punti di vista […]. Nello stesso tempo, questa infinità dell’infinità si riempie, in tutte le sue parti, di silenzio, ma di un silenzio che non è assenza di suono, bensì l’oggetto di una sensazione positiva, più positiva di quella di un suono. I rumori, se ve ne sono, mi pervengono solo dopo aver attraversato questo silenzio»[11].
La difficoltà principale è legata al fatto che si considera l’attenzione uno sforzo della volontà. Per questo, quando invitava i suoi studenti a prestare attenzione, la Weil notava che essi contraevano i muscoli con fatica, e alla domanda successiva – a cosa avessero prestato attenzione – essi non erano in grado di rispondere. Simone capisce che l’attenzione è come la preghiera: una lotta per accedere al fondo di sé, una lotta che all’inizio sfibra, ma purifica e consente di gustare la vita. Non è una tecnica da applicare, ma un dono da accogliere con semplicità: «L’attenzione è uno sforzo, forse il più grande degli sforzi, ma è uno sforzo negativo. Di per sé non comporta fatica. Quando questa si fa sentire, l’attenzione non è quasi più possibile, a meno che non si sia già molto esercitati»[12].
È come respirare; quando si compie questo esercizio con attenzione si prende contatto con se stessi, e ci si rigenera: «Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: “Ho lavorato sodo” […]. I beni più preziosi non devono essere cercati, ma attesi. L’uomo non può trovarli con le sue sole forze»[13]. Di nuovo ritorna l’importanza del non fare niente, vissuto consapevolmente, con docilità.
La Weil non nasconde la difficoltà di questo esercizio, che è come un’immersione in apnea, essenziale tuttavia per giungere alle profondità dello spirito: «Nella nostra anima c’è qualcosa che ripugna la vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica. Questo qualcosa è molto più vicino al male di quanto non lo sia la carne. Ecco perché, ogni volta che si presta veramente attenzione, si distrugge un po’ di male in sé stessi. Un quarto d’ora di attenzione così orientata ha lo stesso valore di molte opere buone»[14].
Un ristoro per l’intelligenza
Le intuizioni della Weil hanno trovato riscontro in sede neurologica. Da non molto tempo si è scoperta nel nostro cervello una rete che si attiva quando si è a riposo, si pensa a se stessi, ad altre persone, si ripercorre la propria storia passata, o si fantastica sul futuro. Si chiama default mode network, ed è stata individuata dal neurologo Marcus Raichie nel 2001[15]. In pratica, essa favorisce la rielaborazione e la valutazione di ciò che si vive, distinguendo ciò che è essenziale da ciò è secondario, che è l’esercizio proprio dell’intelligenza: «Solo quando non facciamo niente, i pensieri irrilevanti si separano da quelli essenziali e, se riusciamo ad andare più a fondo, possiamo spingerci nel territorio al di là del pensiero […]. Se non pratichiamo debitamente tale messa a riposo del terreno, perdiamo il contatto con noi stessi, non sappiamo più che cosa vogliamo davvero e ci buttiamo nell’attività senza riflettere»[16].
Certo, come si è notato più volte, questo non è un esercizio facile. Ma è importante saperlo, specie quando emerge la tanto temuta noia. E tuttavia anche questo è un pensiero che va decodificato. Chi si è confrontato con il silenzio e lo stare con se stessi ha scoperto che la noia è un sentimento non soltanto da mettere in conto, ma anche importante, perché è la porta di ingresso verso la verità di se stessi. È anche la condizione per essere creativi: per questo non va fuggita come un pericolo (come metteva in guardia Pascal). Come la fatica che accompagna l’abilità nelle attività fisiche, la noia è un passaggio indispensabile per rimanere presenti a se stessi. È un dato appurato anche in sede psicologica: «La noia e l’ansia sono segnali che spingono verso una maggiore partecipazione alla realtà delle cose, non una fuga da essa […]. L’esperienza della noia è direttamente legata alla creatività e all’innovazione. Se ci manteniamo attenti e curiosi della nostra noia, possiamo usarla come un momento per fare un passo indietro e riconnetterci poi con la realtà in modo nuovo»[17].
Una esperienza sempre attuale e imprevedibile
Quanto notato dalla Weil è un’esperienza che si rinnova puntualmente quando si supera la paura di restare soli con se stessi: un’esperienza che capita per lo più, come in questi giorni, quando ci si trova costretti a farlo. È il caso del giovane allievo ufficiale Franz Jalics alla fine della Seconda guerra mondiale. Recluso in un monastero come prigioniero di guerra, egli sperimenta la noia e decide di trascorrere le giornate nel silenzio, a contatto con la natura e con se stesso. All’inizio non ci fa caso, ma con il passare del tempo nota che quell’attività lo ritempra, lo trasforma, si sente ristorato, e contento di vivere: «Trascorso quell’anno, […] era cresciuto dentro di me un fondamento contemplativo che si manifestava in una particolare tranquillità e limpidezza interiore»[18]. Da quell’esperienza egli impara a riconoscere ciò che gli sta veramente a cuore, dove «esprime veramente se stesso» (per riprendere le parole di Yalom): decide di entrare nella Compagnia di Gesù e di dedicarsi a proporre esercizi di contemplazione per chiunque intenda rileggere la propria vita, riconciliarsi con le sue ferite e scoprire il progetto di Dio, dando compimento al desiderio fondamentale racchiuso nel proprio cuore.
Per prendere contatto con se stessi Jalics propone anzitutto di esercitare la percezione, «le percezioni dei sensi, come udire, tastare, gustare, vedere e odorare, e la percezione spirituale, quella del diventare coscienti, del prendere consapevolezza, dell’accorgersi […]. Rimanere nella percezione significa anche rimanere nel presente»[19]. L’esercizio della percezione si è progressivamente affievolito nel corso della modernità, che ha privilegiato il pensare e il fare. Ma senza percezione il pensare diventa un tormento (come negli 11 esperimenti dei reclusi volontari) e il fare genera stress. In entrambi si cerca di fuggire il presente, che è l’unica dimensione in cui siamo vivi.
Nella percezione può fare capolino la noia, certo. Ma quando la si accoglie e la si ascolta, cessa di essere fastidiosa per lasciare il passo a qualcos’altro, come si notava. Contemplare non stanca, ma rigenera. Per questo Jalics osserva che la vita eterna, trascorsa nella contemplazione senza fine di Dio, non sarà un’attività stancante, non necessiterà di stacco o di ferie, perché avremo raggiunto quella pienezza di cui tutte le esperienze e attività del tempo presente costituiscono un frammento e, quando ci sentiamo appagati, una sua eloquente anticipazione[20].
Possiamo dunque fare di necessità virtù, profittando di questo tempo per prendere contatto con noi stessi, senza paura[21].
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[1]. Cfr G. Cucci, «Cybersex. Una dipendenza insidiosa», in Civ. Catt. 2019 II 540-552.
[2]. B. Schönberger, «Far niente», in Psicologia contemporanea, n. 252, novembre-dicembre 2015, 12.
[3]. T. D. Wilson et Al., «Just think: The challenges of the disengaged mind», in Science, n. 345, luglio 2014, 75-77.
[4]. B. Pascal, Pensieri, n. 126.
[5]. Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b 25-32.
[6]. Ivi, X, 7, 1178 a 5-10. Stessa conclusione nella Metafisica: «Come l’intelligenza umana – l’intelligenza, almeno, che non pensa dei composti – si comporta in qualche momento, ebbene, in questo stesso modo si comporta anche l’Intelligenza divina, pensando sé medesima per tutta l’eternità» (Metafisica, XII, 9, 1074 b 15 – 1075 a 10; corsivo nostro).
[7]. Agostino, s., De Quantitate Animae, 33,76.
[8]. Cfr A. Maslow, Religious, Values, and Peak-Experiences, Columbus, Ohio State University Press, 1964, 59. Per un approfondimento, cfr G. Cucci, L’ arte di vivere. Educare alla felicità, Milano, Àncora – La Civiltà Cattolica, 2019.
[9] . I. Yalom, Sul lettino di Freud, Milano, Neri Pozza, 2015, 7.
[10]. Citato in G. Canobbio, «Leggere per formarsi», in La Rivista del Clero Italiano 96 (2015) 660.
[11]. S. Weil, Attesa di Dio, Milano, Rusconi, 1984, 45 s. Un’esperienza molto simile viene descritta da Agostino: «Amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio; la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio» (Le Confessioni, X, 6,8).
[12]. Ivi, 80. Queste indicazioni assomigliano molto al terzo modo di preghiera suggerito da sant’Ignazio di Loyola negli Esercizi spirituali: «Ad ogni anelito o respiro si prega mentalmente dicendo una parola del Padre nostro o di un’altra preghiera che si vuole recitare; così, tra un respiro e l’altro, si pensa principalmente al significato di quella parola, o alla persona a cui è rivolta, o alla propria pochezza, o alla distanza fra quella grandezza e la propria pochezza. Con lo stesso procedimento e la stessa misura si continua con le altre parole del Padre nostro; infine si dicono nel modo solito le altre preghiere, cioè l’Ave Maria, l’“Anima di Cristo”, il Credo e la Salve Regina» (n. 258).
[13]. S. Weil, Attesa di Dio, cit., 80 s.
[14]. Ivi.
[15]. R. L. Buckner – J. R. Andrews-Hanna – D. L. Schacter, «The Brain’s Default Network: Anatomy, Function, and Relevance to Disease», in Annals of the New York Academy of Sciences, vol. 1124 (2008), n. 1, 1-38; M. E. Raichie – A. Z. Snyder, «A default mode of brain function: A brief history of an evolving idea», in NeuroImage 37 (2007) 1083-1090.
[16]. B. Schönberger, «Far niente», cit., 15.
[17]. Sh. Turkle, La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale, Torino, Einaudi, 2016, 50-52; cfr S. Mann – R. Cadman, «Does Being Bored Make Us More Creative?», in Creativity Research Journal 26 (2014) 165-173.
[18]. F. Jalics, Esercizi di contemplazione, Milano, Àncora, 2018, 29 s.
[19]. Ivi, 34. Un’indicazione rilevata anche da Pascal in un celebre aforisma: «Ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà sempre occupati del passato e dell’avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente o, se ci pensiamo, è solo per prenderne lume al fine di predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così, non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad esser felici, è inevitabile che non siamo mai tali» (B. Pascal, Pensieri, n. 172).
[20]. F. Jalics, Esercizi di contemplazione, cit., 36.
[21]. Oltre ai testi riportati in queste pagine, suggeriamo un breve esercizio di attenzione e di preghiera: «Decidi di conservare 10 minuti di silenzio e scegli un luogo e un momento appropriato… Trova una posizione comoda…, chiudi gli occhi… Percepisci prima di tutto la tua mente dispersa durante uno o due minuti… Senti ora il silenzio…, che ti permette di prendere coscienza di questa dispersione… Ascoltare i suoni genera silenzio… Presta attenzione a tutti i suoni che puoi percepire… Mantieniti in silenzio per cinque minuti, attento ad ascoltare i suoni che ti circondano… Non si tratta di identificarli… fermati un momento su ciascuno, uno alla volta… Gli intensi, i tenui…, i vicini, i lontani… Senti ora il suono della tua respirazione…, sentiti al margine di questa corrente e ascoltala… Ascolta ora tutti i suoni che ti circondano come fossero un unico suono… Al termine, domandati: Cosa ho percepito, che ho vissuto, che cosa ho incontrato in questo momento?» (G. Cucci – M. Marelli, Istruzioni per il tempo degli Esercizi spirituali, Roma, AdP, 2015, 221 s).
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DOING NOTHING. A precious and arduous activity
This moment, which is characterized by a forced break from routine, can also be an opportunity to learn precious lessons. In this regard, several people have questioned the meaning of this serious epidemic. Among the many possible ideas, we would like to consider one well known to the spiritual tradition, that is, to dedicate time to simply doing nothing. In this article, we refer to certain experimental research projects and people’s experiences about it, and try to show the meaning of this peculiar expression, which arouses contrasting feelings. In addition, this article highlights certain aspects that are at the foundation of this strange (in)activity: attention, boredom, attention to oneself. A difficult, yet indispensable task to explore the truth about oneself. Doing nothing can be a curse, but it can also be an important opportunity that is available at our disposal.