|
La figura di Ulisse – Odisseo, secondo la dicitura in greco – è sempre stata affascinante per artisti, poeti, letterati, registi cinematografici, che hanno continuato a rappresentare, attraverso le specifiche arti, il senso di quel termine, potremmo dire profetico, con cui Omero, nel Proemio dell’Odissea, presenta e definisce l’eroe greco: πολύτροπον[1] (polytropon), «che ha ingegno versatile, multiforme; astuto, scaltro»[2].
Se di tutti i guerrieri dell’Iliade, da Achille a Ettore, forti per il coraggio e per il senso di sacrificio, nel tempo si è offuscata l’idea di eroicità[3], l’astuzia e l’intelligenza di Ulisse si sono perpetuate nell’immaginario artistico con una vitalità senza tempo, che continua fino a oggi a interrogare tutte le generazioni.
Chi ha dato uno scarto di paradigma, a livello simbolico, del grande viaggiatore greco dalla mente acuta e in cerca sempre di sfide è stato Dante Alighieri, il quale, nel canto XXVI dell’Inferno della Divina Commedia, lo rappresenta come infaticabile ricercatore della conoscenza, che lo condusse al limite del mondo conosciuto, ossia lo stretto di Gibilterra[4], oltre il quale il sommo poeta colloca il monte del Purgatorio. Tralasciando la complessa interpretazione in merito alla collocazione di Ulisse nell’Inferno dantesco e alla colpa dell’essere consigliere fraudolento, ciò che risplende nella figura dell’eroe omerico è quel desiderio di sapere e di conoscere che lo rende simile allo stesso Poeta toscano – quasi che Ulisse, in questo canto, abbia dato a Dante la consegna laddove egli non era riuscito –, come afferma il celebre verso: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»[5].
Dante nella musica popolare
La Divina Commedia è declamata e messa in musica ampiamente nella tradizione popolare, attraverso gare di poetica a braccio, come racconta il musicista ed etnomusicologo Ambrogio Sparagna nella raccolta di canti tradizionali popolari intitolata Convivio. Dante e i cantori popolari: «Edilio Romanelli, poeta popolare originario di Arezzo […] cominciò a cantare alcuni versi della Divina Commedia. […] Edilio mi raccontò che l’opera del “Sommo Poeta” era molto conosciuta e amata fra i pastori. Per cantare Dante, Edilio impiegava diverse linee melodiche che corrispondevano ognuna ad un verso specifico. Questo tipo di modalità musicale viene ancora praticata in Alta Sabina, nell’area di Amatrice, dove i poeti cantano Dante con l’accompagnamento della zampogna che ha la funzione di produrre piccoli interludi strumentali tra una terzina e l’altra»[6].
E così possiamo ascoltare il canto di Ulisse[7] sulle terzine dantesche, composto da Sparagna, che nella linea melodica continua ad avere un moto ondoso, ossia partendo da una nota acuta discende fino a quella più bassa, per poi risalire nuovamente, recuperando così, da un punto di vista melodico, quel finale esclusivo di Dante, che vede l’ondoso mare chiudersi sopra Ulisse e i suoi compagni: «infin che ’l mar fu sovra noi richiuso» (v. 142).
Ulisse tra musica e poesia
Sempre fortemente ispirata all’Ulisse dantesco è la canzone di Vinicio Capossela intitolata «Nostos», tratta dall’album Marinai, profeti e balene (2011). Il termine nostos indica in greco il «ritorno a casa», da cui deriva il sostantivo «nostalgia», quel sentimento di rivivere una situazione passata ma impressa nell’animo e nella memoria; e il nostos per eccellenza è proprio il viaggio di ritorno di Ulisse a Itaca.
Il testo inizia con Né pietà di padre, né tenerezza di figlio, né amore di moglie / Ma misi me per l’alto mare aperto, riprendendo sin dall’inizio i versi del canto XXVI dell’Inferno: «Né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ’l debito amore / lo qual dovea Penelope far lieta […] ma misi me per l’alto mare aperto» (vv. 95-100). Il cantautore sottolinea la spinta irrefrenabile provocata dal desiderio di Ulisse di viaggiare e di esplorare con i suoi compagni, andando oltre il recinto della ragione / oltre le colonne che reggono il cielo. Per il cantante, l’eroe greco è tuttavia preso da una forte tensione interiore: se, infatti, da una parte è spinto verso i limiti del mondo, dall’altra continua a sentire – quasi come un canto di sirena – il nostos, il desiderio del ritorno verso casa, Itaca, che non può mai dimenticare.
Menzionando il nome della patria, Capossela cita un altro testo che parla del ritorno di Ulisse: la poesia Itaca, del greco Konstantinos Kavafis (1863-1933). Se il cantautore dichiara: Itaca ha dato il viaggio, / l’hai avuta dentro, ma non ci troverai nessuno, il poeta greco scrive: «Itaca ti ha donato il bel viaggio. / Non saresti partito senza lei. / Nulla di più ha da darti. / E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso. / Sei diventato così esperto e saggio, / e avrai capito Itaca». Il rientro di Ulisse oltrepassa i ricordi e le aspettative, perché l’esperienza produce un essenziale cambiamento in lui e, quindi, in chi è in continua ricerca esistenziale. Se per Capossela il viaggio stravolgerà a tal punto l’animo dell’eroe greco che al suo ritorno non troverà o riconoscerà nessuna delle speranze attese, per Kavafis, invece, il rientro sarà più delicato, introspettivo: l’esperienza della conoscenza fatta nel mondo sarà stata così profonda che anche la sua stessa casa e il suo stesso desiderio del nostos non riusciranno a essere all’altezza di tale esperienza.
Anche il brano «Odysseus» di Francesco Guccini si confronta con l’Ulisse di Dante, la poesia Itaca di Kavafis e la poesia A Zacinto di Ugo Foscolo. All’inizio il brano presenta un Ulisse che canta, in prima persona, il tempo in cui, prima di partire per la guerra di Troia, era legato alla terra, all’agricoltura: Non appartenevo al mare, […] l’anima mia che è contadina, un’isola d’aratro e di frumento. Itaca diviene l’isola petrosa, ripresa della foscoliana A Zacinto («Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse»), e oggetto di nostalgia. Lo stesso cantautore, originario di Pàvana, si rispecchia in questo Ulisse, in quanto anch’egli è amante della terra, dei luoghi contadini, come rivela anche la sua produzione letteraria – da Croniche epafaniche a Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto –, ambientata nelle colline pavanesi, dove egli continua ad abitare.
Ma Ulisse è richiamato dal mare, e così le navi costruii di forma ardita / concavi navi dalle vele nere e nel mare cambiò quella mia vita. Guccini dimostra di conoscere il testo omerico, perché riprende l’aggettivo abituale «concavi», con cui venivano indicate le navi greche, ma anche interpreta personalmente il senso simbolico del viaggio per mare, che produce un cambiamento esistenziale. Non si tratta infatti solo di un mutamento geografico, ossia di uno spostarsi dalla terra al mare, ma soprattutto di un mutamento interiore: Ulisse passa dalla certezza – stando con i piedi saldi sulla propria terra, di cui è re – all’incertezza provocata dal moto fluttuante e ondoso delle guerre e dei viaggi. Ma se per l’uomo greco il mare indicava il pericolo, la possibilità di naufragare per le improvvise tempeste, per l’uomo contemporaneo esso assume il valore dell’inoltrarsi verso zone di insicurezza e di dubbio. Non a caso la poetica di Guccini è spesso pervasa dal non sapere, dall’indefinito, dalla ricerca costante, da un mondo di possibilità.
Il cantautore riprende anche la figura di Ulisse propria del testo omerico, mostrando la sua caparbietà nell’andare come spinto dal destino / verso una guerra, verso l’avventura / e tornare contro ogni vaticino / contro gli dèi e contro la paura, citando indirettamente così la guerra di Troia dell’Iliade e le successive avventure dell’Odissea, con il ritorno a Itaca, sfidando l’ira di Poseidone e il destino predetto anche da Calipso: «Ma se tu sapessi quante pene ti è destino patire prima di giungere in patria»[8]. È un Ulisse che rimane ingabbiato, legato dal viaggio e dalla conoscenza – maledico la mia sorte, non trovo pace –, fino ad arrivare al folle volo oltre l’umano, in una fuga che si conclude drammaticamente con il naufragio. Al termine del brano, Guccini fa sua l’idea foscoliana che soltanto la poesia è capace di rendere eterno ciò che è contingente e caduco, relegato all’interno dei limiti del tempo: donandomi però un’eterna vita / racchiusa in versi, in ritmi, in una rima. La poesia non solo offre il dono dell’eternità all’eroe greco e alle sue vicende, ma anche consente di poter essere sempre riletta con un senso nuovo: dandomi ancora la gioia infinita / di entrare in porti sconosciuti prima. Con Paul Ricoeur, potremmo dire che la storia dell’eroe di Itaca continua a offrirsi al lettore, il quale non solo l’accoglie, ma riflette su di essa, in un circolo ermeneutico infinito. Le vicende di Ulisse, che hanno alla base l’attrazione verso l’ignoto e il desiderio di sperimentare le difficoltà della vita, rimangono gli aspetti essenziali non solo del suo animo, ma dell’uomo stesso, diviso tra il desiderio di tornare a Itaca e quello di imbarcarsi di nuovo.
L’Ulisse politico
Anche il cantautore Lucio Dalla si confronta con la figura di Ulisse nella canzone «Itaca» (1971), composta dal punto di vista dei marinai che accompagnano il capitano nei suoi rischiosi viaggi. Il brano comincia, musicalmente, con il suono di strumenti a pizzico, che rimanda alle sonorità greche e mediterranee, finché non irrompe la voce di Dalla, con un incisivo vocativo «capitano», che dà inizio alle strofe.
Nella canzone Ulisse non viene mai nominato esplicitamente, ma viene evocato attraverso la forza della parola «Itaca» e le qualità che appartengono all’eroe omerico. Il tuo nobile destino si riferisce alle origini aristocratiche e regali di Ulisse, come viene successivamente evidenziato nella frase E se muori, è un re che muore, la tua casa avrà un erede. La figura dell’eroe omerico viene anche descritta attraverso le classiche qualità dell’intelligenza e della scaltrezza: Capitano, che risolvi con l’astuzia ogni avventura. Ma il cantautore bolognese utilizza la figura di Ulisse non tanto per descriverne le avventure, quanto per proporre una dura critica alla disparità tra le classi sociali, in particolare tra quella dei marinai e quella del capitano: Pensi mai al rematore che sua moglie crede morto? L’idea attraente di solcare i mari per conoscere il mondo è messa in contrasto con la responsabilità verso i marinai che, spesso ignari del pensiero del capitano, rischiano la vita tra le onde del mare. Viene sottolineato soprattutto il dolore delle mogli dei rematori, che attenderanno invano nel tempo il ritorno dei mariti, finché anche la loro speranza svanirà.
Forse in queste strofe si può scorgere l’eco delle vicende narrate anche da Jorge Amado nel romanzo Mar Morto (1936), che racconta le rischiose esistenze dei pescatori di Bahia, e in Capitani della spiaggia, in cui si svolgono le avventure dei piccoli orfani, figli di marinai che spesso hanno trovato la morte in mare. In contrapposizione alla vita del re, che è spinto in mare dall’orgoglio, dal potere e dal senso di avventura, Dalla si identifica con il semplice marinaio – Quando io non torno a casa, entrano dentro fame e sete –, che ha la responsabilità di sostentare la propria famiglia.
Il ritornello, apparentemente sgraziato per le voci maschili e poco precise, ripete la facile ma significativa frase: Itaca, Itaca, Itaca, la mia casa ce l’ho solo là. Itaca, Itaca, Itaca, ed a casa io voglio tornare. Un verso semplice, che esprime con spontaneità la forza e il desiderio dei marinai che affrontano il mare con la voglia di ritornare a casa. Dal punto di vista musicale, il battito incessante e ben definito dei tamburi e del basso sembra dare il ritmo preciso per remare tutti insieme, mentre il coro appare quasi come un grido disperato – una preghiera, che arriva fino al cielo – per potersi salvare dal mare.
L’ansia di conoscenza
L’incessante desiderio di sperimentare il mondo viaggiando è espresso anche da Enrico Ruggeri nella canzone «Ulisse» (1996). Molte sono le espressioni e le metafore che egli utilizza nel brano per esprimere questo irrefrenabile desiderio di sapere: Nemmeno il vento è più curioso di me […]. Voglia di consumare, tienimi via […]. Non avremo pace perché nel centro dell’ignoto c’è una luce. La canzone musicalmente imita l’incessante corsa di Ulisse, attraverso una melodia che continua a cambiare, come pure mediante la molteplicità di sonorità create da strumenti acustici ed elettrici. Se, infatti, l’inizio è delicato, quasi una ballata nostalgica, con l’accompagnamento di un pianoforte e una chitarra acustica, improvvisamente si passa a un arrangiamento punk-rock, composto da chitarre elettriche, sintetizzatori, batteria e basso, quasi a portare l’ascoltatore verso l’Andiamo incontro all’avventura con le vele al vento, e a spingerlo a bere al giorno che verrà.
Nell’«Ulisse» di Ruggeri troviamo anche libertà interpretative rispetto al testo omerico: se in quest’ultimo il desiderio dell’eroe è di ritornare a Itaca per rivedere Penelope, come l’eroe dichiara sin dal libro V dell’Odissea, rispondendo a Calipso: «Ma anche così desidero e voglio ogni giorno giungere a casa e vedere il giorno del ritorno»[9], nella canzone egli è in preda a un furor che lo continua a spingere per i mari. Perciò canta: Non posso scegliere una vita non mia […], magari un giorno verrò, rimanere da soli è difficile, ma l’abitudine a correre è troppo forte. Queste espressioni lasciano intravedere un Ulisse che non è interessato a tornare a casa, da Penelope, nonostante la fatica della solitudine e il rischio di naufragare, come mostra il verso conclusivo della canzone: Se torno vivo non so.
Ulisse tra hip-hop e rap
Una singolare architettura stilistica è presentata dal brano «Ulisse» (2020) del duo Claver Gold e Murubutu. Essi, nell’album Infernum, rileggono musicalmente alcuni passaggi dell’Inferno dantesco in chiave hip-hop e rap. Nella canzone «Ulisse», da un semplice arpeggio di ukulele con una linea di archi si genera, per contrasto, un canto, narrativamente complesso, che rilegge finemente l’Ulisse dell’interpretazione dantesca.
La canzone inizia con una poetica personificazione del mare, che scrive, canta rime al rostro delle barche, quasi raccontando, come gli antichi aedi, le storie e le gesta antiche e mitiche dei popoli. Successivamente l’io narrativo passa a raccontare la propria storia di navigazione lungo le coste barbare, dopo aver navigato per porti persi ad arte sulle rocce carsiche. Già in questi pochi versi vediamo come i due rapper utilizzino le sonorità aspre della lingua italiana, con l’insistenza delle allitterazioni (bar, por, per, car) delle parole per trasmettere il senso dell’arditezza del viaggio.
Il sapere per Ulisse è frutto dell’esperienza, data dai sensi – E gli occhi immersi fra i miei sensi che hanno sempre sete –, con la sinestesia degli occhi che hanno sete, che esprimono con efficacia poetica lo sguardo dell’eroe. Egli sembra scrutare sempre l’orizzonte per intravedere una nuova terra su cui approdare: una corsa alla conoscenza, che provoca il folle volo della fantasia, che richiama il verso di Dante «de’ remi facemmo ali al folle volo»[10].
Ma se per il Sommo Poeta la follia del navigare di Ulisse è andare oltre le Colonne d’Ercole, per i due cantanti la fantasia è l’aspetto che porta alla follia, quasi una potenza che offusca i contorni della realtà. La terminologia di questi passaggi appartiene infatti all’ambito semantico dell’onirico: Sogno il ritorno per tornare via […], voci di sirene offuscano la mente […], il mare si farà bollente e il ricordo latente. Pertanto, nella canzone la sete di conoscenza sembra offuscare la mente, abbagliare, irretire, pietrificare lo sguardo di chi guarda a essa, portare al limite il sapere in terre senza gente / ogni capello era un serpente, introducendo così anche il mito della Gorgone, forse con riferimento a una delle tre furie presenti nel canto IX dell’Inferno, davanti alla quale Dante deve coprirsi gli occhi per non rimanere pietrificato.
E mentre Ulisse è irretito in questa corsa, nella sua mente sobbalzano improvvisi momenti di desiderio di casa e della sposa, come alcune inattese nostalgie: Lei sta aspettando il mio ritorno, poi disfa la tela. Visione nitida, ho visto me stesso e l’isola. Anche la forza di questa nostalgia non è sufficiente per trattenere Ulisse dal peccato di hybris. Questa, se per la mentalità greca era il peccato di tracotanza nello sfidare il potere degli dèi, per Dante consiste nell’aver intrapreso un viaggio ultraterreno senza l’umiltà, ossia «senza far conto della rivelazione divina e dei suoi divieti semplici e arcani»[11].
Murubutu e Claver Gold improvvisamente compiono un’associazione che ha il senso di un volo pindarico tra l’antico e il moderno, con un collegamento tra le navi dei marinai – che ricordano le condizioni dei rematori della canzone «Itaca» di Dalla – e la situazione attuale della tratta dei migranti nel Mediterraneo, stivati nei barconi: Esseri umani come schiavi dentro navi cargo / nel porto gelido letargo come in un embargo. «Navi cargo» ed «embargo» sono infatti termini estranei al lessico dantesco, che improvvisamente spostano l’attenzione su contesti attuali e drammatici. Essi sono come un dardo veloce all’interno della concitata narrazione dell’Odissea, che non passa inosservato, indicando e suggerendo tematiche attuali, per poi ritornare alla veloce serie di avventure dell’eroe greco.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Per ricordare le tappe del viaggio di Ulisse, i due cantanti utilizzano, in un climax ascendente, alcune anafore e allitterazioni con il suono «s», che danno un senso di velocità e, come il vento, spingono l’ascoltatore a seguire le peripezie dell’eroe greco: Io che vidi le eclissi, che vinsi Calipso / che vinsi gli abissi fra gli istmi mai visti / che vinsi e sconfissi, sì, Scilla e Cariddi / ora riposo sui fondali dell’Andalusia. Qui viene cantato un Ulisse che sfidò il fato fino all’ultima tempesta, catturato dall’irrefrenabile desiderio di conoscenza e di avventura. Egli conclude il suo viaggio con l’affermazione: Tutto quel che vedi a me non basta mai, deciso ad andare anche oltre i confini dello scibile, rischiando di perdere e di perdersi, ma rimanendo fedele nel seguire «virtute e canoscenza».
Conclusioni
Come abbiamo potuto osservare in questo itinerario musicale, Ulisse è un simbolo dell’uomo in costante viaggio, che porta con sé tensioni antropologiche che trascendono le differenti epoche storiche. Egli vive infatti nella dinamica tra la considerazione dei propri limiti umani e la ricerca di un oltre, che appare sempre infinito e lontano, ma anche visibile e raggiungibile. Il mito di Odisseo comprende il desiderio di spingersi nel mare aperto, con nuove rotte da definire, ma con una continua nostalgia della casa, con il continuo desiderio di sedentarietà, di certezza. Questo mito, inoltre, riflette il senso di individualità, di autodeterminazione e, al tempo stesso, la necessità di avere dei compagni con cui stabilire un patto di fiducia e di alleanza. «Errare» – nel doppio significato di «viaggiare» e di «sbagliare» – è la condizione esistenziale di Ulisse e, dunque, dell’essere umano in ricerca. Il rischio di abbagli, di valutazioni erronee e di smarrimenti è provocato non solo dall’orgoglio, ma anche dal desiderio di non limitarsi a solcare le vie e le rotte già tracciate, provando a navigare laddove le acque sono più profonde e non ancora conosciute.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2023
Riproduzione riservata
***
[1]. Omero, Odissea, I, 1.
[2]. Treccani, voce «polìtropo», in www.treccani.it/vocabolario/politropo/
[3]. Come scrive anche il cantautore Roberto Vecchioni nel brano «L’ultimo spettacolo» (1977): Ascolta, ero partito per cantare / uomini grandi dietro grandi scudi / e ho visto uomini piccoli ammazzare / piccoli, goffi, disperati e nudi…, che richiama l’idea del celebre frammento de Lo scudo perduto, scritto dal poeta greco Archiloco (VII secolo a.C.): «Qualcuno dei Sai si vanta dello scudo che presso un cespuglio, / arma impeccabile, ho abbandonato non volendo; / ma ho salvato me stesso. Che mi importa quello scudo?».
[4]. «Dov’Ercule segnò li suoi riguardi, / acciò che l’uom più oltre non si metta» (Dante Alighieri, Divina Commedia. Inferno, XXVI, 108).
[5]. Ivi, XXVI, 117.
[6]. A. Sparagna, Convivio. Dante e i cantori popolari, Firenze, Finisterre 2021, 7 s.
[7]. Cfr www.youtube.com/watch?v=yiszTFH_ZrI
[8]. Omero, Odissea, V, 206.
[9]. Omero, Odissea, V, 219-220.
[10]. Dante Alighieri, Divina Commedia. Inferno, XXVI, 125.
[11]. V. Sermonti, L’Inferno di Dante, Milano, Garzanti, 2021.