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Il viaggio di Papa Francesco in Terra Santa, compiuto dal 24 al 26 maggio scorso, è stato un evento ricco di gesti e di incontri dal sapore spirituale, ecumenico e di auspicio di pace in una regione tanto tormentata[1]. Il Medio Oriente è una terra ricchissima di storia che cristiani, ebrei e musulmani sentono come la propria casa. Oggi è sconvolta da una crisi tremenda dove crimini efferati vengono compiuti dall’Isis in nome di un dio sanguinario. Non bisogna cedere alla tentazione di considerare questa una «guerra di religione». Anzi, proprio in questo contesto possiamo tornare a quel viaggio, avvenuto all’insegna dell’invocazione della pace.
In Terra Santa il Papa ha voluto avere con sé due amici argentini, il rabbino Abraham Skorka e il dottor Omar Abboud, già segretario del Centro islamico di Argentina. Il gesto voleva evidentemente dimostrare che è possibile «camminare insieme» e dialogare anche nella Terra Santa. A rappresentare profeticamente il significato di questo incontro fraterno è stato l’abbraccio davanti al Muro occidentale di Gerusalemme con il rabbino Skorka e il dottor Abboud. Il gesto, indimenticabile, non ha risposto a esigenze protocollari, né ha avuto un significato puramente simbolico. È accaduto che tre amici, che si conoscono da molti anni, uno cristiano, uno musulmano e uno ebreo, si sono abbracciati realmente e con affetto sincero in un luogo dall’altissimo valore spirituale.
L’abbraccio di Gerusalemme è diventato quindi icona dell’amicizia, in una terra che vive quotidianamente l’inimicizia e la tensione. E questo abbraccio è stato seguito da un altro abbraccio di Papa Francesco, avvenuto questa volta in Vaticano, l’8 giugno successivo, domenica di Pentecoste, con il presidente Shimon Peres e il presidente Mahmud Abbas, ai quali il Pontefice, durante il viaggio in Terra Santa, aveva rivolto l’invito a ritrovarsi a pregare per la pace proprio a casa sua.
Ma di lì a pochi giorni, il 12 giugno, nei pressi del villaggio di Halhul, vicino Hebron in Cisgiordania, sono stati rapiti tre ragazzi israeliani: Eyal Yifrah di 19 anni, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel di 16 anni. I tre ragazzi sono stati trovati morti il 30 giugno. Il 2 luglio il cadavere di Mohammed Abu Khdeirun, un ragazzo palestinese sedicenne, è stato ritrovato in un bosco di Gerusalemme. La sua morte è stata intesa come una ritorsione per l’uccisione dei tre ragazzi ebrei. La famiglia di uno dei tre, Naftali Fraenkel, ha immediatamente condannato l’episodio: «Se un giovane arabo è stato ucciso per motivi nazionalistici è un atto orrendo e orribile», ha dichiarato lo zio del giovane. Poi ha aggiunto: «Non c’è differenza tra sangue arabo e sangue ebraico. Per un omicidio non ci può essere scusa o giustificazione». Ma questi eventi hanno innescato nuovamente una spirale di violenza, dopo l’abbraccio di pace che aveva dato speranza.
In molti si sono chiesti se ciò che era accaduto davanti al Muro occidentale e poi in Vaticano non fosse stato vanificato da questi omicidi. D’altra parte altri, e tra questi proprio il rabbino Skorka, hanno affermato che «quello che sta succedendo in nessun modo certifica il fallimento dell’iniziativa di papa Francesco», ma, al contrario, «conferma drammaticamente che bisogna continuare a generare ancor più gesti di incontro perché il coraggio prevalga sull’odio irrazionale». Del resto, ha proseguito il rabbino in una intervista, «pregare non mette fine alle situazioni di conflitto — per questo servono le azioni —, ma ha la forza di ispirare cambiamenti di mentalità che sicuramente, con la benedizione di Dio, permetteranno la costruzione di un mondo migliore»[2]. Il rabbino Skorka ha rilasciato alla nostra rivista una lunga intervista su questi temi[3].
Di recente ho incontrato anche Omar Abboud. Con lui il Papa e il rabbino hanno vissuto il gesto profetico di pace. E proprio con lui, quindi, ho voluto rievocare quel momento e ragionare, sulla base della sua esperienza, sul Medio Oriente, sul Papa, sulle sfide aperte per la religione in un tempo di tensioni e conflitti. L’ho incontrato a Buenos Aires lo scorso 31 luglio. L’appuntamento era stato fissato vicino al Monasterio Santa Catalina de Siena su Avenida Córdoba. La percezione al primo incontro è stata di una cordialità immediata e spontanea. Facciamo quattro passi per pranzare insieme tra Tucumán e San Martín. Il nostro dialogo entra subito a un livello profondo. Era stato preceduto solamente da qualche scambio di posta elettronica. Il dottor Abboud mi parla della sua famiglia di immigrati arabi, siriani da parte di madre e libanesi da parte di padre. La sua educazione islamica deriva da una combinazione delle due famiglie, diverse per caratteristiche e per esperienze.
«Sono stato allevato nella casa della mia nonna materna, che non sapeva né leggere né scrivere — mi dice —, ma era un’espressione vivente di ciò che significano la pietà e l’amore. Sapeva recitare a memoria la maggior parte del Corano, ma, meglio ancora, sapeva viverlo e interpretarlo con azioni concrete. Non l’ho mai sentita lamentarsi, nemmeno mentre moriva in seguito a una malattia lunga e crudele». In occasione di questo ricordo mi viene in mente anche Rosa, la nonna di Jorge Mario Bergoglio, che ha avuto tanta influenza sulla visione della vita e sulla religiosità del futuro Papa.
La nostra conversazione è avvenuta con calma condividendo cibo, esperienze e idee. Ma non è certo bastato quel tempo. È proseguita qualche giorno dopo, il 4 agosto, nell’appartamento del dottor Abboud a Caballito. Noto l’arredamento moderno, di buon gusto, che si sposa a elementi classici di evidente fattura araba. Tra l’altro anche strumenti musicali e tanti libri. Sfioro con gli occhi e con le dita gli scaffali.
Presto mi imbatto in libri che non avrei mai immaginato di trovare come, ad esempio, tutti i volumi di Mysterium Salutis, la grande opera sui fondamenti di una dogmatica della storia della salvezza. E poi anche volumi di mistica cristiana e sulla Bibbia. Non posso astenermi dal chiedere il motivo di quei libri. Mi risponde che sono tutti regali di un unico donatore: Jorge Mario Bergoglio. «A un certo momento — mi dice Abboud — ha cominciato a dar via le sue cose, i suoi libri agli amici». Quei volumi aveva pensato di darli a lui. E lui li conserva gelosamente e con affetto. Gli chiedo se non ha avvertito che quei doni fossero strani per un musulmano. Mi risponde: «C’è un detto islamico: la sapienza si beve senza considerare il recipiente che la contiene. Il libro è sempre un regalo prezioso. I libri sulla mistica? La mistica è uno spazio in cui gli interlocutori che professano un dialogo interno alla ricerca della comunione personale con Dio parlano la stessa lingua, possono intendersi».
Abboud è anche nipote del primo musulmano che tradusse il Corano dall’arabo allo spagnolo, il nonno Ahmed Hasan Abboud, nato in Libano da padre iracheno, fondatore di una casa editrice che si chiamava «Arábigo Argentina El Nilo», il principale marchio editoriale nato in America Latina su temi arabistici e islamici. Quest’uomo è vissuto ed è morto tra i libri come un maestro venerato e amato. «La mia formazione sui temi islamici ha avuto molto a che vedere con lui», mi dice. Quindi mi mostra la prima edizione del Corano curata dal nonno. La sfoglia accarezzandola e poi me la passa come un oggetto prezioso. Quindi andiamo nella cucina soggiorno. Lui accende una sigaretta, mentre prepara per me un caffè turco. Riprendiamo il discorso da dove l’avevamo interrotto al ristorante. Comincio a dialogare con lui proprio a partire dalla figura di suo nonno.
Che cosa avrebbe pensato suo nonno dei tentativi di dialogo interreligioso?
A mio nonno è toccato vivere in un secolo particolarissimo riguardo alla situazione dei musulmani nel mondo, i loro conflitti e la loro geopolitica; mi sono chiesto molte volte che cosa avrebbe pensato di queste iniziative. Ho trovato la risposta nel prologo alla terza edizione del Corano in spagnolo del 15 marzo 1980: «E per ciò che tocca il nucleo della questione, seguendo le direttive dei maestri specialisti in materia, abbiamo tenuto in gran conto di essere informati quanto più possibile sul contenuto dell’Antico e del Nuovo Testamento, ai quali il Corano vuole servire da restauro e conferma. E per la stessa ragione ci siamo preoccupati di arricchire questa terza edizione con numerosi inserti preliminari, diversi dei quali comprendono accurati studi biografici sui principali profeti biblici che hanno preceduto il grande Profeta dell’Islam. Naturalmente abbiamo messo cura speciale nel descrivere la vita e il carattere di Abramo, Gesù Cristo e Maometto, affinché risulti più chiaro il vincolo di fratellanza che lega i Musulmani con gli Ebrei e i Cristiani. Forse che essi non sono i seguaci delle tre grandi religioni monoteiste del mondo, sorte da un unico tronco comune? Il lettore devoto troverà anche, in alcuni di questi saggi introduttivi, un motivo di intimo compiacimento per i delicati e rispettosi concetti che vengono espressi riguardo alla Vergine Maria, la Madre di Gesù Cristo, il grande messaggero di Dio, in accordo con la più autentica tradizione musulmana».
E conclude: «In questo momento decisivo per le religioni, mi sono sforzato anche di trasmettere, attraverso il Sacro Corano, la radicale convinzione che tutti noi, oltre qualsiasi tipo di frontiera, siamo fratelli in Dio, solidali nella fondamentale vocazione di percorrere in questa vita tutte le strade legittime per costruire un mondo migliore, e meritare in questo modo la pienezza divina dell’altra vita».
La sua formazione è stata influenzata da questo respiro ampio, da questa visione aperta, immagino…
La mia formazione su temi islamici proviene da molte fonti: l’ho ricevuta in casa con i miei nonni, da autodidatta, e con varie persone formate nell’Università al-Azhar. Da molti decenni in Argentina c’è sempre un imam che vi ha ricevuto la sua formazione. Ho studiato le letture classiche della nostra religione, e ho esplorato anche autori come René Guénon, Titus Burkhardt, il gesuita Félix María Pareja, Lévi-Provençal, Dozy, González Palencia e tanti altri islamologi europei che hanno lavorato sulla civiltà islamica.
E con questa formazione lei ha assunto ruoli di responsabilità nella comunità islamica e non solo…
Per quanto mi riguarda dal punto di vista personale, sono un dirigente comunitario del gregge islamico in Argentina. Pur avendo ricoperto il ruolo di segretario generale del Centro Islamico e anche dell’Associazione araba argentina islamica, mi sento un membro qualsiasi della comunità, benché la mia visione delle prospettive islamiche nel mondo attuale sia per qualche aspetto differente. Non sono né un imam né uno sceicco e non ho mai pensato di diventarlo, vale a dire di dedicarmi completamente a dirigere gli atti di culto.
Sebbene nella più pura dottrina islamica non esista qualcosa di simile al clero, nel mondo moderno si è soliti associare queste figure a quella del sacerdote. È un errore che anche alcuni musulmani alimentano.
D’altra parte, da anni lavoro nelle politiche pubbliche nell’ambito della municipalità di Buenos Aires. Tra gli incarichi che ho svolto ci sono stati quelli di direttore dell’Economia sociale, sottosegretario alla Promozione e integrazione sociale, ministro dei Diritti umani e sociali e presidente dell’Istituto per l’edilizia sociale. Attualmente dirigo una società statale che si chiama Corporación Buenos Aires Sur e si dedica allo sviluppo sociale e commerciale della zona più svantaggiata della nostra città.
Ha qualche ricordo particolare di Papa Francesco quand’era arcivescovo di Buenos Aires?
Ho molti ricordi, bellissimi e anche edificanti. In alcuni momenti difficili della mia vita egli ha saputo pronunciare la parola giusta che mi ha permesso di affrontarli meglio. È stato sempre attento e affettuoso. Molte delle volte in cui sono andato a trovarlo in questi ultimi anni è capitato che gli orari coincidessero col momento di rompere il digiuno durante il mese del Ramadan, e lui ha sempre fatto caso a questa situazione servendomi acqua, caffè e qualcosa da mangiare. Non è una cosa trascurabile, e l’ho sempre presa come un grande gesto di rispetto.
Potrei dire molte cose anche di ciò che ho imparato. È difficile scegliere un ricordo, ma una volta l’ho invitato a dare una conferenza in un luogo dove si riuniva un gruppo di nome Concepto. Si trattava di un discorso di un paio d’ore, con successive domande del pubblico. C’era un pubblico variegato, tra cui anche dirigenti comunitari, funzionari, sindacalisti. Egli scelse di parlare del tema «Umanesimo e politica». Dopo una trattazione magistrale, che fece riferimento a temi sociali e dottrinali cristiani, vennero le domande del pubblico. Alcuni volevano semplicemente presentarsi, altri fecero interventi autoreferenziali, e infine altri fecero domande. Un signore in apparenza molto colto e provvisto di un linguaggio forbito gli chiese perché la delinquenza si diffondesse di più nei quartieri poveri della città. Bergoglio lo guardò fisso e gli rispose: «Sa, quello che davvero accade negli altri quartieri è che hanno avvocati migliori». Con fine umorismo replicò a una domanda ricorrente in quanti cadono nella faciloneria di criminalizzare la povertà.
Vi siete visti dopo l’elezione? Che cosa vi siete detti? Come l’ha trovato?
Ho avuto il privilegio di vedere Sua Santità dopo l’elezione: mi ha ricevuto in forma privata e anche accompagnato da un gruppo di quarantacinque argentini, con i quali, a febbraio di quest’anno, ho fatto un viaggio in Terra Santa. L’ho trovato sempre lucidissimo e con un grande equilibrio di credente. Quando ci si incontra con Sua Santità, è lui a rendere facili le cose. Si pensa alla sua investitura e che si tratta del Papa, ma ad apparire è sempre l’essere umano. E non mi sorprende. Molte cose che attirano l’attenzione del mondo nel suo agire, sono abituali per noi che l’abbiamo visto svolgere la sua attività pastorale a Buenos Aires. Tra esse, la vicinanza alle persone.
Sì, mi sono messo a pensare al ruolo che ha assunto. È sempre stato una persona al servizio delle altre, come dev’essere un sacerdote, ma al tempo stesso una persona libera. Per esempio, per lo più, si spostava da solo e con i mezzi pubblici: per convincerlo a farsi accompagnare o riaccompagnare da un posto, bisognava cominciare a insistere un mese prima, e nemmeno questo garantiva che avrebbe accettato. Ovviamente, dopo essere stato eletto Papa, queste abitudini sono cambiate. Non credo che al mondo ci sia un’altra circostanza che possa produrre tanti cambiamenti repentini in un uomo come il fatto di assumere il ruolo papale. Tuttavia, malgrado queste circostanze, l’ho trovato al meglio di sé.
Siete andati insieme in Giordania, in Palestina e in Israele: lei ha avuto una parte nel concepire questo viaggio? Come ne è venuto a conoscenza?
Non ho avuto un ruolo particolare nel progettare questo viaggio. L’ho appreso dai media argentini, e ho saputo che vi avrei partecipato in prima persona nel corso dell’incontro che citavo prima, con la delegazione argentina di ebrei, cristiani e musulmani: durante l’udienza il Papa ci disse che nella visita in Terra Santa sarebbe stato accompagnato da un seguito di cui avrebbero fatto parte per la prima volta un ebreo e un musulmano. Al momento di congedarci, mi ha detto: «Il musulmano sei tu». Se dovessi scegliere una parola per descrivere quel momento, credo che sarebbe «perplessità». In un’altra situazione avevo già accompagnato Jorge Bergoglio in varie attività interreligiose nel nostro Paese, ma mai in una di tale importanza. In momenti come quello ci si può soltanto raccomandare a Dio e mettere la migliore delle intenzioni per cercare di essere all’altezza delle circostanze. Sinceramente non ho mai pensato che la mia presenza rappresentasse l’insieme dei musulmani, perché le realtà che viviamo con altri miei fratelli nella fede sono diverse. Piuttosto ho capito che la mia partecipazione, come anche quella del rabbino Skorka, nell’accompagnare Papa Francesco, rappresentava una visione del dialogo interreligioso, che nel mondo attuale è un dialogo imprescindibile.
La sfida più grande di quanti condividiamo questa visione di dialogo, a volte, non è sedersi con coloro che praticano una religione diversa, ma piuttosto sedersi e convincere coloro che praticano la propria.
Può descrivermi come ha vissuto questo viaggio: le sue emozioni, le sue idee, le sue prospettive?
Per quanto si possa essere temprati, è difficile immaginare una qualche preparazione a un’esperienza come quella di partecipare a una visita facendo parte della comitiva papale, tanto più se il viaggio ha come meta luoghi come la Giordania, la Palestina e Israele. In termini emozionali, ciascuna tappa del viaggio mi ha destato sensazioni differenti. Nella storia sacra tutta quell’area rimanda alle Scritture rivelate; col percorso di questo viaggio mi sono permesso di pensare alla costruzione di un presente sacro in cui le leadership religiose possano diventare veicoli per costruire la pace e la giustizia di cui quei luoghi hanno tanto bisogno.
Camminando accanto al Papa Francesco nella spianata delle Moschee, all’incontro nel Santo Sepolcro col Patriarca, o al Kotel o Muro di Buraq, come noi musulmani lo chiamiamo, mi è venuta in mente una domanda che mi gira in testa da molto tempo: Qual è il più sacro di questi luoghi? Sicuramente ciascuno di noi ha una risposta diversa, ma sarebbe sensato cominciare a pensare che l’atto di adorazione che ciascuno esprime marca la stessa realtà per tutti, indipendentemente dalle forme o dalla lingua che s’impiegano.
L’abbraccio di voi tre, Papa Francesco, il rabbino Skorka e lei, ha avuto un alto valore simbolico: come l’ha vissuto, che cosa ha pensato in quel momento?
Di sicuro l’abbraccio davanti al Muro è stato un gesto tra i più emozionanti del viaggio. In quel preciso istante ho cercato di sospendere il dialogo interiore e credo che quel momento sia stato un riflesso di quello che mi piace chiamare «Gerusalemme o Quds celeste». Se questa città sacra è stata ed è, per le tradizioni monoteiste, testimone di innumerevoli divergenze, la sua proiezione in termini metafisici è sicuramente un luogo di incontro.
Trascorso il momento così speciale dell’abbraccio con Papa Francesco e col rabbino Skorka, sono nate alcune riflessioni. Penso che il Papa inauguri forme comunicative di alto valore. Molte volte diciamo che un’immagine vale più di mille parole. Ma molte volte centinaia di immagini non valgono né un concetto né un’idea. Il Papa genera immagini concettuali, di un altissimo valore simbolico, ma che invitano anche alla riflessione profonda. Lo stesso fa con i silenzi: il suo linguaggio dei silenzi quasi ti obbliga a un tipo di intensa introspezione che ti mette in contatto, in modo naturale, con la realtà che egli vuole esprimere.
Lei pensa che quel gesto, alla luce dei recenti eventi di Gaza, sia stato inutile? Quel gesto è ancora vivo?
Non posso rappresentare un musulmano che vive a Gaza. Lo accompagno nel dolore, ma io vivo una realtà completamente diversa. Tuttavia, detto questo, io credo che il nostro abbraccio, in realtà, abbia più valore adesso che nel momento in cui è stato compiuto. Ha avuto un impatto nell’immaginario. Per ogni bomba che cade ci sono feriti, morti, ma essa alimenta anche l’odio tra chi rimane in vita. Il nostro gesto, che è stato anche un simbolo, indica un altro cammino, un’altra dimensione. Noi lì, davanti al Muro, eravamo tre amici. La nostra è stata la testimonianza di un’altra possibilità.
L’abbraccio dovrebbe essere ricordato tutte le volte che in quella terra muore una persona, chiunque essa sia, se muore a causa del conflitto. Più la pace è lontana, più deve essere perseguita. La perdita della vita è irreparabile. Non c’è modo di recuperarla. La vita è unica. Non c’è modo di restituire alla madre il figlio ucciso. Questa ferita non si può sanare. In ogni caso io penso che il nostro gesto sarà utile, sarà significativo per il futuro. Quel gesto, grazie agli uomini di pace che ci sono in tutte le religioni, si moltiplicherà e genererà altri gesti simili. Gerusalemme ha sofferto il sangue degli innocenti. Il Papa, nel viaggio come nella preghiera per la pace, ha mostrato un nuovo cammino.
Lei ha parlato di un nuovo immaginario…
Sì, di immagini forti davanti a immagini altrettanto forti di odio e di violenza. Oggi c’è bisogno non solamente di concetti, ma anche di nuove immagini. Abbiamo bisogno di un nuovo immaginario di pace. Il nostro gesto reale è stato anche simbolico e contribuisce a costruire un immaginario di pace. Ma anche quando il Papa si è fermato davanti al muro di Betlemme, il suo messaggio è stato chiaro e ha colpito l’immaginario. Ovviamente c’è chi ha giocato con le interpretazioni, tirando il Papa ora da una parte ora dall’altra. Ma il gesto è là, significativo e chiaro in sé, ed è questo: il Papa ha toccato non la parete di una casa, ma una barriera. Toccare quel muro è stato come toccare la testa di un malato. Quando il Papa leva la mano su un malato, lo fa per benedire, per guarirlo. Quando il Papa ha toccato questo muro, questa barriera, l’ha fatto non per accusare, ma per fare un gesto e una preghiera di guarigione. Così l’abbraccio, il nostro abbraccio, è stato anche un abbraccio di guarigione.
Scegliendo un gesto così leggero, un abbraccio, il Papa ha scelto un gesto più potente di molte parole. L’amicizia, a differenza della diplomazia, per altro importante e necessaria, esclude a priori l’ipocrisia: è un nuovo modo di vedere e di procedere. Che ne pensa?
Sì, è l’elaborazione di una nuova categoria mentale. Il nostro gesto non era l’espressione diplomaticamente concordata e dotata di rappresentatività ufficiale. È stato un gesto di fiducia, di pieno riconoscimento reciproco: ciascuno di noi si è guardato dentro e ha riconosciuto l’altro. Proprio quel gesto va ricordato oggi, in questo momento di tensione.
Tutte le volte che parliamo delle religioni monoteiste, evochiamo il Profeta Abramo come origine comune: invece non siamo ancora riusciti a delineare un destino comune. La famiglia abramitica ha ricevuto in eredità il compito di costruire gli equilibri necessari tra gli uomini. Benché al giorno d’oggi prevalgano alcuni conflitti, simboli come il viaggio o l’abbraccio hanno l’obiettivo di costruire ponti e di offrire segnali di speranza.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ARTE, TRA PASSATO E PRESENTE
Le opere d’arte possono rappresentare ancora uno stimolo per una riflessione sulle tematiche di oggi? Un viaggio in 10 episodi tra le opere di alcuni dei più grandi artisti della storia passata e contemporanea.
In particolare, come vede la relazione tra cristiani e musulmani?
Il Cristianesimo e l’Islam si conoscono da quindici secoli. In termini sia storici sia presenti, ci sono convivenza, tolleranza e anche scontri. La convivenza si dà quando i gruppi costruiscono fini comuni rispetto allo sviluppo della società. La tolleranza viene sempre esercitata sulla base di una qualche forma di potere: vale a dire, quando un gruppo stabilisce i livelli entro cui un altro può essere tollerato. Purtroppo sono esistiti ed esistono anche gli scontri.
Islam e Cristianesimo costituiscono insieme la maggioranza religiosa del mondo: pertanto è una priorità trovare vie di cooperazione e di scambio reciproco. Le due religioni affrontano sfide differenti e alcune simili nei confronti degli interrogativi della modernità. Ma entrambi i gruppi devono evitare di cadere nella trappola che alimenta l’idea di uno scontro culturale e, in definitiva, di civiltà, irreparabile.
Può dirmi qualcosa su come Bergoglio vede i musulmani e il loro ruolo nella società?
Credo che la domanda trovi da sola la sua risposta nelle definizioni che il Papa offre riguardo all’idea di una cultura dell’incontro. Per i musulmani non esiste un ruolo specifico o diverso da quello dei cristiani o di chiunque abbia volontà di costruire una società che aspiri al bene comune.
A volte in termini di prospettiva dobbiamo aver presente che i musulmani e i cristiani, nel contesto del pianeta, non formano blocchi omogenei. Accanto alla nostra specifica identità religiosa abbiamo modi e visioni diversi secondo il luogo in cui abitiamo e la formazione che abbiamo ricevuto. È davvero necessario porre speciale attenzione a come i processi d’integrazione si svolgono in quei luoghi in cui avvengono, per esempio, processi d’immigrazione.
Mi dica: secondo lei, la pace sarà possibile? Quali sono i suoi desideri?
Qualsiasi spinta positiva può aiutare la pace in Medio Oriente. Ogni persona che vi si dedichi attraverso un qualsiasi tipo di preghiera, o semplicemente perché preoccupata per la situazione di quanti soffrono in quella regione, contribuisce alla pace tanto sospirata.
Ma penso che, come dice il Corano, «Allah non modifica la realtà di un popolo finché esso non muta nel suo intimo» (13,11). Per fermare la conflittualità, occorre appellarsi al buonsenso e alla giustizia, questo è essenziale: non ci sarà pace se ciascuno non riceve quanto gli spetta. Diversamente stiamo chiedendo a una delle parti di rassegnarsi a vedere il proprio futuro in maniera incerta. Dobbiamo tenere presente anche che il giorno in cui si raggiungesse un accordo di pace avrebbe inizio un altro processo dedicato a pacificare la propria memoria e a convivere con essa, perché tutti questi anni lasceranno impronte profonde.
La preghiera è d’aiuto. Noi credenti riponiamo la nostra fiducia anche nel fatto di chiedere a Dio la pace. Il mondo non ha ignorato la Giornata convocata da Papa Francesco. Ed è necessario che le autorità religiose si facciano interpreti della questione.
In un’intervista Papa Francesco ha parlato di «accarezzare i conflitti»: le piace questa espressione? Che cosa significa, a suo modo di vedere?
Ho sentito l’espressione. Mi sembra anche la proposta di un esercizio spirituale legato al più intimo dell’anima. Per accarezzare un conflitto bisogna avvicinarvisi, comprenderne le sfumature. La carezza non si dà a distanza, bisogna accostarsi alla realtà in lotta e mescolarvisi, toccarla. Ma non è una composizione semplice, richiede una notevole elevatezza spirituale. Bisogna lavorare per costruirla nel proprio intimo, soprattutto vincendo l’egoismo e molte passioni.
Che cos’è per lei la preghiera?
Nel corso della mia vita la preghiera ha significato molte cose, o per meglio dire ha avuto varie forme. Come si sa, la preghiera è uno dei pilastri dell’Islam, e viene raccomandato di compierla cinque volte al giorno. Questo modo di pregare non comprende soltanto la parola, ma anche movimenti corporei, e si svolge orientando il volto verso la Città Santa della Mecca (molti non lo sanno, ma i primi musulmani si orientavano verso Gerusalemme). Per svolgere quest’atto di culto, sussistono condizioni specifiche, ma a dargli effettivo valore è la intenzione pura. Accade lo stesso per gli altri pilastri della religione: la testimonianza di fede, il digiuno, il contributo sociale o zakat e il pellegrinaggio. L’intenzione appartiene al mondo della realtà interiore della persona, ovvero l’ambito che lei e Dio conoscono.
A partire da un versetto del Corano, ho cominciato ad attribuire alla preghiera un altro tipo di senso: «In verità siamo stati Noi ad aver creato l’uomo e conosciamo ciò che gli sussurra l’animo suo. Noi siamo a lui più vicini della sua vena giugulare» (50,16). La sensazione di vicinanza spinge la ricerca, e la sicurezza della presenza divina nella nostra interiorità ci invita alla riflessione profonda. In qualche modo pregare è imparare a vedere con il cuore, dice il Corano: «Ché in verità non sono gli occhi ad essere ciechi, ma sono ciechi i cuori nei loro petti» (22,46). La preghiera e la supplica danno all’essere umano anche la possibilità di distinguere tra l’amore profano e l’amore divino.
Nella mia vita ho avuto molte esperienze profonde di preghiera, nella moschea al-Ahmad del mio quartiere a Buenos Aires, nella moschea Istiqlal in Indonesia e in un luogo detto Eyup Sultan in Turchia. Ma la mia esperienza più vincolante l’ho avuta nella moschea al-Aqsa, a Gerusalemme. Nella tradizione islamica il Profeta Maometto è asceso al cielo da lì, in quello che noi musulmani denominiamo «il viaggio notturno»; in quel percorso ha potuto conoscere i fatti della vita futura, incontrarsi con Gesù, Mosè e Abramo, la pace sia con tutti loro, e avvicinarsi al trono di Dio; e dopo, in un atto di misericordia, tornare a svolgere la sua missione tra gli uomini. Sulla visione di quel viaggio esistono svariate esegesi.
Credo che si potrebbe vederlo simbolicamente nel suo insieme come una preghiera perfetta: accostarsi a Dio, ricordare i profeti e tornare per servire fra gli uomini.
Ha mai parlato del Corano con Papa Francesco? A suo modo di vedere, ci sono passi del Corano che per lui sono particolarmente significativi? Ce li può raccontare?
Con Sua Santità abbiamo parlato a più riprese del testo coranico, a volte riguardo a passi che contenevano similitudini con la tradizione biblica, e anche sul messaggio proprio del Corano. Parlare di un testo sacro con una persona che ha una visione del mondo diversa è un esercizio appassionante, se si considera che lo scambio è fonte d’informazione.
La questione teologica è parte dell’informazione che ci fa comprendere meglio l’altro, ma non del dialogo interreligioso propriamente detto. Il dialogo tra le religioni non è un’assemblea che si riunisce per vedere chi ha ragione, ma piuttosto è una via per identificare valori e per far sì che questi configurino una cultura che migliori la situazione umana. La relazione di una persona col sacro della sua tradizione è unica: anche le persone che si dicono seguaci di una stessa religione, che leggono lo stesso libro e pregano allo stesso modo, quando si riferiscono al sacro, non necessariamente sentono la stessa cosa. Pertanto anche nello scambio delle conoscenze bisogna avere un particolare rispetto per non entrare in polemica, ma invece ascoltare e cercare di porre la realtà che ci viene espressa nella cornice più vicina alla nostra stessa realtà.
Sempre in questa cornice, in alcune conversazioni che abbiamo avuto quando Francesco era ancora arcivescovo, abbiamo parlato della fine dei tempi nella Bibbia, nel Corano e nelle tradizioni islamiche denominate «hadíth», che sono la seconda fonte per importanza riguardo alla prospettiva dell’Islam. Ricordo di avergli espresso la visione islamica sul secondo avvento di Gesù, la pace sia con lui, così come pure sui segni grandi e piccoli che identificano l’ultimo giorno. Mi ha consigliato un libro che mi ha destato grande interesse per lo studio che stavo svolgendo: Apocalisse, libro della Rivelazione, del professore gesuita p. Ugo Vanni.
E immancabilmente, come in ogni conversazione attenta che possono avere un cattolico e un musulmano, abbiamo parlato anche di Maria, del suo ruolo centrale nel Corano, nel quale è l’unica donna menzionata col suo nome, e dell’amore che noi musulmani le portiamo.
Lei è argentino, come il Papa e il rabbino Skorka. Secondo lei, il dialogo religioso può avere un impatto positivo dal punto di vista sociale, sul popolo di una nazione?
Sono convinto che, dal punto di vista sociale, il dialogo tra le religioni sia uno dei grandi strumenti. L’esempio che le religioni danno sul dialogo può essere raccolto anche dalla politica. È singolare, ma oggi molte volte si verifica il fenomeno opposto: le religioni, con la carica d’identità che implica il fatto di essere vie uniche ed esclusive di salvezza, tendono a promuovere iniziative razionali di dialogo, mentre sotto molti aspetti la politica funziona come una religione assoluta che si rinchiude in visioni univoche. L’essere umano è un essere dialogante e il dialogo è l’atteggiamento religioso per eccellenza. Per un credente la preghiera è il dialogo col Creatore. Il pensiero è il dialogo con se stessi. Il linguaggio è il dialogo con i propri pari. Il rispetto per la natura è il dialogo col resto della creazione.
Stiamo vivendo in tempi difficili. Il terrorismo che si proclama islamico sta seminando morte e distruzione invocando la guerra di religione. La nostra rivista ha già espresso la sua posizione contraria a considerare questa barbarie una guerra di religione, anche se pure alcuni cristiani stanno cercando di avallare questa tesi. Lei cosa ne pensa?
Innanzitutto è bene chiarire una cosa: Islam, Cristianesimo e Giudaismo sono tradizioni religiose che non possono e non devono essere marcate dagli aggettivi «orientale» e «occidentale». È errato identificare il Cristianesimo con l’Europa e l’«Occidente» e l’Islam con l’Oriente o il Medio Oriente. Quindi vengo alla domanda: ciò che purtroppo viene definito «terrorismo islamico» fonda la sua attrattiva a partire dal fatto che mette in relazione una ideologia fanatica con valori e discorsi vicini ai sentimenti religiosi. Tuttavia dobbiamo affermare categoricamente che o si è terroristi o si è musulmani. Non è possibile essere entrambe le cose. Rispondere alla provocazione terrorista in termini di «civiltà occidentale e cristiana» sarebbe poi un errore terribile, in piena sintonia con coloro che provocano gli attentati disumani. Significherebbe che siamo davanti a una guerra tra religioni: affermare questo è terribile. Possiamo parlare di interessi di vario genere, di mercato ammantato di fanatismo religioso, ma non si parli di guerra religiosa, perché questo significherebbe fare il loro gioco. Non possiamo definirli islamici, ma solo criminali. Il terrorista getta discredito sulla religione.
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[1]. Ne abbiamo dato conto sulla nostra rivista in G. Salvini, «Papa Francesco in Terra Santa. L’invocazione per la pace in Vaticano», in Civ. Catt. 2014 II 575-584.
[2]. A. Metalli, «Skorka: sulla pace in Terra Santa il Papa non ha fallito», in Vatican Insider, 14 luglio 2014.
[3]. Cfr A. Spadaro, «Il Papa, il Rabbino, la Terra Santa. Intervista ad Abraham Skorka», in Civ. Catt. 2014 II 359-393.