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Musica Musica classica

L’addio al maestro Claudio Abbado

Virgilio Fantuzzi, Doriana Laraia

15 Febbraio 2014

Quaderno 3928

Claudio Abbado (Archiv Cordula Groth)

L’addio al Maestro Claudio Abbado, morto lo scorso 20 gennaio a Bologna consumato da una lunga malattia, è stato contrassegnato da quella sobrietà che fu una nota costante della sua vita. Rifiutando il nome pomposo di Maestro, aveva scelto come punti di orientamento il rigore, con il quale si dedicava senza riserve alla musica, e il pudore, una sorta di naturale riserbo, con il quale ammantava i rapporti personali più intimi.

La camera ardente è stata allestita nella chiesa romanica dei Santi Vitale e Agricola, che fa parte del complesso delle sette chiese di Santo Stefano, ambiente di alta suggestione, che sorge vicino alla sua casa bolognese, nel quale, finché la malattia glielo ha consentito, si recava di tanto in tanto come in un luogo che gli ispirava un senso di raccoglimento.

Migliaia di persone, precedute dai familiari più stretti e dal presidente Giorgio Napolitano con la signora Clio, hanno sostato accanto alla bara per rivolgere l’ultimo saluto a un uomo che ha contribui­to a tenere alto nel mondo il nome dell’Italia, sempre intento a suscitare e a realizzare sogni di bellezza.

Grandezza e umiltà

La notizia del suo commiato dalla vita terrena ha suscitato intenso dolore in tutti coloro che lo hanno ammirato e seguito, attratti dal fascino che emanava dal suo modo di rendere viva la musica. Nessuno ha potuto sottrarsi alla sensazione di vuoto provocata dalla perdita di colui che, non a torto, era considerato un gigante del podio, interprete eccelso, direttore delle più prestigiose istituzioni internazionali: la Scala di Milano, la Staatsoper di Vienna, la London Symphony Orchestra, i Berliner Philarmoniker…

Creatore di orchestre giovanili, come la European Community Youth Orchestra, la Gustav Mahler Jugendorchester e l’Orchestra Mozart, nata per ultima nel 2004 e costretta a chiudere i battenti poco tempo fa per mancanza di fondi, si è prodigato per diffondere la cultura musicale partendo dalle fondamenta: l’amore per la musica che ha saputo coltivare nei musicisti delle generazioni successive alla sua.

Abbado metteva in sintonia grandezza e umiltà o, per meglio dire, poneva l’umiltà come fondamento della sua grandezza. Spesse volte ha unito la musica con le altre arti, mettendo in comunicazione musica e teatro, musica e pittura, musica e architettura… Ma al centro di tutto ha posto il suo interesse per l’uomo.

Quando concludeva i suoi concerti, aveva sul volto un sorriso luminoso. Irradiava gioia. La trasmetteva a coloro che avevano suonato sotto la sua direzione e a coloro che lo avevano ascoltato, rapiti e come travolti da un flusso di entusiasmo. La musica era la sua vita, nel senso che ogni nota traeva forza dal suo modo di intendere e concepire i rapporti umani, rapporti che, a loro volta, confluivano nella musica e la facevano lievitare dal di dentro.

Seguirlo in viaggio, quando si spostava da un luogo a un altro con le «sue» orchestre, era come abbandonarsi a un’avventura che sembrava oltrepassare i confini dell’umano per rasentare l’esperienza mistica o immergersi in essa. La musica e le sue meravigliose regole sono state per lui criteri di convivenza sociale e umana.

Non si può suonare in armonia se non si è capaci di vivere in armonia; e per poter vivere in armonia, è necessario, in qualche modo, oltrepassare i limiti di quell’orizzonte ristretto all’interno del quale ciascuno tende a rinchiudere la propria esistenza.

Su questa base si sviluppava quel senso di reciproco rispetto, di coinvolgimento, di crescita umana e artistica che contagiava tutti coloro che lavoravano con lui. All’interno del gruppo i rapporti personali erano un esempio concreto di quello che può essere la ricerca del bene comune, dove quello che ciascuno dà agli altri non viene sommato ma moltiplicato, e la vita del gruppo si fa comunità, comunione d’intenti che consente di ottenere risultati superiori a ogni aspettativa.

La musica come impegno civile

I discepoli da lui forgiati, diventati a loro volta direttori d’orchestra di fama internazionale, da Daniel Harding a Diego Matheuz e Gustavo Dudamel, ricordano il suo insegnamento. «Ascoltate!», diceva in continuazione. A ciascun musicista concedeva la libertà di raggiungere il suono giusto ascoltando il suono degli altri. Alla fine, il risultato era perfetto. Vivere insieme, suonare insieme, ascoltarsi diventa un modello, un metodo che può essere applicato con efficacia a ogni altro genere di attività: civile, sociale, politica…

Nel periodo in cui fu direttore stabile alla Scala, dal 1968 al 1986, era solito organizzare concerti nelle fabbriche, aprire le porte del teatro agli studenti perché potessero assistere alle prove. Anche recentemente, a Bologna, portava la musica negli ospedali e nelle carceri. Credeva che la musica avesse il potere di risarcire l’uomo delle privazioni prodotte dall’emarginazione, dalla miseria, dall’abbandono…

Da anni collaborava con il cosiddetto «Sistema», creato in Venezuela da José Antonio Abreu, che ha fatto nascere una rete di scuole e di orchestre alle quali hanno potuto accedere decine e decine di ragazzi sottratti al degrado sociale e morale che affligge i barrios più poveri di Caracas e di altre città.

Il 30 agosto scorso Abbado era stato nominato senatore a vita dal Capo dello Stato. Il progredire della malattia gli ha impedito di varcare la soglia di Palazzo Madama. Nel commemorare il collega defunto davanti all’assemblea del Senato, il presidente Pietro Grasso ha voluto ricordare i motivi per i quali gli era stato conferito questa onorificenza: «Una vita nel segno dell’arte, intesa non come esercizio e manifestazione elitaria di innato talento, ma come ricerca instancabile del senso dell’esistenza e del senso dell’etica, come dono agli altri, come impegno civile».

Figlio di un violinista, Michelangelo, che insegnava al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, e di una pianista, Carmela, siciliana e scrittrice di favole per bambini, Claudio era rimasto affascinato quando, a 7 anni, ascoltò per la prima volta i Nocturnes di Debussy diretti da Antonio Guarnieri.

Il suo entusiasmo di bambino si trasformò ben presto nella determinazione di arrivare lui stesso a dirigere un giorno quella musica che lo aveva trasportato in un mondo d’incanto. Negli anni trascorsi prima di raggiungere la meta dei suoi sogni infantili, si può dire che Abbado non abbia mai perso la semplicità e il candore delle sue origini.

Era un uomo mite e accessibile a tutti. Chi ha avuto la possibilità di incontrarlo a tu per tu non dimenticherà mai i suoi occhi intensi e penetranti che non distoglieva dall’interlocutore. Sondava con delicatezza le emozioni di chi gli stava davanti ed esprimeva con fiducia le sue.

A chi gli chiedeva se nel 2000, quando era stato operato d’urgenza per un tumore allo stomaco, avesse avuto paura di morire, rispondeva: «Sì, e tanta». Ma aggiungeva poi che la malattia gli aveva insegnato a credere nei valori più autentici: gli affetti e l’amicizia, che non potevano mai essere disgiunti dalla sua amata musica.

Considerò la musica come la sua terapia. Dopo pochi mesi, nel febbraio 2001, affrontò due vere e proprie maratone beethoveniane, prima a Roma e poi a Vienna. Magrissimo, ma energico. Scarno nel fisico, ma perentorio come sempre sul podio.

La vita come inesauribile ricerca

Razionalmente laico ed emotivamente spirituale. Sempre alla ricerca, come chi considera la fede non un dono acquisito, ma un territorio aperto a sempre nuove conquiste. Non si stancava mai di scavare in profondità per andare all’essenza delle cose, per ricavarne il frutto migliore. Procedeva in questo modo di agire con il consueto rigore, ma anche con una leggerezza di tocco che lasciava spazio a esplosioni di autentica allegria.

Abbado ha amato profondamente la vita e non ha mai cessato di lottare contro la malattia inesorabile che lo aveva aggredito. L’ultimo suo concerto, memorabile, ha avuto luogo a Lucerna il 26 agosto scorso. Il male si faceva sentire in maniera preoccupante, ma lui non si dava per vinto. Nei camerini si congedò con il consueto sorriso da tutti coloro che gli volevano bene.

Nei giorni precedenti (16-17 agosto), sempre con l’orchestra del Festival di Lucerna, aveva eseguito per l’ultima volta la terza sinfonia «Eroica» di Beethoven. Abbado amava il silenzio non meno della musica. Quello iato misterioso che si inserisce tra un suono e un altro, senza il quale la musica non potrebbe esistere. Lo percepiva come uno spazio segreto e, negli ultimi tempi, tendeva a dilatarlo sempre di più. La Marcia Funebre della terza, diretta a Lucerna, così lenta, quasi presaga dell’avvicinarsi della morte, ne è stato un esempio da brivido. Uno straziante, simbolico congedo.

A Milano, dove era nato nel 1933, negli ultimi tempi tornava a fatica. «È una città — diceva — che pensa troppo al denaro; pochi sembrano preoccuparsi del futuro». Per tornare a dirigere nella sua città, alla Scala, aveva chiesto in cambio, anni fa, che si piantassero nel capoluogo lombardo 90.000 alberi. Assieme all’amico Renzo Piano coltivava il sogno utopico di trasformare la Milano di pietra in una metropoli verde.

La sua casa di Bologna era una sorta di giardino, di cui andava fiero. Olivi, aranci, limoni, una serra vera e propria installata dentro un appartamento, una sinfonia di colori e profumi che gli riempivano il cuore, mentre studiava e ristudiava le partiture da dirigere.

Si definiva, scherzando, «un giardiniere prestato alla musica». Aveva trasformato in una sorta di paradiso terrestre la vasta area che circonda la sua casa nei pressi di Alghero, in Sardegna, tra Fertilia e Capo Caccia, dove aveva ripristinato la macchia rigogliosa e selvaggia come era prima dei danni provocati dalla speculazione edilizia, con l’aggiunta di piante rare, provenienti da ogni parte del mondo, disposte su piani terrazzati che, tra sentieri e scale di pietra, digradano verso il mare.

Parlava pochissimo, e intervistarlo era un tormento almeno quanto ascoltarlo dirigere era un’estasi. Un’intervista con lui era come una sfida all’afasia. Si animava molto quando parlava delle altre sue passioni: il Milan, le piante e qualche buona causa progressista o ecologica.

Don Giovanni Nicolini, ex-direttore della Caritas di Bologna, parroco del carcere della Dozza, il sacerdote che ha frequentato Abbado negli ultimi anni e ne è diventato amico, dice di lui: «Voleva bene ai poveri perché lui stesso era povero». Parole che tendono al paradosso. A chi gli chiede di spiegarsi meglio, don Giovanni risponde: «Claudio era povero, perché per lui la vita non era possesso, ma ricerca. Il mio rapporto con la parola di Dio è lo stesso che lui aveva con la musica: qualcosa di antico, ma sempre nuovo. Perché non si può mai dare niente per scontato».

Copyright © La Civiltà Cattolica 2014
Riproduzione riservata

***

Articolo di libera consultazione.


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L’addio al maestro Claudio Abbado

Virgilio Fantuzzi, Doriana Laraia

Già scrittore de "La Civiltà Cattolica" (1937 - 2019).


15 Febbraio 2014

Quaderno 3928

  • pag. 430
  • Anno 2014
  • Volume I

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