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«Il nostro non è un mondo reale, ma una grande e complessa rappresentazione onirica (architettata da una mente superiore a tutte le altre), in balìa di divinità capricciose e antagoniste. Il presente appare del tutto artificioso, sui modelli imposti dall’industria e dai mass-media. Vi si leggono le conseguenze preoccupanti di una grande catastrofe originata da un disastro ecologico o da una guerra nucleare: da questi e da altri elementi si è portati a concludere che un’esistenza “vera” e “positiva”, progettata dagli uomini (o da quelli che appaiono uomini), si può, per ipotesi, soltanto sognare»[1]. Secondo molti studiosi questa è una delle maniere, forse troppo sintetica e unidirezionale, per tentare di riassumere l’intera opera letteraria di Philip Kendred Dick (1928-82)[2], lo scrittore statunitense noto per aver ispirato alcuni film di successo, da Blade Runner (1982) di Ridley Scott a Minority Report (2002) di Steven Spielberg, e per essere ormai definitivamente considerato — grazie anche a studi, tesi di laurea, convegni[3] — tra gli autori statunitensi di riferimento per il Novecento, assieme a William Faulkner, Norman Mailer, Thomas Pynchon. C’è perfino chi azzarda un’ipotesi: «Se Dick fosse sopravvissuto [oltre i 53 anni che è vissuto], avrebbe potuto essere certamente proposto per il Nobel»[4], così penetrante è «la forza simbolica e la carica [metaforica del suo] grandioso affresco dell’universo»[5].
«Filosofo non narratore»
Ripensando, pochi mesi prima della morte, alla sua opera di scrittore, Dick confessa: «Sono un filosofo che si esprime in romanzi, non un narratore; la mia abilità nello scrivere romanzi e racconti viene da me impiegata come un mezzo per formulare le mie percezioni. Il nucleo di ciò che scrivo non è arte ma verità. Pertanto ciò che dico è la verità, eppure non posso far nulla per alleviarla, né con atti né con spiegazioni»[6].
Fin dagli esordi, i racconti e i romanzi di Dick appaiono caratterizzati da idee ben precise, dal colore ambientale, da un profilo stilistico tendente a un livello decisamente alto. Già nel precoce Solar Lottery (Il disco di fiamma, 1955) scopriamo un debito con la migliore letteratura fantastica e anticipatrice del Novecento: Wells, Zamjàtin, C. S. Lewis[7], Huxley, Orwell, per il lato avveniristico, sociologico, etico e utopico; Sturgeon e Van Vogt per gli aspetti più legati ai temi di fantasia e scienza. Anche Eye in the Sky (L’occhio nel cielo, 1957) e altri lavori minori — escluso The Man of the High Castle (La svastica sul sole, 1962), che vince l’Hugo, il più importante premio internazionale per la narrativa di fantascienza (oggi chiamata di anticipazione) — mostrano un inconfondibile ondeggiare tra reale e immaginario, tra realtà storica e ipotetiche alternative, tra la tentazione di fuggire nello spazio profondo o il coraggio di affrontare le situazioni ingarbugliate che albergano nello «spazio» interiore dell’uomo[8].
Le stesse tendenze a un apprezzamento divergente si leggono in Dick anche riguardo al progresso tecnologico[9], al cammino evolutivo dell’umanità e alle scelte che investono i protagonisti all’interno di scenari che alla fine mostrano di impedire ogni tipo di evasione. In occasione dell’uscita in Italia del film Minority Report di Spielberg, questo aspetto è stato analizzato da molti punti di vista: c’è chi[10] privilegiava la problematica sociale messa in luce da Sergio Cofferati, estensore fra l’altro di diverse presentazioni dei romanzi di Dick per l’editore Fanucci. Nell’«Introduzione» a I Simulacri, l’attuale sindaco di Bologna prova simpatia per le creature nate dall’ingegneria genetica e destinate, come una sorta di «sottoproletariato», ai compiti e ai lavori più umili. Quando la società degli «umani» si avvia all’autodistruzione, essi avvertono una sorta di appello alla speranza; si nota in loro una particolare «illuminazione degli occhi», l’accenno di un «sorriso», un possibile segnale di comprensione che la loro redenzione è vicina[11].
Altri[12] invece segnalavano comprensibilmente questioni etiche, come quelle della libertà personale in una società soggetta a un controllo generalizzato, e annotavano considerazioni relative più strettamente al film Minority Report, che è ispirato a un racconto breve di Dick del 1956. Forse ancor più interessanti sono le analisi e le valutazioni del mensile della Polizia di Stato[13], in quanto già si utilizzano strumenti molto avanzati per il controllo sociale, corrispondenti a un bisogno e a una richiesta sempre maggiore di sicurezza: siamo però ancora lontani da un futuro avveniristico, quando sarà possibile — secondo il racconto di Dick — entrare addirittura nella mente degli individui per valutare se siano in grado di macchiarsi di delitti e stiano sul punto di commetterli effettivamente. Meritevole di un’attenzione ancora maggiore è un articolo di Goffredo Fofi[14], perché costituisce, in forma sintetica, una piccola summa critica, registra le adesioni favorevoli al mondo di Philip Dick da diverse angolature culturali e politiche, ne prende in considerazione l’opera a partire dalla vicenda personale[15].
Ma più di questo o quello spunto sulle possibilità avveniristiche di allungare la nostra vita oltre la morte (Ubik, 1966-69) o di tenere il più a lungo possibile in vita un mondo sfinito dall’inquinamento e dallo sfruttamento delle risorse naturali (Do Androids Dream of the Electric Sheep?, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, 1968, diventato Blade Runner nel 1982), ciò che rende propriamente Dick un autore molto famoso è la descrizione particolareggiata di un mondo futuro, assai poco distante dal presente: secondo le sue previsioni, non si potrà evitare una terza guerra mondiale (e nucleare) o comunque un disastro ecologico di proporzioni planetarie. Il progresso, sia pur con qualche comprensibile difficoltà, ha seguito il suo corso: i viaggi verso i pianeti hanno condotto alla colonizzazione di alcuni di essi, Marte ad esempio (Martian Time-Slip, Noi marziani, 1964), instaurando piccoli paradisi artificiali, senza impedire che gli uomini si portino dietro i loro problemi, la loro cattiva coscienza, i loro demoni (The three stigmata of Palmer Eldritch, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, 1964); e così la bella, nuova, futuribile società degenera verso situazioni forse anche peggiori rispetto a quelle di partenza.
A livello personale, Philip Dick registra le illusioni sociali generate dalle utopie sorte nei campus delle Università statunitensi a partire dal 1964, ma ancor prima i malesseri politici che sorgono all’indomani dell’assassinio di John F. Kennedy: presidenti che somigliano a dittatori (Radio Free Albemuth, Radio Libera Albemuth, 1976-85), figure di matriarche che agiscono dietro le quinte come capi di Stato (I simulacri), rispettabili leader che in realtà non sono altro che robot (A. Lincoln Simulacrum, Abramo Lincoln Androide, 1962-69).
Lo sconfinare, nelle ultime opere, nella «quasi-saggistica» o nell’autobiografia[16], è riscattato, nei racconti e nei romanzi degli anni Sessanta — per Dick il periodo della piena maturità — da una fantasia sbrigliata che accetta l’incoerente, l’onirico e lo sublima in una sorta di «Girotondo» alla Schnitzler. In questo senso si può lodare un capolavoro come Ubik, il cui titolo è derivato dal latino ubique, cioè una sorta di «toccasana» in bomboletta o in lattina, che può essere al tempo stesso un qualsiasi prodotto di largo consumo, pronto al momento «a salvarti la vita», come da sempre assicura la pubblicità: una birra, un bagno schiuma, una zuppa per la cena, un condimento per l’insalata, una crema da barba, la panna montata, un prodotto per le pulizie, un disinfettante orale… un’opera d’arte alla Andy Wahrol e — naturalmente, per chi ha ormai perso la testa dietro a queste cose — «Ubik … il creatore… l’eterno», Dio stesso? Non a caso di questo romanzo lo stesso Dick ha elaborato un’accuratissima sceneggiatura[17], ancora non utilizzata: si presterebbe forse per un film visionario alla Wenders?
Ogni situazione appare sempre spinta all’estremo, sempre sull’orlo del collasso, di una fine che sembra imminente: emblematica è la posizione di un astronauta morente, rimasto in orbita attorno alla Terra dopo un’apocalisse nucleare. Egli è l’unica persona che consente ancora agli uomini di comunicare tra loro e, secondo un certo umorismo, un’ironia tipica di Dick; sembra adattarsi alle vesti di una sorta di disc jockey spaziale lanciando alla fine un ultimo, drammatico messaggio: «“Amici miei, qui è Walter Dangerfield che vi parla e desidera anzitutto ringraziarvi, per il piacere delle nostre conversazioni, lo scambio di idee con le quali siamo rimasti uniti e in contatto reciproco. Temo però che questo mio malessere m’impedisca di continuare. È con vivo dispiacere, dunque, che mi vedo costretto a darvi il ‘passo e chiudo’ per l’ultima volta…”. Continuò a fatica, scegliendo le parole con cura e cercando d’impressionare il suo pubblico il meno possibile. Però disse la verità: che ormai era alla fine e che avrebbero dovuto trovare il modo di comunicare tra di loro, anche senza di lui…»[18]. Ma in realtà il «sopravvissuto» Dick, assieme al suo universo fantastico, continua a vivere, come continua ad andare avanti il nostro mondo, nonostante si trovi sempre sotto la minaccia di catastrofi naturali e di eventi bellici o terroristici al di là di ogni previsione e di ogni pur spettacolare immaginazione.
Fantasie e razionalizzazioni religiose
Più problematico è l’approccio alla tematica religiosa: per Dick, e non solo per lui del resto, sarebbe meglio che il Dio personale, il Dio della fede — ricordiamo che nella sintesi iniziale del mondo di Dick la definizione del divino è quella di «una mente superiore» — non entrasse come «personaggio» nei romanzi, perché crea nell’autore la ricerca, a volte inconsapevole, del mitico deus ex machina e sembra così deresponsabilizzare, ridimensionare automaticamente i personaggi della storia che viene raccontata[19]. D’altro canto, egli si ritiene il soggetto di una speciale «illuminazione»[20], è lettore avido di tutto, e tra gli amici più cari ci sono il cattolico Anthony Boucher (suo mentore, incarnato nel «David» di Valis, che cita in continuazione C. S. Lewis) e il vescovo episcopaliano James Pike. Tra gli autori menzionati nei suoi scritti ci sono Tertulliano, Agostino, Tommaso d’Aquino, Lutero, Spinoza, Jung, Bergson, Martin Buber, Tillich, Teilhard de Chardin, e quindi è inevitabile che affiorino infinite allusioni religiose. Nel suo ultimo romanzo, The Transmigration of Timothy Archer (La trasmigrazione di Timothy Archer, 1982) possiamo leggere una citazione o un’allusione biblica in ogni pagina.
Ripercorrendo dall’inizio il catalogo dell’opera di Dick, troviamo A Glass of Darkness (Uno specchio di oscurità, in italiano La città sostituita, 1956), che allude a una famosa citazione di san Paolo da 1 Cor 13,12, che in una traduzione inglese (now we see through a glass, darkly) suona appunto «ora noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro». Questo spunto riguardante il così penoso percepire, osservare, spiare, vivere, soffrire, curarsi, morire del protagonista è ripreso in «modo ancor più difficoltoso, nebuloso, oscuro, ai limiti del buio completo» (e con grande maestria) in uno degli ultimi romanzi, A Scanner Darkly (Un oscuro scrutare, 1977), resoconto «fedele» di un mondo privo di ogni libertà, regno delle droghe di ogni genere, dove un individuo, più o meno condizionato e alienato (che finisce per scivolare da una personalità a un’altra), non si rende conto (ma fino a che punto?) che il suo lavoro consiste nello spiare se stesso!
Dick ama ogni tipo di paradosso: in The World Jones Made (E Jones creò il mondo, 1956) un fanatico ciarlatano si impone come profeta, salvatore e dittatore universale, grazie al fatto che può predire il futuro fino a un anno di distanza; ma è una perfetta nullità, e l’unica maniera per cercare di diventare «un grande della storia» è quella di morire martire della sua causa, lasciandosi assassinare da due cospiratori, che tentano di ribellarsi al suo potere dispotico. A molti critici letterari viene spontaneo leggere nel protagonista Jones un’allitterazione di «Jesus», anche se il primo è soltanto un falso salvatore, un piccolo profeta da baraccone… e in effetti muove i primi passi della sua breve carriera in un circo.
La disinvoltura con la quale Dick «sciorina» una quantità infinita di citazioni non è quasi mai irriverente: The Penultimate Truth (La penultima verità, 1964) è quella di un gruppo di cinici detentori del potere mondiale che trovano più pratico mantenere ancora tutta l’umanità nei rifugi antiatomici piuttosto di rivelare che la guerra è ormai finita. La verità dello status bellico, che era tale, ma soltanto nei giorni precedenti, non solo si oppone qui a ciò che consideriamo reale, ma a quella «Verità» di cui si parla nel Vangelo di Giovanni e, in genere, alle verità «ultime» per il cristiano. Anche in questo romanzo — che non è tra i più riusciti — è palese il debito con 1984 di Orwell, dove tutta la società è fondata su una terribile e globale menzogna.
Non troppo serio
Galactic Pot-Healer (Guaritore galattico, 1969) è la dimostrazione che gli autori non sempre sono i più idonei a giudicare gli esiti del proprio lavoro. Dick scrisse a proposito di Guaritore galattico (la cui trama era derivata da una sua storia per bambini: Nick e il Glimmund) che rappresentava lo «sforzo di chi, a corto di idee, deve raschiare il barile della sua immaginazione»[21]. Probabilmente si sentiva imbarazzato che una vicenda condita da un infinità di colpi di scena, animata da un linguaggio scoppiettante, avesse il suo momento particolare attorno a un vero, puro e semplice atto di fede: una gigantesca e mostruosa creatura, malata e ferita, riesce a compiere un inaudito miracolo a patto di stringere accanto a sé un piccolo gruppo di animaletti, di «esserini», attirati da ogni angolo della galassia col miraggio di un modesto lavoro; in realtà si tratta di far risalire dagli abissi dell’oceano la mitica cattedrale di Heldscalla, situata sul pianeta del Contadino, che ruota attorno alla stella Sirio. È in effetti il momento culmine del romanzo, ma non si possono dimenticare tanti particolari divertenti, come le continue contumelie del protagonista Joe contro tutti gli oggetti inanimati (porte, telefoni, distributori… ) che gli rispondono per le rime e che si rifiutano di servire nonostante le monete che in modo petulante richiedono, o gli amabili e surreali «conversari» di umani con polipi e pesciolini, come in un recente buon cartoon della Disney, Alla ricerca di Nemo, ad esempio. Più di uno studioso è convinto che se Chesterton avesse ambientato una sua storia nell’anno 2046 e tra i pianeti della galassia, essa probabilmente sarebbe somigliata a Guaritore galattico.
Un titolo ancora, Deus irae (1976): si tratta del frutto di una lunga collaborazione con Robert Zelazny, l’autore di Lord of Light (Signore della luce, 1967) e Isle of the Dead (Metamorfosi cosmica, 1969), esempi «limpidissimi»[22] riguardanti il tema religioso nel contesto della fantasy e della narrativa di anticipazione. Il «Dio dell’Ira» in questione è, come in E Jones creò il mondo, un essere umano, Carl Lufteufel. Costui ha preparato meticolosamente l’olocausto nucleare e poi si è assunto la responsabilità di accendere la miccia. Le radiazioni da lui stesso provocate lo stanno riducendo a una larva umana, ma la sua condizione miserevole è sconosciuta ai più; la sua setta continua a venerarlo e anzi commissiona al pittore Tibor McMaster (una piccola persona, mite e ingenua, priva di braccia e di gambe) un ritratto idealizzato. L’artista, consapevolmente, inizia una sorta di pellegrinaggio umano e spirituale nell’allucinato mondo del «dopobomba»: si muove con uno stranissimo veicolo, semiautomatico, trainato da una mucca, alla ricerca del vero Lufteufel e di un’autentica ispirazione per rappresentarlo nel modo migliore. Tibor è un puro e passa indenne tra mille peripezie e attraverso infinite discussioni filosofiche e religiose, queste ultime oscillanti tra le idee più strampalate di sette pseudocristiane e quelle di una pretesa ortodossia rappresentata dalla confessione episcopaliana e dal cattolicesimo. Gli umani parlano anche qui con esseri di ogni genere, compresi scarafaggi, lucertole e perfino un uccello saggio, ma in realtà ingannevole, «beffeggiatore», di nome Teilhard de Chardin! Tibor «esorcizza» la follia lucida e irredimibile del morente Lufteufel, fa la conoscenza del vecchio Tom, che accetta di posare per il «ritratto» del Deus irae, e soprattutto impara ad apprezzare Alice, una ragazzina minorata, che in questo mondo folle e disperato è l’unica a riuscire veramente a «vedere» e «a trovare la verità»[23]. Il dipinto commissionato alla fine si rivela una splendida rappresentazione sullo stile dei grandi maestri del Rinascimento italiano e non ci sembra rappresentare un «Dio dell’ira», ma un enigmatico «Dio di consolazione». Ma per Dick e Zelazny, se è vero che l’uomo non può vivere senza la speranza in un «Dio pietoso», che conduce tutto a buon fine, non è possibile indicarne un approdo oggettivo e definitivo[24].
In base a questa considerazione sulla religiosità in Dick non comprendiamo come si possa vedere in lui un maestro o una guida religiosa, come una parte della critica letteraria sostiene. È comunque significativo che proprio per un interesse ai problemi religiosi il quotidiano cattolico Avvenire abbia dedicato a Philip Dick una pagina dello spazio culturale «Agorà»[25] in occasione del ventesimo anniversario della morte dello scrittore. Oltre a riconoscerne la fama sempre crescente, ci si chiedeva se Dick avesse inteso fondare un movimento religioso o se i suoi scritti giustificassero i sottotitoli di «Vangelo» e di «Bibbia» dati dai curatori rispettivamente alla sua biografia[26] e al volume che raccoglie i suoi ultimi tre romanzi[27]. Occorre ricordare che negli ambienti della narrativa di anticipazione non è diffusa l’aspirazione a fondare scuole terapeutiche o ad organizzare il fenomeno religioso; se mai, si potrebbe documentare il tentativo di razionalizzare il bisogno dell’uomo verso il sacro e la fiducia di poter comunque spiegare con le scienze positive fenomeni come la nascita o l’evoluzione del cosmo.
Più preciso è l’intervento — nello stesso numero di Avvenire — di Carlo Pagetti, profondo conoscitore dell’intera opera di Dick: «L’attrazione per il fenomeno religioso è costante nel nostro Autore, ma sempre all’insegna di un sentimento ambivalente che va dalla parodia di un generico messianismo all’interesse per l’esoterismo (religioni antiche e orientali), con una speciale attenzione riservata al cattolicesimo (nei Paesi di lingua inglese questa confessione è spesso scelta come ambito preferenziale per itinerari di conversione o di approfondimento spirituale e religioso)».
Sconfinando nella saggistica e nell’autobiografia
La misteriosa e ambigua (per un certo malessere e dubbio che gli causa) «rivelazione» del 2 marzo 1974 (con «appendici» seguenti) costituisce materia dell’imponente Esegesi[28], in gran parte inedita, e dei romanzi degli ultimi anni (a partire da Flow My Tears, The Policeman Said, Scorrete lacrime, disse il poliziotto, 1970-74) con i quali Dick pretende non solo di «ripercorrere» i tratti essenziali della sua parabola umana, ma di proporre la descrizione di un evento di natura soprannaturale che dovrebbe coinvolgere l’intera umanità: quest’opera ambiziosa, benché non nasca come progetto unitario, è stata proposta in italiano come la Trilogia di VALIS[29].
Nel primo romanzo, Valis (1981), si passa in modo emblematico dai presunti influssi sul pensiero e sulla vita umana da parte di un misterioso satellite alieno, chiamato appunto VALIS (Vast Active Living Intelligence System), a una serie di epifanie divine attraverso strane illuminazioni, messaggi radio, amici cattolici che citano in continuazione C. S. Lewis, una sorta di coscienza junghiana convinta di essere vissuta anche al tempo di Gesù, che si esprime quindi nella koinè di quel tempo. Giudicato, assieme a Le tre stimmate di Palmer Eldritch e a Ubik, un capolavoro, Valis ha in comune con questi due titoli lo sconfinare non tanto verso l’irrazionale, ma verso il «non-conseguente»: è come se con una telecamera si volesse riprendere il caos di questo mondo, senza una ricostruzione, un montaggio. Anche i dialoghi hanno una qualità incisiva, ma che tende alla sovrapposizione, un po’ come nei film di Woody Allen, dove i personaggi parlano tutti insieme; una sorta di Babele non visitata dalla Pentecoste cristiana.
Idee e dibattiti
In un’intervista, pubblicata nell’edizione italiana di Radio libera Albemuth, una precedente versione di Valis, Dick — che nel romanzo compare col suo nome, in prima persona — ribadisce che i suoi sono racconti «di idee»[30] (non «tesi») e che si basano prevalentemente sulla caratterizzazione dei personaggi e sull’originalità della trama. Unica eccezione è Un oscuro scrutare, dedicato agli amici malati o morti per droga e scritto perché chi lo legge non abbia assolutamente voglia di prendere o riprendere sostanze stupefacenti. Osserva infatti, drammaticamente, in una nota posta in fondo al romanzo: «Volevano divertirsi [Dick e i suoi amici] ma si comportavano come quei bambini, che giocano per strada, che per quanto possano vedere come ciascuno di loro, l’uno dopo l’altro, rimanga ucciso, travolto, mutilato, annientato, non per questo smettono di giocare… »[31].
Verso la conclusione dell’intervista[32], riguardo sempre alle «idee» di fondo dei suoi ultimi romanzi, Dick ammette di essere convinto che, dopo la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C., «non è successo realmente nulla»: quindi il «Divino» si deve ancora pienamente manifestare e probabilmente lo farà alla grande. Questo è tutto quello che si può ricavare da Dick, che spesso ripete, esageratamente, «dai miei scritti non saprete niente di me»; ed è sostanzialmente in accordo con la «lettura» che stiamo conducendo e con quello che riporteremo degli altri due romanzi della trilogia su VALIS.
Nella Divina invasione (1981) si descrive l’ingresso clandestino nella Terra di un bambino, Emmanuel detto Manny, nato su un lontano pianeta da due esploratori solitari e molto motivati (lei è cattolica e socialmente attiva). L’entità VALIS fa in modo che il bimbo, e poi più avanti il ragazzo, riesca sempre a sfuggire al potere civile e religioso, che congiurano insieme per ucciderlo definendolo «Belial», il Diavolo; in realtà, avendo timore che sia una sorta di «messia». A Manny piace essenzialmente giocare e danzare, come il Bambino Gesù rivelò a Umiliana de’ Cerchi[33]; è accompagnato da un’amica quasi coetanea, Zina, che incarna di volta in volta il Battista, la Sapienza biblica, la Sophia greca, un personaggio simbolico della Cabala, una fata medievale, un’«Ermione» simile all’amica di Harry Potter e così via. Oltre a Manny e Zina, questa «Divina invasione» comprende anche Elias, un anziano «tuttofare», esperto in travestimenti, che risolve le situazioni più ingarbugliate. Alla fine, il vero Belial viene quasi fatto a pezzi dalla voce di Linda Fox, una cantante straordinaria che ha un repertorio molto vasto, dal Rinascimento fino ai contemporanei e al pop, conosciuta dal padre di Manny che gestisce un negozio di dischi, come un tempo aveva fatto lo stesso Dick, da commesso.
Ai nostri lettori apparirà fin troppo scoperto il ricalco, anche se paradossale e fin troppo «immaginifico», della vicenda del vero Messia dei cristiani. Quasi come correttivo a tanto simbolismo, nel romanzo successivo, La trasmigrazione di Timothy Archer (1982), Philip Dick accetta la sfida di mettersi completamente in gioco, narrando fatti che lo hanno coinvolto circa dieci anni prima, accettando quindi in modo lucido non solo di sconfinare prima nella «meta-fantascienza»[34] (qui manca il riferimento extraterrestre a VALIS, l’intelligenza superiore che guida le vicende umane) e poi nella vera e propria autobiografia. Ciò ha riscontro in una non consueta, per Dick, linearità di esposizione, di scorrevolezza del testo: diviene così relativamente agevole seguire gli ultimi mesi della vicenda terrena del vescovo episcopaliano James «Jim» Pike (nel romanzo è chiamato Timothy «Tim» Archer), una figura che potremmo alla lontana paragonare a quella del vescovo cattolico Fulton Sheen. Pike ebbe una parte di rilievo nell’evoluzione culturale e spirituale di Philip Dick[35], ma più avanti entrò egli stesso in crisi, ebbe una relazione extraconiugale e subì un processo nella sua comunità sia per le sue idee sia per la sua moralità. Jim Pike venne a mancare in circostanze poco chiare in Israele nel 1969, mentre era alla ricerca di una sua verità.
La trasmigrazione di Timothy Archer sembra essere un rendiconto fedele di fatti raccontati in prima persona dalla nuora di Archer, nella quale curiosamente si cela Dick, dando spessore per la prima volta alle figure femminili, che nei suoi racconti invece sembrano vuote silhouettes — benché per i lati esteriori appaiono come uscite dalla matita di disegnatori di valore — come gli rimproverò Ursula Kroeber Le Guin, la maggior autrice statunitense (e mondiale) di narrativa di anticipazione, che lo aveva in precedenza paragonato addirittura a Borges: «Abbiamo anche noi, qui in America, un Borges e non ce ne siamo accorti»[36].
Angel Archer ha sposato Jefferson «Jeff» Archer, figlio del vescovo Tim Archer: Jeff muore suicida all’epoca dell’assassinio di John Lennon negli Stati Uniti (1980). Angel è molto lucida nel descrivere i pensieri e i sentimenti di Jeff («mancava di gioia, di interesse alla vita»[37]) e, man mano, degli altri personaggi: il senso di colpa di Kirsten[38], l’amante del vescovo Archer; gli slanci affettivi e le confusioni mentali di Bill[39], il figlio di Kirsten; le convinzioni, i ripensamenti, i dubbi del suocero, da lei definito «il più famoso vescovo dell’era moderna»[40]. Quando giunge la notizia della morte di Tim Archer, che si aggirava incautamente nel deserto di Giuda, dalle parti delle grotte di Qûmram, Angel trova subito pace, perché si sente confermata nella convinzione che il suocero, benché dichiarasse di non aver più tanta fede, ricercasse invece con sincerità quella «Verità» — proprio con la «V» maiuscola — che è al fondamento della figura umana di Gesù. Sentimenti positivi circa la sorte di Timothy Archer e dei suoi parenti[41] sono comunicati ad Angel anche da un certo prof. Edgar Barefoot, esperto di filosofia, teologia e musica, che alla fine le dona simbolicamente un raro disco: la musica è capace di autentica consolazione. A chi scrive piace pensare che la stessa sorte serena sia riservata a Philip Dick, che dopo poche settimane dalla conclusione del romanzo fu colpito da un ultimo attacco di cuore. Suo padre, Edgar, volle che riposasse a Fort Morgan, nel Colorado, accanto alla sorellina gemella Jane, sopravvissuta per soli 40 giorni al parto.
Conclusione
Al termine di questa carrellata sull’opera letteraria di Philip Kendred Dick non possiamo dirci sicuri di avere con esattezza «fatto quadrare il cerchio». Abbiamo visto, a proposito di Un oscuro scrutare, che egli è capace anche di testimonianze realistiche, drammatiche, firmate in prima persona, qui sugli effetti della droga. Rimane però sempre lecito chiedersi: l’esperienza del protagonista Fred è stata vissuta così come è stata narrata o la droga ha favorito il triplice moltiplicarsi della sua personalità, ha favorito la complessa costruzione della trama del romanzo degna del migliore genere noir? Le stesse considerazioni si possono applicare a La trasmigrazione di Timothy Archer: si tratta veramente di una sorta di resoconto fedele di un itinerario di ricerca esistenziale e spirituale oppure gli ingredienti della fantasia aggiungono quel tanto di elementi che possono convincere alcuni lettori che si tratti, in fin dei conti, soltanto di una commedia ben congeniata?
Proprio riguardo alla Trilogia di VALIS Giuseppe Lippi, curatore di alcune prestigiose collane di fantasy e di fantascienza, conclude attorno ai romanzi di Philip Dick un lungo viaggio sul tema «teologia e fantascienza»: «In realtà Valis e i suoi seguiti sfuggono ai facili incasellamenti e alle conclusioni superficiali»[42], e rimanda allo spessore e alla complessità di un’altra trilogia famosa (Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra, Questa orribile forza) che negli anni Quaranta contribuì alla fama di C. S. Lewis, autore per altro delle Lettere di Berlicche.
Dick quindi non si presta a semplici giudizi conclusivi e a tutto tondo. Anche a proposito dell’affermazione successiva alla iniziale sintesi sul mondo di Dick, cioè che egli avrebbe meritato il Nobel per «la forza simbolica e la carica [metaforica del suo] grandioso affresco dell’universo», qualcuno potrebbe obiettare che un tal premio sarebbe piuttosto spettato a Isaac Asimov, il più famoso autore di fantascienza, oppure a James Ballard, per le sue lucidissime e spietate analisi del comportamento umano, o ancora a Ursula Le Guin, per la sua fine ed elegante vena poetica, o perfino a qualcuno dei più giovani scrittori come Iain Banks, abilissimo nel passare da un genere all’altro e nel creare mondi alieni con una vastità e una fantasia strabiliante. Partecipando a qualcuna delle convention sul tema della fantascienza, Philip Dick amava piuttosto scherzare e non rispondere a tono e seriosamente alle domande che gli venivano rivolte. Nel contesto però di una disamina genuina e disinteressata dell’intera sua produzione, meriterebbe senz’altro più di un giudizio definitivo e di valore sulla sua arte, uno studio senza pregiudizi, una discussione, perfino un dialogo attorno a quelle che egli chiamava le sue «idee»: siamo certi che ne sarebbe contento.
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Riproduzione riservata
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[1] L. SUTIN, Divine invasioni: la vita di Philip K. Dick, Roma, Fanucci, 2001, 15.
[2] Dick nasce a Chicago il 16 dicembre 1928. Fin da giovanissimo è diviso tra la passione per la musica e la letteratura fantastica; poi a 23 anni vende il suo primo racconto fantasy e a 26 pubblica il primo romanzo, Solar Lotter (Il disco di fiamma). Pur non riuscendo a vivere un’esistenza agiata, si mantiene con gli introiti dei suoi scritti. Con alle spalle genitori divorziati, passa per cinque matrimoni, senza un approdo che lo soddisfi appieno. A 11 anni, da Washington va a vivere a Berkeley, dove poi frequenta l’Università della California e partecipa ai turbamenti della realtà sociale degli anni Sessanta: delle sue molte esperienze si trova una vasta eco nei suoi romanzi. Proprio quando la sua consacrazione a scrittore di successo sta per divenire realtà, la sua salute, minata dall’eccessivo lavoro, dall’abuso di farmaci, da strapazzi di vario genere, ha un crollo: muore il 2 marzo 1982.
[3] Cfr P. K. DICK, Il sogno dei simulacri, a cura di G. VIVIANI – C. PAGETTI, Milano, Nord, 1989, 41 e 51.
[4] Ivi, 5.
[5] Ivi.
[6] L. SUTIN, Divine invasioni, cit., 23.
[7] Nell’Enciclopedia della Fantascienza, a cura di G. MONTANARI, Milano, Mondadori, 1986, 142-143, accanto alla famosa «Trilogia del dr. Ramson» si possono citare altri nove titoli del genere fantastico, alcuni dedicati alla narrativa per l’infanzia.
[8] Sui problemi relativi allo spazio interiore vedi G. ARLEDLER, «James Graham Ballard», in Letture, ottobre 1990, 685-698.
[9] Dick, fra l’altro, è stato l’«inventore» del telefono cellulare, del computer portatile, dell’applicazione delle scoperte della genetica alla trasformazione di organismi umani (cfr P. K. DICK, Mutazioni, Milano, Feltrinelli, 1996, 135 s).
[10] Cfr F. FERZETTI, in Il Messaggero, 27 settembre 2002.
[11] Cfr S. COFFERATI, «Introduzione», in P. K. DICK, I Simulacri, Roma, Fanucci, 1998, 10.
[12] Cfr A. ZACCURI, «Spielberg e il libero arbitrio», in Avvenire, 25 settembre 2002, 28.
[13] Cfr F. CAPRARA, «Un detective fantascientifico», in Polizia moderna, agosto 2002, 62 s.
[14] Cfr G. FOFI, «Philip K. Dick: così la fantascienza diventa ancor più vera del vero», in Panorama, 10 ottobre 2002.
[15] Sul rapporto tra infanzia infelice e attività di un famoso scrittore del genere fantastico vedi G. ARLEDLER, «James Graham Ballard», in Letture, cit.
[16] Cfr ancora P. K. DICK, Il sogno dei simulacri, cit., 25-33; 115-125.
[17] Si veda la seconda parte dell’edizione Fanucci del 1998.
[18] Cfr P. K. DICK, Il sogno dei simulacri, cit., 9.
[19] Cfr ID., Mutazioni, cit., 260-320, 321 s.
[20] Cfr L. SUTIN, Divine invasioni, cit., 25-27. 47. 69. 300-305 s.
[21] Ivi, 342.
[22] G. MONTANARI (ed.), Enciclopedia della Fantascienza, cit., 172.
[23] N. VALLORANI, «Postfazione», in P. K. DICK, Deus Irae, Roma, Fanucci, 2001, 249.
[24] Cfr ivi, 239.
[25] Cfr A. ZACCURI, «Dick di culto o il culto di Dick?», in Avvenire, 28 febbraio 2002, 22.
[26] Si tratta di un video sulla vita di Dick allegato al volume di Sutin più volte citato. Anche un prossimo film avrebbe come titolo provvisorio The Gospel of Philip Dick.
[27] Cfr P. K. DICK, La trilogia di VALIS, Milano, Mondadori, 1993.
[28] Cfr L. SUTIN, Divine invasioni, cit., 24, specialmente 299-305.
[29] I romanzi sono nell’ordine: Valis (1981), The Divine Invasion (Divina invasione, 1981), The Transmigration of Timothy Archer (La trasmigrazione di Timothy Archer, 1982). In seguito sono apparsi in volumi singoli negli Oscar Mondatori, ma noi citeremo ancora l’edizione italiana originaria.
[30] D. DE PREZ, «Intervista con Philip K. Dick», in P. K. DICK, Radio libera Albemuth, Roma, Fanucci, 1996, 239 s.
[31] P. K. DICK, Un oscuro scrutare, ivi, 2004, 359.
[32] D. DE PREZ, «Intervista con Philip K. Dick», cit., 250 s.
[33] Vedi G. POZZI – C. LEOPARDI (edd.), Scrittrici mistiche italiane, Genova, Marietti, 1988, 87.
[34] P. K. DICK, Il sogno dei simulacri, cit., 25-33; 35-41.
[35] Dick si preparò alla Confermazione in età adulta.
[36] G. MONTANARI, Enciclopedia della Fantascienza, cit., 72.
[37] P. K. DICK, La trilogia di VALIS, cit., 444.
[38] Ivi, 457.
[39] Ivi, 463 s.
[40] Ivi, 404.
[41] Ivi, 572.
[42] G. LIPPI, «Fantascienza e teologia unite nella ricerca di Dio», in Letture 69 (2004), dicembre, 24.